martedì 30 settembre 2014

Art. 18: Ma in che società siamo ridotti a vivere? di Maurizio Scarpa



licenziato
Ma in che società siamo ridotti a vivere? Una società che monetizza la discriminazione, la prevaricazione, il ricatto. Quanto mi costa compiere un’ ingiustizia? Tre mensilità? Sei giovane, vali poco; la tua schiavitù la posso comprare con poco. Un anno di stipendio? Sei vecchio, mi costi di più ma ne vale la pena. Ti sbatto fuori e mi prendo uno schiavo più giovane, più prestante e produttivo. Sei donna e hai avuto l’ardire di andare in maternità? Quando torni, lascio passare sei mesi e poi a casa senza rottura di palle di congedi e permessi… Sei malato. E pretendi di stare nella mia fabbrica? Io ho bisogno di gente che lavora!
Ingiustizia non solo è fatta, ma si spaccia a piene mani e si può comprare legalmente. E’ divenuta una merce come un’altra, ha il suo prezzo e, tutto sommato, a buon mercato. La legge, senza più ritegno e senza cercare alibi, si adegua al volere dei prepotenti.
Io datore di lavoro ho potere di vita e di morte sul tuo reddito. Lo posso ammazzare con una semplice lettera di licenziamento. E se, insieme al tuo reddito, uccido anche la tua dignità di cittadino/ lavoratore, che possiamo farci? è un effetto collaterale. In fondo, anche le bombe intelligenti ammazzano e, come si sa, i padroni non brillano neppure per essere intelligenti. E’ il mercato bellezza.
E’ vero, è il mercato che dispiega, in tutta la sua evidenza, la sua mancanza di valori, di etica. Uno stato fondato sul libero mercato che non ha più cittadini ma sudditi. Schiavi in cerca di reddito. Ricattati e succubi di chi ha il potere di offrirti un lavoro. Schiavi sì perché, con il totale libero arbitrio nel potere di licenziare, anche leggi, contratti di lavoro, Costituzione divengono carta straccia. Sei suddito e non cittadino perché non ti puoi permettere di esigere i tuoi diritti. Il potere del ricatto è più forte dello stato di diritto.
Ma da sempre “filosofia” si coniuga con la matematica. Allora guardiamo qualche dato che cementa i mattoni di questa prigione che stanno costruendo intorno a noi.
Sappiamo tutti che l’articolo 18 della legge 300 è oramai un simulacro di quello che il legislatore nel lontano 1970 scrisse. Già oggi, dopo la riforma Fornero, la tutela contro il licenziamento senza motivo si è drasticamente ridimensionata. Questo è un passaggio del Corriere della Sera (che oggi sostiene pancia a terra Renzi) del 13 aprile 2013 “Oltre un milione di persone sono state licenziate nel 2012. Per l’esattezza: 1.027.462, con un aumento del 13,9% rispetto al 2011. È quanto si evince dal sistema delle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro. Nel solo ultimo trimestre sono stati 329.259 in un aumento del 15,1% sullo stesso periodo 2011.
I DATINell’intero 2012 sono stati attivati circa 10,2 milioni di rapporti di lavoro a fronte di quasi 10,4 milioni cessati, nel complesso, tra dimissioni, pensionamenti, scadenze di contratti e licenziamenti. I licenziamenti registrati nel periodo riguardano sia quelli collettivi, sia quelli individuali (per giusta causa, per giustificato motivo oggettivo o soggettivo).”
Basterebbero queste brevi righe per smentire tutti gli ipocriti, dai politici ai baroni universitari, che parlano di inaccettabili impedimenti per le imprese nell’interrompere un rapporto di lavoro.
Si parla di 10 milioni, dicasi dieci milioni di cessazioni (quindi compresi i contratti a termine) e ben 1 milione di licenziati di contratti a tempo indeterminato. I lavoratori dipendenti privati occupati del 2012 sono stati 12.288.047 (dato INPS), conseguentemente ben l’ 8,35% degli occupati con contratto a tempo indeterminato, nel solo anno 2012, è stato raggiunto da una lettera di licenziamento. Quasi uno su dieci. Questo sarebbe un mercato del lavoro “ingabbiato” da lacci e lacciuoli”. Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò.
Nel 2012 i dati dicono che i disoccupati sono cresciuti di 165.457 unità (-1,3%), ma questo numero non rende giustizia. Una parte importante di quel milione di licenziati con contratto a tempo indeterminato è certamente andata ad ingrossare le file dei contratti a termine. Se i dati statistici (volutamente nascosti) ci fossero forniti scopriremmo che le ore complessivamente lavorate in meno ci direbbero che il lavoro disponibile è diminuito molto, ma molto di più di quelle 165 mila unità dichiarate per il 2012. E se questo calcolo fosse esteso a tutto il periodo della crisi 2008/2014 scopriremmo che le ore di lavoro di lavoro perse, tramutate in posti di lavoro, sarebbe qualche milione .
Che dire in conclusione? Che si è creato uno stato autoritario fondato sull’arbitrio, sul ricatto, sulla passività dei cittadini.
Che fare? La semplicità che è difficile da farsi: proletari e proletarie di tutto il mondo unitevi!

IL PANTANO

Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano. Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco. Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione. 
Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: "Andiamo nel pantano!". E, se si incomincia a confonderli, ribattono: "Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà d’invitarvi a seguire una via migliore?". Oh, sí, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati. 
Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la nostra grande parola della libertà, perché anche noi siamo "liberi" di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso...  
(Lenin, Che fare)

“Quando si saprà tutta la verità su Mps e i responsabili pagheranno?”

Il gruppo consiliare “Sinistra per Siena, Rifondazione Comunista e Siena Si Muove” ha diffuso questo scritto sulla vicenda del Monte dei Paschi.
Sulla drammatica vicenda che ha visto coinvolta la Banca Monte dei Paschi di Siena si rischia che cali il silenzio e vengano rimosse dalla coscienza collettiva le dimensioni del tracollo finanziario, morale ed etico di una intera comunità.
Il trascorrere del tempo ed il verificarsi di nuovi eventi che catturano l’attenzione dell’opinione pubblica senese, concorrono alla rimozione dalla coscienza dei cittadini di tale catastrofico evento.
Ai suddetti elementi occorre aggiungere senz’altro l’illusoria speranza di molti concittadini che le cose, con il trascorrere del tempo, possano sistemarsi. Ma è grave soprattutto il silenzio degli organi di informazione, che se possibile evitano come la peste la trattazione di tale argomento, e quando decidono di affrontarlo, magari attraverso interviste al management della Banca, evitano accuratamente domande imbarazzanti e scomode, sempre attenti a non turbare i “padroni del vapore”, ossequiosi e acquiescenti alle loro risposte.
Peccato però che la realtà sia ben diversa da quella che Profumo e Viola vogliono propinarci, come attestano i pessimi risultati finanziari della loro gestione: la Banca ormai dal 2011 non fa più utili.
Il silenzio gioca a favore dei personaggi a vario titolo implicati nella vicenda (uomini di banca, politici locali e uomini delle istituzioni nazionali).
E’ proprio per questo che non riusciamo a digerire il fatto che su tale scempio non si riesca a fare rapidamente giustizia.
Infatti è ormai prossima la scadenza del mese di aprile 2015, data che vedrà gran parte delle accuse andare in prescrizione, ed allora oltre al danno la città potrebbe subireanche la beffa.
I capi di accusa rivolti dalla Magistratura alla cosiddetta banda del 5%, le multe comminate dalla Consob agli amministratori ed ai revisori dei conti toccano solo alcuni aspetti della vicenda e peraltro neppure i più rilevanti.
Riteniamo pertanto utile ribadire a tutti coloro che hanno la memoria corta che l’operazione da cui tutto discende è l’acquisizione della banca Antonveneta da parte del Gruppo MPS alle assurde condizioni economiche, che tutti ormai conoscono.
Le multe comminate dalla Consob e da Banca d’Italia, che in più fasi hanno colpito un folto gruppo di amministratori e di revisori dei conti della Banca, sono un segno inequivocabile di quanto fosse estesa la connivenza che ha consentito il concretizzarsi di tale folle operazione.
Viene da chiedersi come, a seguito delle recenti sanzioni, non si possano configurare accuse più gravi. E’ pur vero che le inchieste e le successive istruttorie sin qui condotte sono riferibili esclusivamente ai cosiddetti rami secondari della vicenda, e non hanno ancora affrontato il principale snodo.
Per dare concretezza e significato a questa premessa è necessario esplicitare alcuni documenti a cui sino ad oggi non è stato dato il necessario risalto.
Tra questi, per l’indubbia valenza che riveste, in quanto smentisce clamorosamente alcune prese di posizione delle più alte istituzioni del paese, è la relazione redatta dagli ispettori di Banca d’Italia della filiale di Padova del 9 marzo 2007 e avente per oggetto l’analisi patrimoniale, organizzativa ed operativa di banca Antonveneta.
Nella relazione i suddetti funzionari forniscono un’analisi circostanziata sulla reale situazione organizzativa e patrimoniale della Banca Antonveneta, descrivendo in modo inequivocabile uno scenario complessivo gravemente compromesso con specifico riferimento all’operatività delle filiali, alla grave carenza dei controlli sull’erogazione del credito, alla disorganicità dei livelli di responsabilità, “all’insufficiente capacità di governo delle principali variabili gestionali” ed infine al conseguente scarsissimo livello di profittabilità espresso nel corso degli ultimi anni. Peraltro alla data della redazione di tale documento oltre il 16% delle filiali di banca Antonveneta risultava in perdita, anche a causa delle tariffe praticate alla clientela, oltremodo penalizzanti, e che avevano come conseguenza la costante e continua erosione delle quote di mercato.
Com’è possibile che questo documento che evidenziava una situazione estremamente critica della Banca Antonveneta, e che tale permaneva nonostante il sostanzioso intervento finanziario concesso da ABN Amro, non consentisse a Banca d’Italia, in qualità di organo di vigilanza bancaria, di avere ben chiara la situazione patrimoniale ed economica di Banca Antonveneta?
In sostanza, in quegli anni, la Banca Antonveneta si sosteneva solo grazie al prestito di oltre 7 miliardi di Euro che ABN Ambro le aveva concesso. Stante questa inconfutabile situazione, risulta ancor meno giustificabile e ancor più paradossale il prezzo pagato per la suddetta acquisizione. E’ bene ricordare, a tutti i personaggi con la memoria corta, che dei 1.000 sportelli di Banca Antonveneta, 600 erano in molti casi adiacenti alle filiali del Gruppo BMPS, al punto che, ad acquisizione effettuata, è stata necessaria la immediata cessione di 125 filiali.
In sintesi i 18 miliardi di euro di esborso totale (10 per l’acquisizione di Antonveneta e 7.8 per la restituzione del prestito) sono stati pagati per avere 400 sportelli nel nord-est del paese con una media di 600 rapporti di conto corrente a filiale. Se questa non è opera di un folle, e siamo convinti che non lo sia, allora siamo di fronte ad una colossale truffa ai danni degli azionisti, dei dipendenti e della comunità.
Sono stati sempre rispettati i principi che la stessa Banca d’Italia si è data in materia di vigilanza, come:
“controllare che gli intermediari bancari e finanziari siano gestiti in modo sano e prudente. Sano, cioè che svolgano la loro attività d’impresa nel pieno rispetto delle regole. Prudente, cioè che per fare profitti non mettano a rischio la propria esistenza e il denaro loro affidato. Indirizza inoltre la propria azione di vigilanza per favorire la stabilità complessiva, l’efficienza e la competitività del sistema finanziario. Tutela infine la trasparenza e la correttezza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari per rendere sempre migliori i rapporti con la clientela. Per questo:
- emana la normativa tecnica e controlla che venga applicata
- verifica la sana e prudente gestione degli intermediari attraverso l’esame di documentazione e ispezioni presso i loro uffici
- sanziona comportamenti scorretti e poco trasparenti nei confronti della clientela”.
Quanto divario tra queste parole e l’operato di Banca d’Italia in relazione alla acquisizione di Banca Antonveneta da parte del Gruppo MPS!
La conseguente ulteriore domanda è:
perché questo comportamento?
Una possibile ipotesi, ma non ci sono purtroppo riscontri oggettivi al riguardo, potrebbe riferirsi ad un eventuale intervento delle istituzioni finanziarie europee sulla Banca d’Italia e su altre istituzioni governative italiane per chiedere conto della “bufala” rifilata ad un prezzo esorbitante agli olandesi di ABN Amro che con 6 miliardi + 7,8 di prestito, acquisiscono anche Interbanca valutata 950 milioni.
Prezzo comunque di gran lunga inferiore a quello pagato da BMPS al Banco Santander. Sul conto salato pagato dagli olandesi sarebbe interessante, tra l’altro, conoscere nei dettagli l’operato, in tali circostanze, di Banca Popolare di Lodi e di Unipol ed ovviamente quello di Banca d’Italia (con l’allora governatore Fazio).
Comunque ritornando all’argomento principale ci chiediamo come l’organo di vigilanza delle istituzioni finanziarie italiane, pur disponendo di tutte le informazioni sullo stato dei conti e sulle problematiche organizzative ed operative di Banca Antonveneta e nondimeno a conoscenza della situazione patrimoniale del gruppo BMPS, non sia intervenuta per bloccare l’operazione di acquisizione o quantomeno per porre in atto una serie di interventi, ispezioni e verifiche sulla sostenibilità dell’operazione stessa, coerentemente con gli indirizzi normativi che regolano l’attività di vigilanza.
Attività svolte con puntigliosa attenzione dalla stessa istituzione in occasione dell’acquisizione di banca Agricola Mantovana solo pochi anni prima.
Fonte: Gruppo consiliare “Sinistra per Siena, Rifondazione Comunista e Siena Si Muove”

Lo spot ingannevole sul consenso al 40%

renzi-direzione-640L’ottimismo di pla­stica del pre­mier è scosso dalla sco­perta che anche i poteri forti gufano, cer­ti­fi­cando tra l’altro come inu­tili le riforme “epo­cali” già in campo. Renzi veste i panni del cava­liere senza mac­chia e senza paura, e si appella al popolo. Ma il governo è in affanno.
È fal­lita la fon­da­men­tale scom­messa euro­pea, e il seme­stre di pre­si­denza ita­liano scorre nella indif­fe­renza di tutti. Della ago­gnata fles­si­bi­lità non v’è trac­cia, e i fal­chi del nord affi­lano bec­chi ed arti­gli. Arriva invece una stan­gata di una ven­tina di miliardi, che col­pirà anche ser­vizi essen­ziali. La ripresa si allon­tana, i pochi mesi diven­tano mille giorni. Una lunga qua­re­sima, anche per i cre­denti più robusti.
L’Italia del XX secolo, con due guerre mon­diali e 20 anni di fasci­smo, ha saputo affron­tare duri sacri­fici in con­di­zioni ter­ri­bili. E per­fino un son­nac­chioso Prodi ha gal­va­niz­zato il paese sull’entrata nell’euro, bene o male che fosse. Oggi, manca a Renzi un pro­getto com­preso e con­di­viso dal popolo cui si appella. In realtà, un pro­getto Renzi c’è. Ma si volge pri­ma­ria­mente al come man­te­nersi al governo, e non sul che fare con i poteri di governo. Un pro­getto per i gover­nanti, non per i gover­nati. Lo vediamo in fili­grana negli scon­tri sulle riforme isti­tu­zio­nali insieme a quello sul supe­ra­mento dell’art. 18.
Si può mai seria­mente soste­nere che si per­se­guono obiet­tivi di giu­sti­zia sociale ed egua­glianza togliendo i diritti a chi li ha? E per­ché le bar­ri­cate, se l’art. 18 è un pezzo di archeo­lo­gia poli­tica e sin­da­cale che non tutela nes­suno? Se non difende il lavo­ra­tore, nem­meno offende il padrone.
La que­stione dell’art. 18 ha due punti focali: l’indennizzo, e il rein­te­gro nel posto di lavoro. Il governo alza la bar­riera sul secondo, e non sul primo. Per­ché? L’indennizzo ha la valenza indi­vi­duale di un ristoro eco­no­mico per il lavo­ra­tore leso nei suoi diritti. Il rein­te­gro va oltre. Can­cel­larlo signi­fica con­sen­tire al padrone di libe­rarsi dei lavo­ra­tori sco­modi, che tur­bano l’esercizio del potere di comando senza giun­gere a com­por­ta­menti che dareb­bero causa per un licen­zia­mento. Chi oserà mai par­lare sulle con­di­zioni di lavoro, le misure di sicu­rezza, lo sfrut­ta­mento? Chi rischierà di orga­niz­zare i com­pa­gni di lavoro nella pro­te­sta? Si coglie allora che can­cel­lare il rein­te­gro è fun­zio­nale all’espulsione del sin­da­cato. Togliendo l’ostacolo all’allontanamento del mili­tante sin­da­ca­liz­zato, è un colpo alle orga­niz­za­zioni dei lavo­ra­tori. Un dise­gno com­ple­men­tare al pla­teale rifiuto gover­na­tivo della concertazione.
Qui vediamo il nesso con le riforme isti­tu­zio­nali. Si col­pi­sce la rap­pre­sen­ta­ti­vità del par­la­mento, con un senato non elet­tivo, e una legge elet­to­rale che con premi iper­mag­gio­ri­tari e soglie altis­sime toglie voce a milioni di cit­ta­dini e pone osta­coli dif­fi­cil­mente supe­ra­bili ai new­co­mer. Ma col­pire il par­la­mento signi­fica col­pire i sog­getti poli­tici che in esso agi­scono, e tro­vano la sede per rivol­gersi al paese. L’esito ultimo è inde­bo­lire le forme orga­niz­zate della poli­tica, che si chia­mino par­titi, movi­menti o quant’altro. E biso­gna con­si­de­rare che altri colpi sono stati già inferti, con la can­cel­la­zione del finan­zia­mento pub­blico, e il ricorso a pri­ma­rie aperte, incom­pa­ti­bili con qual­siasi modello di par­tito orga­niz­zato. Una pri­ma­ria aperta ha dato a Renzi il potere asso­luto sul Pd, facendo pre­va­lere il voto dei non iscritti su quello degli iscritti. E la sto­ria con­ti­nua con la raf­fi­gu­ra­zione del par­tito come luogo in cui una mag­gio­ranza comanda e una mino­ranza obbedisce.
Vanno nel mirino le orga­niz­za­zioni poli­ti­che e sin­da­cali. La par­tita in atto è inde­bo­lire o azze­rare i corpi inter­medi che la Costi­tu­zione defi­ni­sce come for­ma­zioni sociali entro le quali si svolge la per­so­na­lità (art. 2), oltre che stru­menti di par­te­ci­pa­zione (artt. 3, co. 2, 39, 49). Per que­sto è un pro­getto sul come man­te­nersi al governo. Punta a libe­rare i gover­nanti dalla fasti­diosa incom­benza di tener conto di quello che il paese pensa, nelle sedi in cui si forma una volontà effet­ti­va­mente col­let­tiva, e non in ordine sparso, magari attra­verso una mail gabel­lata come con­sul­ta­zione popolare.
Non basta richia­mare, a soste­gno, le colpe di par­titi e sin­da­cati. Ancor meno basta la pub­bli­cità ingan­ne­vole sul con­senso del 40% del 58% degli aventi diritto nelle ele­zioni euro­pee. È in gioco la par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica assunta in Costi­tu­zione a fon­da­mento della Repub­blica, diret­ta­mente con­trap­po­sta al popu­li­smo ple­bi­sci­ta­rio e lea­de­ri­stico. E il dibat­tito sull’art. 18 nella dire­zione Pd potrebbe avere rilievo oltre la spe­ci­fica questione.
Sono que­ste le pre­oc­cu­pa­zioni che con­du­cono gufi e par­ruc­coni a par­lare di auto­ri­ta­ri­smo stri­sciante. Certo, i poteri forti gufano da destra, e per altri motivi. Renzi ne trae l’orgoglio di non avere padroni, o padrini. Pren­diamo atto. Vogliamo solo essere sicuri che non si senta padrone di noi tutti.

MASSIMO VILLONE
da il manifesto

Ideologia e forza, senza mediatori

Ideologia e forza, senza mediatori
Renzi lo aveva promesso appena un paio di giorni prima: sarò violento. Chi pensava che scherzasse si deve ricredere. O almeno prendere atto che siamo in presenza – da tre anni a questa parte, ma con più velocità da quando il guitto di Pontassieve siede a palazzo Chigi – di un cambio di regime in molti sensi “epocale”.
La violenza discende dalle cose, ovvero dalla gravità irrimediabile della crisi economica – specialmente per un paese con le nostre caratteristiche – e dalla precarietà assoluta della “nuova classe dirigente”. Un pugno di uomini e donne selezionato con il metodo del casting (tanto quanto il parterre berlusconiano), rapidamente formato a sparare poche frasi sempre uguali (“lo facciamo per gli italiani”, “ci interessiamo dei precari”, “non facciamo ideologia, ma cose concrete”, ecc), consapevole di essere stato messo su quella poltrona per un miracolo del caso. E altrettanto consapevole che la propria stagione da prima pagina durerà poco. Altri già sono in seduta di formazione per sostituirli, tanto non serve sapere granché. Il copione verrà loro consegnato giorno per giorno, le “cose da fare” vengono scritte a Bruxelles, Francoforte e Washington. Qui si esegue e basta. Violentemente e rapidamente.
Lo ha ammesso lo stesso Renzi, in pieno psicodramma della direzione Pd, indicando ai vecchi tromboni ex Pci la porta di uscita definitiva dalle poltrone importanti: “se questo programma non lo realizziamo noi, verrà la Troika a farlo”. Tutto il residuo problema della “politica” nazionale è dunque individuare chi lo fa, non che cosa fare. Renzi è stato scelto, per ora. Perché anche a Bruxelles sanno benissimo che un governo troppo facilmente individuabile come “della Troika” richiamerebbe su di sé troppa opposizione sociale e politica; mentre un esecutivo capace di captare per qualche tempo “consenso” può silenziare più facilmente le varie reazioni (da quelle popolari fino a quelle della “casta perenne”).
Il cambiamento è violento. Sempre. Implica gente che perde molto, a volte tutto: diritti, posto di lavoro, certezze, salario, patrimonio, vita. Significa che qualcuno vince altrettanto molto, guadagnando in ricchezze, patrimonio, status, potere sugli altri.
Il cambiamento rivoluzionario porta i molti al posto di comando, li libera dallo sfruttamento, consegna certezze in termini da casa, reddito, vita, vecchiaia, salute, ruolo sociale. E toglie a pochi ricchezza, patrimoni, potere decisionale, ruolo, centralità. In qualche caso anche la vita.
Anche il cambiamento reazionario è violento. Ma dall'alto, dalle logge dei pochi che sparano sulla folla quaggiù in basso, dove tutti siano indistinguibili come formiche che vagano in ogni direzione.
Non è banale però vedere come questo procedere da carro armato funziona, di quali strumenti si serve. E che si riducono soltanto a due: ideologia e forza.
La “comunicazione” renziana è un concentrato di ideologia liberista sapientemente condito in maniere plebee (deve captare “consenso”) e concentrato sui capisaldi del modello sociale in via di demolizione: lavoro, Costituzione, welfare, poteri, corpi intermedi, democrazia. Su ogni punto si va a una concentrazione di potere dall'alto, in nome ora del “risparmio” ora dell'”efficienza”, raggrumando in un solo discorso “coerente” le vulgate populistiche e l'ideologia aziendale.
Nessun argomento che usa è minimamente vero. È bastato un D'Alema ancora memore di studi giovanili per smontarli uno alla volta.
Inutilmente. Perché la logica con cui questa banda di “ggiòvani” governanti viene guidata è puramente militare. Non esiste alcuna possibilità di “confronto” sulle proposte, i programmi, i diversi interessi sociali. L'ideologia stabilisce l'indirizzo, la tattica serve solo a confondere gli occasionali “resistenti” interni, le decisioni sono prese prima ancora di cominciare. Poi parte la carica...
Ideologia per addormentare e spaventare i molti, sballottati tra un presente infame e promesse mirabolanti; forza per imporre quanto deciso a una platea di traffichini della politica, cresciuti e formati in “tempi di pace”, quelli del “consociativismo” che non negava a nessun soggetto politico-sociale – nemmeno ai centri sociali più radicali – il diritto a un'esistenza (in proporzione) confortevole.
Paradossalmente, l'eliminazione (quasi) definitiva della “vecchia guardia ex Pci” rischia di avere un effetto (moderatamente) positivo. Viene infatti troncato quel cordone ombelicale, tutto ideologico e per nulla confermato dagli atti politici, per cui chi veniva da quella storia era in fondo “un compagno”, “un progressista”, con cui la mediazione andava cercata sempre e comunque. Specie in vista di una tornata elettorale.
Quel piccolo mondo antico è finito. La mediazione – sociale e politica – non abita più qui. E un conflitto condotto dall'alto con tempi e modalità tutte “ideologico-militari” non può essere affrontato con le vecchie abitudini, anche quelle più “radicali”. Lo spiazzamento sconcertato con cui i Landini, le Camusso, i D'Alema e i Bersani stanno subendo l'iniziativa renziana è totalmente identico a quello che percorre vaste aree della "sinistra radicale" e del cosiddetto antagonismo. Tutti a cercare la via per ripristinare le condizioni precedenti, a ricercare un “punto di equilibrio” con chi è stato mandato per distruggere i vecchi equilibri.
Non si possono fare “cartelli elettorali” che mantengano un legame con il “sistema Pd” perché quello è l'avversario principale.
Non si può più far finta di “assediare” il potere con piccoli cortei e una composizione sociale raffazzonata.
Non si può più giocare ognuno per conto proprio davanti a un esercito nemico che si muove come tale, usando ideologia e forza bruta.
Non si può più “scadenzare” il conflitto sui propri tempi, perché la partita si gioca finché è almeno formalmente aperta.
Dopo è un'altra fase.

“Ci stiamo avvicinando al maggior disastro finanziario nella storia del mondo”

MERKEL-OBAMA-BARROSO 
Le cinque maggiori banche americane hanno tutte un’esposizione ai derivati superiore ai 40 trilioni di dollari. A quando il nuovo collasso del sistema bancario americano? E Deutsche Bank vanta la maggiore esposizione in derivati di qualunque istituto americano, vale a dire oltre 75 trilioni di dollari (5 volte il Pil europeo e più o meno il Pil del mondo!!)
30 SETTEMBREMicheal Snyder su The Economic Colapse Blog non ha dubbi e per rispondere compie un’interessante analisi sul mondo dei derivati negli Stati Uniti: gli istituti “troppo grandi per fallire” nel paese oggi hanno singolarmente oltre 40 trilioni di dollari di esposizione ai derivati​.
Con un debito nazionale di circa 17.700 miliardi di dollari, 40 trilioni di dollari è una cifra quasi inimmaginabile. E, prosegue l’analista, a differenza di azioni e obbligazioni, i derivati ​​non rappresentano “investimenti” in nulla: sono solo scommesse di carta su ciò che accadrà in futuro. Praticamente una forma di gioco d’azzardo legalizzato e le banche “troppo grandi per fallire”  hanno trasformato Wall Street nel maggiore casinò nella storia del pianeta. Quando questa nuova ​​bolla scoppierà (e scoppierà sicuramente), il dolore che causerà per l’economia globale sarà maggiore di quanto le parole possono descrivere.
Le banche “too big to fail”, continua Snyder, producono enormi profitti attraverso i derivati. Secondo il New York Times, tali istituti “contano quasi 280.000 miliardi dollari di derivati ​​sui loro libri contabili”, anche se la crisi finanziaria del 2008 ha dimostrato quanto sia pericoloso. Le grandi banche hanno poi sofisticati modelli computerizzati che dovrebbero mantenere il sistema stabile e aiutarli a gestire questi rischi. Ma tutti questi modelli sono basati solo su ipotesi ideate da persone in carne ed ossa. E quando un “evento cigno nero” arriva (come ad esempio una guerra, una grave pandemia, una catastrofe naturale apocalittica o un crollo di un grande istituto finanziario) questi modelli si sgretolano in pochissimo tempo.
Snyder riporta un breve estratto da un articolo di Forbes che descrive quello che è successo al mercato dei derivati dopo il tonfo di Lehman Brothers nel 2008:
“Torniamo al crollo finanziario del 2008 e che cosa vediamo? L’America stava celebrando: l’economia era in piena espansione, tutti sembravano essere sempre più ricchi, anche se i segnali di pericolo erano dappertutto: troppi prestiti, investimenti folli, banche avide, regolatori addormentati al volante, politici desiderosi di promuovere la casa di proprietà per chi non poteva permetterselo, e gli analisti a predire ciò non poteva che finire male. E poi, quando Lehman Bros è caduta, il sistema finanziario e l’economia mondiale sono quasi crollate. Perché? La causa principale non era solo il prestito sconsiderato e la assunzione di rischi eccessivi. Il problema era la mancanza di trasparenza. Dopo il crollo di Lehman, nessuno riusciva a capire i rischi per la negoziazione di derivati ​​e quindi nessuna banca voleva prestare o scambi con qualsiasi altra banca. Dato che tutte le grandi banche erano state coinvolti in misura sconosciuta nel commercio di derivati ​​rischiosi, nessuno poteva dire quale poteva essere il prossimo istituto finanziario a implodere”.
Dopo l’ultima crisi finanziaria, prosegue Snyder, ci avevano promesso che questo sarebbe stato risolto. Ma invece il problema è diventato molto più grande. Da quando la bolla immobiliare è scoppiata nel 2007, il valore dei contratti derivati ​​in tutto il mondo è salito a circa 500 miliardi di dollari. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, si tratta oggi dell’incredibile cifra di 710.000 miliardi di dollari. E naturalmente il cuore di questa bolla dei derivati si trova a Wall Street. A tal proposito, Snyder pubblica il rapporto trimestrale più recente della Occ secondo cui le cinque maggiori banche “troppo grandi per fallire” dispongono tutte di oltre 40 trilioni di dollari in esposizione ai derivati.
JPMorgan Chase
Asset complessivi: circa 2,5 trilioni di dollari
Esposizione ai derivati: oltre 67 trilioni di dollari
Citibank
Asset totali: quasi 1,9 trilioni di dollari
Esposizione ai derivati: circa 60 trilioni di dollari
Goldman Sachs
Asset totali: poco meno di un trilione di dollari
Esposizione ai derivati: oltre 54 trilioni di dollari
Bank Of America
Asset totali: 2,1 trilioni di dollari
Esposizione ai derivati: oltre 54 trilioni di dollari
Morgan Stanley
Asset totali: 831 milioni di dollari
Esposizione ai derivati: oltre 44 trilioni di dollari
E non è certo un problema solo americano. Come ha riportato recentemente anche Zero Hedge, il gigante europeo, Deutsche Bank vanta la maggiore esposizione in derivati di qualunque istituto americano, vale a dire oltre 75 trilioni di dollari (5 volte il Pil europeo e più o meno il Pil del mondo!!)
Per coloro che cercano con ansia il giorno in cui questi colossi imploderanno, è necessario tenere a mente che quando lo faranno si porteranno dietro tutto il sistema, ormai completamente dipendente da queste banche. Ci avevano detto che qualcosa sarebbe stato fatto dopo l’ultima crisi, ma in realtà i giganti finanziari si sono, da allora, potuti allargare di un 37% complessivo. Oggi, inoltre, le cinque maggiori banche del paese rappresentano il 42 per cento di tutti i prestiti negli Stati Uniti, e le sei maggiori controllano il 67 per cento di tutte le attività bancarie.
Ci stiamo pericolosamente avvicinando verso il maggior disastro finanziario nella storia del mondo, e, conclude Snyder, nessuno sta facendo nulla per impedirlo.

lunedì 29 settembre 2014

Cancellare l’articolo 18 indebolisce la legalità di Domenico Gallo




Il progetto di abolire le tutele previste dall’art. 18 non rappresenta un’innovazione che apre la strada al futuro ma una regressione ad un’epoca in cui le relazioni industriali erano regolate esclusivamente dai rapporti di forza a prescindere dal diritto.

Di fronte alle mistificazioni con le quali si tenta di ingannare l’opinione pubblica, occorre precisare che l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori non interviene sulla libertà di licenziamento, che resta regolata dal principio della giusta causa o del giustificato motivo; si tratta di una norma-sanzione che reprime il licenziamento ingiustificato, cioè illegale, eliminandone gli effetti.

L’abolizione dell’art. 18, quindi, non incide sulla libertà di licenziamento (che resta regolata dalla legge), bensì sulla repressione del licenziamento illegale, consentendo ai forti ed ai furbi di sottrarsi all’osservanza delle regole.
Tale sanzione rappresenta l’architrave per la tenuta di tutto l’edificio dei diritti, sancito dallo Statuto dei diritti dei lavoratori, che tutela la dignità del cittadino lavoratore nei confronti del potere privato.

Infatti da lungo tempo la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione hanno rilevato che i diritti nascenti dal rapporto di lavoro possono essere esercitati, in costanza di rapporto, soltanto in presenza di un regime di stabilità reale.

Il riconoscimento della dignità del cittadino lavoratore impone che sia assicurata la tutela contro il licenziamento ingiustificato come richiede l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

La Costituzione italiana assicura il godimento dei diritti di libertà a tutti e garantisce al cittadino lavoratore una serie di diritti (retribuzione adeguata, durata massima della giornata lavorativa, riposo settimanale, ferie annuali e retribuite) che impediscono che la prestazione di lavoro possa essere ridotta al rango di una semplice merce compravenduta sul mercato dei fattori produttivi.

Allo Statuto dei diritti dei lavoratori è stata riconosciuta la funzione di aver fatto valere la Costituzione anche nei confronti del potere privato introducendola in un vasto territorio da cui era stata rigorosamente esclusa.

L’eliminazione della norma che sancisce la tenuta dello Statuto, consegna ai poteri privati la libertà di sottrarsi all’osservanza delle leggi e dei principi costituzionali e trasforma la prestazione di lavoro in una merce, consentendo che venga calpestata al massimo grado la dignità dei cittadini-lavoratori, ed insidiata la libertà delle organizzazioni sindacali sgradite al potere privato, che potranno essere messe fuori dai cancelli della fabbrica, sbarazzandosi dei lavoratori sindacalizzati, come avveniva negli anni 50 del secolo scorso.

Che non si tratti di un pericolo puramente teorico è dimostrato dall’esperienza di questi ultimi anni che ci hanno fatto assistere al tentativo di un potere privato di sbarazzarsi del più forte sindacato metalmeccanico europeo; tentativo che è stato bloccato soltanto per l’intervento del potere giudiziario, che adesso si cerca di disarmare, smantellando le sanzioni per i comportamenti illegali.

Il killer per conto degli imprenditori ora parla chiaro di Dante Barontini, Contropiano.org

Il killer per conto  degli imprenditori ora parla chiaro

Alla vigilia della presunta "battaglia" nella direzione del Pd, oggi pomeriggio, Renzi si è fatto omaggiare da Fabio Fazio - ormai un'imitazione di Bruno Vespa - per sparare tutto quel che aveva e ha da dire contro i lavoratori. Come sempre, si è esibito in un vortice di rovesciamenti ("voglio abolire la precarietà" è quasi un record...), ma qualcosa di chiaro stavolta gli è uscito fuori. In fondo, per quanto si sia bravi a mentire, se la cosa è troppo grossa non si può coprire.
Citiamo dunque:
"Noi non cancelliamo semplicemente l'art 18, ma tutti i co.co.co, co.co.pro, cancelliamo il precariato e tutte quelle forme di collaborazione che hanno fatto del precariato la forma prevalente del lavoro. Questo diritto che c'è arriva da un giudice, noi vogliamo cancellare questo. Non voglio che la scelta di licenziare o assumere sia in mano ad un giudice, deve essere in mano all'imprenditore. L'importante è che lo Stato non lasci a casa nessuno".
Sui contratti precari affonda nel burro. Le 46 forme contrattuali che centrodestra e centrosinistra hanno regalato alle imprese dalla metà degli anni '0 ad oggi, non sono servite davvero a "rilanciare la crescita"; hanno solo creato un paio di generazioni di lavoratori poveri, ricattati, senza diritti e senza pensione. Dire di voler "superare" questa situazione è insieme facile e demagogico: quei tipi di contratto non servono più alle imprese (hanno complicato il lavoro degli uffici del personale), ma soprattutto con il "contratto unico a tutele crescenti" (e senza più l'art. 18) la precarietà diventerà universale. Se un imprenditore può licenziare chiunque, in qualsiasi momento, gli si ridà in mano un potere di ricatto totalitario.
A Renzi è scappato di bocca esattamente questo concetto, sia pure nelle forme ambigue che gli sono proprie: "Questo diritto che c'è arriva da un giudice, noi vogliamo cancellare questo. Non voglio che la scelta di licenziare o assumere sia in mano ad un giudice, deve essere in mano all'imprenditore".
Nella democrazia liberale - non nel "socialismo" - il giudice applica la legge; e la legge (un sistema di leggi) regola in genere anche i rapporti tra datori di lavoro e dipendenti. Dire che i giudici non devono metter naso sui licenziamenti (soltanto quelli "senza giusta causa", peraltro) signfica dire che non ci deve essere alcuna legge che impedisca all'imprenditore di fare ciò che vuole cn le persone che lavorano per lui. Punto. Significa presentare come "futuro", e addirittura "speranza", la situazione che c'era nell'Ottocento e fino alla metà nel Novecento. Il passato remoto come futuro, non c'è male come "innovazione".
Sulle menzogne, invece, non si è davvero risparmiato, anche quando ha ilustrato alcune cose vere. Per esempio:
"Il sindacato è l'unica impresa che sta sopra i 15 dipendenti e non ha l'articolo 18. È il sindacato, che poi ci viene a fare la lezione".
E' vero che i sindacati, così come i partiti politici, possono licenziare e non c'è un diritto al reintegro sul posto di lavoro. Perché la legge - quel che Renzi vuole eliminare - permette questa differenza di trattamento? Per un buon motivo: il "lavoro nel sindacato", così come quello in un partito politico, non ha (non dovrebbe avere) come obiettivo la produzione di un bene vendibile, ma è un'attività di rappresentanza sociale e/o politica. Un'attività dichiaratamete "di parte", politica in senso stretto e non "neutra" come produrre auto, formaggio o buste paga. Cosa significa? Che se un impegato o funzionario, in un sindacato o in un partito, è "incompatibile con le finalità particolari" che caratterizzzano quel partito o quel sindacato può venire "licienziato" e nessun giudice può farlo rientrare.
Un esempio può servire a chiarire ancora meglio: se un impiegato o funzionario di un partito di sinistra si rivela in realtà un fascista o un infiltrato, chi mai può costringere quell'organizzazione a tenerselo? Vale anche per un partito cattolico o liberale, naturalmente, alle prese con "dipendenti infedeli". Anche gli impiegati della Chiesa, infatti, non sono coperti dall'art. 18; ma Renzi non l'ha mica nominata... In una organizzazione politico-sindacale, insomma, ci si lavora solo se c'è condivisione degli scopi. Nel lavoro dipendente "normale", nella produzione di merci, questo non è necessario. Io possofare auto per Marchionne anche se sono comunista e gli auguro quotidianamente qualche brutta malattia.
Renzi, nelle se sparate retoriche, salta tutti questi passaggi, semplifica, si veste dei luoghi comuni dell'ignorante qualunque. E utilizza al meglio anche la caduta di qualità nel "lavoro sindacale" (e nei partiti politici), nella perdita di "senso della missione" che animava (e dovrebbe animare) quel lavoro. E' un fenomeno in atto da tempo (quanti di voi conoscono gente che "lavorava in Rifondazione", o "lavora in Cgil", e ne parla come di un posto di lavoro qualsiasi, in cui l'unica cosa che conta è lo stipendio?), un degrado della politica che ora viene spazzato via, come i rifiuti in mezzo alla strada.
Lo diciamo sapendo che siamo dentro un cambio di regime, per molti versi inarrestabile perché moltissimo di quel che c'è - sul piano istituzionale, legislativo, delle rappresentanze storiche - è assolutamente indifendibile e odiato dalla stragrande maggioranza della popolazione. Il sindacato "complice" si è guadagnato l'odio e l'ostilità persino dei suoi iscritti, a forza di cedere pezzi sempre più consistenti di diritti, salario, certezze; a forza di accettare precarietà, esternalizzazioni, differenze di trattamento ignobili. La stessa minaccia di uno "sciopero generale", agitata da una contraria agli scioperi come Susanna Camusso, suona assolutamente poco credibile perché esplicitamente condizionato all'eventualità che "il governo decida con un decreto". Persino ora, insomma, la Cgil si preoccupa solo del proprio "ruolo politico", del suo poter sedere a un tavolo di trattativa, piuttosto che del "merito" del Jobs Act.
Una melma in cui Renzi (chi lo ha selezionato e messo nel posto che occupa) è cresciuto come un tumore che ora passa, ramazza tutto e fa pagare i conti a qualcun altro.

Renzi e la nuova destra di Paolo Ciofi


In America, con poche battute, Renzi ha disegnato il ritratto di se stesso. E non è stato un bel vedere. Ha detto che vuole fare con l’Italia ciò che ha fatto Marchionne con la Fiat. Come a dire: chiudiamo l’Italia e trasportiamo a Detroit 60 milioni di italiani. Un’impresa, a dir la verità, piuttosto complicata. Ma tant’è: quando s’incensa l’uomo-simbolo dei nuovi poteri forti, che trasvolano in America e da noi non pagano le tasse, qualche strafalcione è ammesso. D’altra parte, il super manager trasvolatore, che ha resuscitato la rapace famiglia Agnelli, ricambia con passione: benissimo la cancellazione dell’articolo 18. Perché, dice, accresce disagi e disuguaglianze. Lui che ha intascato (a sua insaputa?) una cifra 435 volte superiore a quella di una lavoratore di Pomigliano messo in Cassa integrazione.

Ma le gaffes e gli strafalcioni non finiscono qui. Si domanda il nostro misurato presidente del Consiglio: «Se il reintegro è un obbligo costituzionale, come dice qualcuno (?), perché è valido per le aziende con più di 15 dipendenti e non per quelle sotto»? Ma perché, caro presidente, ci sono stati quelli che si sono ferocemente opposti all’estensione di questo diritto a tutte le aziende, tra cui un tale che si chiama Matteo Renzi. E non si tratta di uno sfacciato caso di omonimia. Insiste però il presidente: «Perché qualcuno ha diritti di serie A se stai in un’azienda di 15 dipendenti e diritti di serie B se i dipendenti sono 14»? Domanda incongrua, giacché se le cose stanno così anche per responsabilità di Renzi, allora la domanda giusta da porre è: perché il solito Matteo vuole applicare il principio di uguaglianza mandando tutti in serie B, ossia rendendo tutti precari senza eccezione alcuna?

Si può essere bischeri anche in gioventù, filosofeggiava il vecchio dc Amintore Fanfani, che essendo toscano conosceva bene i suoi polli. Ma qui non di bischeraggine si tratta, bensì di una chiara e netta scelta di destra, che vuole spogliare le persone del diritto al lavoro, e porre i lavoratori alla mercé del capitale completamente ignudi, nuda merce al pari di tutte le altre merci. Come faccia una sinistra, che continua a denominarsi tale, a trasmutare nei contenuti in una nuova destra interna al capitale, definendo al tempo stesso tale procedimento innovazione e/o rinnovamento, lo spiega in modo ineccepibile sul Corriere della sera del 28 settembre un indiscusso esperto della materia, il prof. Angelo Panebianco. Il quale illustra come segue le quattro storiche realizzazioni del giovane Matteo.

«Per cominciare, ha spazzato via in un colpo solo l’antiberlusconismo». E infatti, invece di un avanzamento di civiltà fondato sui principi di giustizia e solidarietà, di uguaglianza e libertà, assistiamo al consolidamento di un’alleanza di fatto fondata sul Patto del Nazareno, che predica (e pratica) l’esatto contrario. «In secondo luogo, il premier ha aggredito il tabù (ancora!) della ‘Costituzione più bella del mondo’». E infatti, invece di applicarla, lavora alacremente per smantellarla. «C’è poi la circostanza che sta spaccando il Partito democratico», giacché «le prese di posizione del premier su articolo 18 e Cgil stanno modificando senso comune e cultura politica della sinistra». Un’operazione mediatico-culturale a vasto raggio volta a far apparire di sinistra scelte di destra, su cui molti si sono già esercitati nella storia d’Italia. Infine «l’innovazione più importante di tutte (…) incarnata da Renzi stesso», quella dell’ «uomo solo al comando». Vale a dire l’espressione massima del berlusconismo (dopo aver abbattuto antiberlusconismo). E prima ancora del fascismo, con gli esiti distruttivi che conosciamo.

Il quadro che tratteggia Panebianco è in sintesi la conferma di un dato di fatto: in Italia la sinistra non c’è. E non c’è perché è stata sepolta, seppure con opposte motivazioni, una forte, autonoma e libera rappresentanza politica dei lavoratori e delle lavoratrici del nostro tempo. Di conseguenza, la partita si gioca oggi, nella sostanza, tra fazioni diverse di una sola rappresentanza degli interessi economico-sociali: quella dei gruppi dominanti del capitale globalizzato. Una condizione in cui sono a rischio, insieme al lavoro e all’ambiente, la democrazia e la libertà, e anche la pace come assetto stabile del mondo. Ma mentre la casa brucia, quel che resta di una sinistra dispersa e subalterna sembra dividersi ulteriormente su questioni insignificanti di un piccolo potere. Invece di cercare le motivazioni di fondo per un’azione comune, e per uno stabile e diffuso radicamento nel profondo della società.

domenica 28 settembre 2014

Pubblicità Rai per l’Europa: bugie pure sui telefonini Di ilsimplicissimus


tce_mediumSarà capitato anche a voi di imbattervi in quelle pubblicità progresso in cui si magnifica l’idea di Europa con argomenti così bizzarri e pretestuosi da essere giustificati solamente da una totale ignoranza della storia del nostro continente. E naturalmente da una propagandistica volta a dimostrare le delizie della Ue, così paradossale da sembrare comica.. L’altra sera, nonostante l’opera di zapping per evitare evitare gli spot, mi sono imbattuto in un vero capolavoro di demenza comunicativa, in uno gioiello di disinformazione, di bugie e di grossolani errori tra loro collegati il cui fine era quello di indurre a credere che solo l’Europa con il suo benefico apporto ha permesso la diminuzione dei costi della telefonia mobile.
L’incipit è che all’inizio le tariffe erano molto alte, ma poi grazie alla concorrenza e alla definizione di un sistema continentale sono arrivate al livello attuale. La suadente voce ci dice che all’inizio si pagavano “750 lire al minuto cioè 70 centesimi di oggi”. Non posso che fare i complimenti ai creativi i quali lo sono a tal punto da essere ignari del fatto che le vecchie 750 lirette corrispondono a circa 37 centesimi. Ma tutto fa brodo per dimostrarci in quale orribile abisso eravamo quando l’Europa non c’era o se c’era non era così ferreamente a direzione bancario – mercatista. Quanto ci costerebbe telefonare e navigare senza l’Europa? Dice la ficcante finale che segue alla stravagante tesi secondo cui anche le dimensioni dei telefonini è diminuita grazie a Bruxelles.
La realtà è tutta diversa: proprio l’ingresso di un sistema europeo e di nuovi competitori, subito disponibili a fare cartello, ha raddoppiato i prezzi. Dunque a metà degli anni ’80 quando prese piede il sistema Rtms, usato ancora da pochissimi, la tariffa massima, dalle 8, 30 alle 13 era di 633 lire al minuto, che scendevano a 412 dalle 13 alle 18, 30, fino ad arrivare alle 245 dalle 22 alle 8 del mattino successivo. Questi costi rimasero pressoché uguali anche con l’introduzione del sistema etacs, adottato per far fronte all’aumento imprevisto delle richieste e come ponte verso il Gsm che era stato scelto a Bruxelles quale sistema unificato e aperto al mercato. E aumentarono solo in prossimità della commercializzazione di quest’ultimo sistema nel 1995.
Infatti con la perdita del monopolio e l’introduzione del sistema europeo le tariffe fecero un grande balzo in avanti arrivando per Telecom tim alle 1950 lire (più di un euro) al minuto e alle 1940 per Omnitel. Tanto che il gsm fece una certa fatica ad imporsi proprio per l’impennata dei prezzi e si affermò negli anni successivi grazie alla possibilità di acquistare carte ricaricabili che permettevano di tenere sotto controllo le spese telefoniche e di non pagare la tassa statale subito imposta non appena la telefonia mobile decollò.. L’Italia che col suo monopolista aveva ancora nel ’93 tariffe tra le più basse d’Europa schizzò al primo posto che peraltro ancora detiene.
Chiaro che lentamente le tariffe sono calate, non per l’Europa o la cosiddetta concorrenza, (concetto astratto di cui spesso di parla a vanvera per la sua apparente semplicità, ma considerata una pura utopia da molti grandi economisti tra cui Keynes) quanto per l’assorbimento graduale dei costi di ammortamento e sopratutto per l’ evoluzione tecnologica e culturale della telefonia mobile che ha spostato la redditività su fattori diversi rispetto al puro costo per unità di tempo delle chiamate. Il cui onere, peraltro, è diminuito per i gestori enormemente di più che per i clienti. In ogni caso la tesi della pubblicità regresso va giù come olio sia al pubblico troppo giovane per ricordare, sia a quello più adulto che si è completamente dimenticato delle dinamiche tariffarie, come appunto avviene nelle società in cui la memoria
Tutto questo lo dico non per prendermi la soddisfazione di mandare a quel paese una delle tante produzioni europopuliste che ci vengono ammannite, ma per mettere in rilievo quanto sia facile mettere insieme mezze bugie, concetti  grossolani e abusati dei quali siano vittime spesso inconsapevoli, errori persino aritmetici commessi nella quasi certezza dell’impunità, per confezionare una miscela verosimile, ma lontanissima dalla realtà. Se può riuscire con i telefonini che ormai sono l’io kantiano materializzato, figurarsi come sia facile sostituire il verosimile col vero con temi meno legati all’esperienza diretta. E come sia facile ricostruire una memoria completamente artefatta per confermare le idiozie del presente.

sabato 27 settembre 2014

Al Quasar si balla ancora di Renzo Massarelli

Corciano, con le sue case tutte rifatte con la pietra a vista, guarda senza alcun imbarazzo la valle dove continua a crescere la sua zona commerciale. Il paese domina le ultime appendici degli Appennini, è qui che si perde il paesaggio umbro, con i suoi boschi di lecci. Poi si comincia a riconoscere la Toscana e le sue colline dal profilo più dolce e affusolato. E' lì, proprio sotto Corciano che il paesaggio traccia la sua linea di confine naturale, è lungo la strada che porta verso il Trasimeno che l'Umbria è meno Umbria ed è qui che continua a crescere un altro lago fatto di tettoie, vetro e cemento, l'acqua stagnante del consumismo umbro, il più grande agglomerato di capannoni di tutta la regione. Una volta le chiamavano zone industriali ma oggi si produce molto poco. Si vende, invece, si vende di tutto nei grandi store del nostro tempo senza memoria e senza progetto.
E' qui che è rinato il Quasar dei nostri verdi anni settanta, il sogno celeste della nostra modernità, la discoteca dove tutto era grande e nuovo e che ci indicava la via delle stelle, il nostro domani pieno di luci. Il Quasar, in fondo, non ha fatto altro che nobilitare con le sue musiche di un'epoca ormai lontana una delle più massicce speculazioni fondiarie della nostra regione nella valle che tocca Perugia, Corciano e Magione prima di collassare su se stesso, come una stella nova.
Se torniamo oggi in quel luogo del passato possiamo entrare nella macchina del tempo e scoprire che il Quasar c'è ancora. Solo che si può ballare sotto luci senza calore, in corridoi che ci disorientano. Dove siamo, al Gherlinda, all'Ipercoop, all'Emisfero? Questi spazi così freddi e anonimi non si fanno riconoscere e la sensazione è quella di trovarci in un luogo che somiglia a tanti altri luoghi già conosciuti, già frequentati, già, in fondo, consumati. E' come non fossimo mai usciti da queste cattedrali dalla stessa luce e dallo stesso odore.
Il mondo dei supermercati è ormai senza più idee e il valore aggiunto è solo quello del gigantismo. Come nelle grandi savane il grande mangia il piccolo che aveva a suo tempo mangiato quello più piccolo di lui. Per costruire questo nuovo tempio del commercio dove c'è tutto e quasi nulla di nuovo hanno speso cento milioni. In Umbria una cifra simile non si investe in nessuna azienda industriale. Alle acciaierie di Terni dove si produce la fetta più cospicua della ricchezza umbra cento o magari anche duecento milioni vengono spesi seguendo un programma diluito negli anni. Che peccato buttare tanti soldi dentro il cratere di un vulcano che brucia ricchezza e produce, alla fine del suo ciclo, i consueti rifiuti. Perché costruiscono ipermercati nel tempo dell'austerità e della crisi? Perché espongono questi coloratissimi bouquet di frutta, bellissima e invitante come la mela di Eva, quando la maggioranza delle famiglie, di fronte al prodotto, guarda prima di tutto il suo prezzo dovendo scegliere, alla fine, quello più basso? Al Quasar Village, ci dicono, offrono la qualità e un pezzetto del mulino bianco della nostra infanzia, cioè alcuni prodotti freschi di laboratorio. In questa grande corsa verso il consumo che non cresce vincerà il più forte, guadagneremo qualche posto di lavoro da una parte per perderne qualcun altro da qualche altra parte, ma non faremo un solo passo in avanti. Non saremo né più ricchi né più felici ma solo più soli e disincantati, un po' persi nei sentieri della vita così come ci capita nei grandi corridoi senza identità, nei non luoghi di queste cattedrali che odorano di formaggio e di detersivi. A Corciano, intanto, si chiedono dove costruire altre strade e altre rotonde per far fronte al traffico di quindicimila persone al giorno, come bruciare altro territorio e incassare nuovi tributi. Nelle zone commerciali lo spazio è il valore aggiunto di ogni cosa e qui non si butta via nulla, come nella lavorazione del maiale. Quindi, solo strade, parcheggi e recinzioni per le cattedrali del consumo. Per questo si deve occupare ogni terreno rimasto vuoto mentre le insegne  fanno l'occhiello a quelle vicine. Tutto si regge così, in questo labirinto. Al Quasar si balla ancora quando la musica è finita da un pezzo.

venerdì 26 settembre 2014

Renzi, il Corriere e il Salotto dei Cento di Alessandro Gilioli

Ora: è vero che Ferruccio De Bortoli è già stato licenziato (uscita prevista in primavera) quindi potrebbe anche fottersene dei suoi azionisti. Ma in effetti è difficile non vedere che qualcosa è cambiato, negli ultimi due mesi, nei cosiddetti poteri forti. O, se preferite meno complottismo, nei salotti in cui si incrociano grossi imprenditori, banchieri e proprietari dei media. Categorie che peraltro in Italia sono intrecciatissime e complessivamente composte, a star larghi, da un centinaio di persone.
Un centinaio di persone che, sia chiaro, seppure con interessi simili non sempre hanno un’anima e una voce sola, né hanno sempre strategie chiarissime. Ricordo bene il sospetto e le divisioni con cui accolsero Berlusconi, vent’anni fa, dopo aver puntato tutto su Giorgio La Malfa o almeno Mariotto Segni. Poi quasi tutti si adeguarono, lo abbracciarono, marciarono con lui: fino a mollarlo bruscamente nel 2011, terrorizzati fra l’altro che dal berlusconismo si uscisse bruscamente con Vendola premier – questi erano i sondaggi, allora, e questo dicevano le primarie e le elezioni amministrative di quell’anno – e allora dal cappello spuntò Monti.
Dopo il flop di Monti (non solo elettorale), si sono attaccati a Enrico Letta, «ultima spiaggia», pure lui sgonfiatosi però in pochi mesi.
Poi, si sa, è seguito l’innamoramento per Renzi. Che univa al dinamismo e alla trasversale popolarità anche il vantaggio di provenire da un partito di sinistra, o almeno sedicente tale: e da sempre i nocchieri dell’economia sanno che solo un governo “di sinistra” può fare riforme di destra senza scatenare la piazza.
Di qui la soffocante unanimità con cui i media (quasi tutti ) hanno accolto ed esaltato Renzi nei primi sei mesi di governo. Un coro che ha un solo precedente, almeno nella mia memoria: il periodo della “solidarietà nazionale”, tra la fine dei ‘70 e l’inizio degli ‘80 (oddio, erano stati imbarazzanti anche i peana iniziali per il governo Monti, ma almeno lì, ogni tanto, lo bastonavano i berlusconiani offesi per lo spodestamento).
Negli ultimi due mesi, però, è successo qualcosa: già si annusava prima, l’editoriale del Corrierone ne è solo la conferma.
E’ successo, probabilmente, che il Salotto dei cento – per capirci – ha iniziato a incrinarsi. A dividersi. Tra chi ancora decisamente punta su Renzi: come ad esempio Marchionne; e chi invece pensa che il premier sia una bolla di blabla destinata a scoppiare lasciando ignoto e macerie, ma anche violenti conflitti sociali per loro tutt’altro che auspicabili.
Qui, a occhio, siamo.
Per questo credo che sia un po’ naif, con permesso, considerare oggi Renzi un eroe su cavallo bianco che sfida i poteri forti: semplicemente, una parte di questi ultimi teme, dopo aver puntato tanto su di lui, che non riesca a mettere in atto i loro propositi, che sia solo chiacchiere e distintivo, che produca solo disastri; quindi questa parte sogna la Troika, o qualcosa di simile. Mentre un’altra parte continua a “endorsarlo”, sperando che porti a termine senza troppe bizze ciò a cui loro puntano.
E tifare per l’una o per l’altra curva di questo salotto, credo, sarebbe ugualmente sciocco, per chi ha invece il dovere e l’urgenza di costruire progetti e possibilità diverse tanto da Renzi quanto dalla Troika. Perché, sia chiaro, il Salotto dei cento è certo influente ma non è una Spectre onnipotente né è il motore immobile dell’universo: come invece piace pensare a chi con questo alibi giustifica la propria rassegnazione.

SINISTRA PER TORGIANO - Comunicato stampa

RISULTATO RACCOLTA FIRME "STOP AUSTERITÀ" L’associazione Sinistra Per Torgiano esprime la massima soddisfazione per l’ottimo risultato ottenuto Sabato 20 settembre e domenica 21, in occasione dei banchetti per la raccolta firme in favore del referendum STOP AUSTERITA’, promosso dalla CGIL e al quale hanno aderito, oltre ai maggiori partiti della sinistra radicale, anche alcune correnti del Partito Democratico, numerosi movimenti e sigle studentesche, e tanti professori universitari non appartenenti a gruppi o partiti politici.
Scendere in piazza e metterci la “faccia” in un periodo come questo che stiamo vivendo, non è facile, e farlo proponendo un referendum dal contenuto così difficile era ancor più complicato. Di Sabato pomeriggio, di fronte ad un supermercato, spiegare concetti ed istituti come: il patto di bilancio, il fiscal compact, l’austerità è più che altro un’impresa. Parlare con la gente, confrontarsi, discutere di questi temi è però il modo migliore per fare politica, l’unico modo che accettiamo e che adotteremo sempre da qui in avanti. Basta stanze fredde dove uomini grigi decidono strategie, è ora di tornare in piazza ascoltare le persone e cercare di proporre loro soluzioni reali e concrete. Aver raccolto quasi 90 firme è poi una soddisfazione immensa, quando quello che proponi non è stato minimamente pubblicizzato , e per questo ringraziamo tutti coloro i quali ci hanno aiutato in questa nostra prima uscita pubblica. Attendiamo con ansia i risultati provenienti dagli altri comuni dell'Umbria e d'Italia, sperando in un buon esito della campagna referendaria.

In mezza giornata di banchetto difronte A&O di torgiano raccolte quasi 40 firme contro le politiche di austerità e di rigore per lo sviluppo e il lavoro...
Ci trovate qui anche oggi pomeriggio fino alle 19.00 e domani in Piazza Mancini a Brufa dalle ore 10.00 
Accorrete numerosi!!!!

L’assalto allo Statuto dei Lavoratori: verso una Repubblica fondata sul servaggio di Maria Mantello

Lo Statuto dei Lavoratori non è un capriccio, un puntiglio dei Sindacati, un privilegio da abbattere. È un baluardo contro gli assalti di quelle aree imprenditoriali e forze politiche con loro conniventi che vogliono cancellare diritti e tutele nella speranza di riportare i lavoratori a una situazione da medioevo, dove i padroni dell’industria e della finanza tornano a dominare senza Legge né Stato.
Quando infatti, nella grancassa ben orchestrata degli spot mediatici, la Costituzione sarà assoggettata agli interessi di chi comanda, la scuola statale privatizzata, le tutele e i diritti sul lavoro cassati, davvero l’Italia cambierà verso: non sarà più una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ma sul servaggio.
In questo processo reazionario, lo scalpo della legge 300 ha un valore simbolico altissimo, da sbandierare come rivincita del padronato nella resa di conti antidemocratica.
Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, legge 300 del 20 maggio 1970, non è una delle tante leggi del diritto del lavoro. È la Dichiarazione d’indipendenza dei lavoratori. L’orizzonte di demarcazione che la Repubblica democratica fondata sul lavoro ha voluto sancire come diritto umano alla dignità per una società affrancata da sfruttati e sfruttatori.
Una conquista formidabile, perché la Costituzione è entrata in fabbrica, come si disse giustamente allora, perché le libertà civili e democratiche non possono essere sospese sui posti di lavoro. Non più zone franche per la legge del padrone.
Con lo Statuto dei lavoratori si realizzava una fondamentale conquista di civiltà e di democrazia, che dava al “pane quotidiano” il sapore forte dell’emancipazione individuale e sociale nel lavoro e col lavoro. E proprio con l’art. 18 quell’emancipazione la si salvaguarda contro il ricatto del licenziamento ingiusto, introducendo il principio del reintegro del lavoratore, a cui dovevano essere versate le retribuzioni dalla data dell’illegale licenziamento azzerato dal magistrato.
Un formidabile paletto contro gli abusi di chi licenziava senza “giusta causa” (es. furti o altri reati) e “giustificato motivo” (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento): «Il giudice… condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione».
E proteggendo il lavoratore dall’eventualità che possa essere liquidato con una somma sostitutiva del reintegro, l’art. 18 stabiliva che questa eventualità è possibile solo se lo richiede il lavoratore: «al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto».
La riforma Fornero, nel clima di esaltazione per il governo dei bocconiani che aveva contagiato anche la sinistra, riuscì a mettere mani sull’art.18, prevedendo il reintegro solo nei casi di discriminazione del lavoratore (es. appartenenza politica, orientamento religioso, sessuale, ecc.) ma sostituendolo con l’indennizzo in tutti gli altri casi. Insomma una mancia di benservito!
Ma Renzi vuole adesso lo scalpo non solo dell’art.18, ma dell’intero Statuto, additato come un privilegio e impedimento della ripresa occupazionale.
E ci ripropone la vecchia favola per cui solo se c’è più flessibilità (ovvero assenza di stabilità del lavoratore, come pur la Costituzione prevede) le imprese assumerebbero e l’Italia uscirebbe dalla crisi.
La flessibilità l’abbiamo vista, i posti di lavoro no. E neppure la ripresa economica.
Abbiamo visto solo la moltiplicazione pluridecennale delle tipologie di aggiramento del contratto a tempo indeterminato (lavoro a collaborazione, ripartito, intermittente, accessorio, a progetto, ecc.), che dal “pacchetto Treu” alla “legge Biagi al decreto di maggio scorso dell’attuale ministro Poletti hanno reso strutturale la precarietà.
Lo scandalo è questo e non basta per eliminarlo la battuta facile intrisa nella bivalenza renziana delle formule: “togliamo le garanzie dell’art.18, ma garantiamo la sicurezza ai precari”.
Non argomenta il “giovane” Renzi, lui spara twitter-spot. Non vuole neppure essere disturbato a discutere con chi si oppone alla dismissione finale del diritto del lavoro. “O così o decreto”, ripete. Insomma “qui comando io”.
Eppure, all’epoca del governo Monti aveva detto “lo Statuto non si tocca”. Ma doveva conquistarsi il posto di capo-partito e quello di capo di Governo.
Adesso l’obbiettivo finale è avere in mano tutto il partito. E forse, l’attacco all’art. 18 gli serve per sbarazzarsi di quanto in esso resta di sinistra. Così alla fine si compirà l’ultima metabolizzazione del Pd: un partito qualunque. Un partito post ideologico, come usano dire quelli veramente di destra.
Chissà se anche tutto questo non rientri nel patto Berlusconi – Renzi.
Il Cavaliere intanto si gode la sua Resurrezione, e gongola in attesa di riprendersi tutto il palcoscenico della politica, mentre il suo ventriloquo gli fa il lavoro sporco.