mercoledì 26 settembre 2018

Ponte Morandi, il governo ha fatto propaganda sulla pelle di Genova? fi Ferruccio Sansa, Il Fattoquotidiano

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Ma che cosa c’era scritto su quei fogli che Giuseppe Conte ha sventolato davanti a diecimila genovesi il 14 settembre?
Sono passati 42 giorni dalla tragedia del ponte e soltanto adesso, forse, arriva il decreto.
Sono passati 42 giorni e non c’è ancora un commissario, anzi, abbiamo dovuto assistere a penose dispute tra i partiti di maggioranza per la scelta del nome.
Sono passati 42 giorni e il ponte non è stato demolito, né si sa chi e quando lo farà.
Sono passati 42 giorni e non si ha la minima idea di quale progetto sarà scelto. Non è stata nemmeno immaginato un concorso (come sarebbe auspicabile), ma si litiga tra il progetto di Renzo Piano e quello proposto da un ingegnere. Sì, quello che immagina di fare bungee jumping da un ponte dove sono precipitate 43 persone!
E intanto Genova muore. Il porto che soffoca, la gente che impiega ore per spostarsi da una parte all’altra della città. I ragazzi che non riescono ad andare a scuola, gli adulti che non sanno come raggiungere il lavoro, gli anziani sempre più soli. Una città divisa, strappata, che muore.
Ma il punto è anche un altro: il governo ha mentito a Genova?
Torna in mente Luigi Di Maio che il giorno dei funerali, a pochi metri dalle bare, sparava a zero su Autostrade in una specie di comizietto. Accanto a lui Matteo Salvini che, mentre ancora i parenti erano accanto ai feretri, si faceva i selfie con i fan. Solidarietà maldestra o propaganda in un giorno di lutto?
E poi promesse buttate lì, in una città spaesata, confusa. Con un disperato bisogno di aggrapparsi a qualcuno.
Le ha messe in fila ieri Il Secolo XIX: “Presto un commissario”, dice Di Maio il 14 agosto. “Cominceremo la demolizione del ponte a inizio settembre”, promette la Lega a fine agosto. Ancora Di Maio il 10 settembre: “Entro la fine della settimana o all’inizio della prossima il governo approverà il decreto”. Poi Danilo Toninelli il 12 settembre: “Decreto Genova in consiglio dei ministri forse domani. Conterrà la nomina del commissario”. Sempre Toninelli in visita agli sfollati il 20: “Ho il decreto in mano, immagino che nelle prossime ore sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale”.
Giudicate voi se fosse la verità o se sia stata propaganda. Ma soprattutto c’è Conte che, almeno sulla carta, guida il governo. Il 14 settembre si presenta in piazza De Ferrari a Genova per la cerimonia di commemorazione della tragedia. Si ricordano le vittime. La gente piange. E Conte, con un intervento che molti giudicano stonato, sventola quei fogli. Parla con pause sapienti richiamando applausi. Durante una commemorazione per i morti, Conte fa un intervento politico. Ma soprattutto annuncia il decreto, lo mostra. Il 25 settembre, però, noi genovesi eravamo ancora lì ad attendere il decreto. Si dubita che ci siano le coperture, non si sa cosa abbiano votato i ministri.
Giudicate allora voi: Conte ha detto il vero alla gente di Genova? È stato sincero con una città in ginocchio? Già, in fondo la domanda dopo 42 giorni di promesse e comizi è questa: il governo è stato leale con Genova o ha fatto propaganda dopo una tragedia?

lunedì 24 settembre 2018

Piazza e Statuto. L’opinione di Dino Greco *



Nel suo contributo alla discussione sullo statuto di Pap, Ilaria Boriburini, del coordinamento nazionale, ha giudicato impraticabile la possibilità di pervenire ad un’unica proposta per due fondamentali ragioni: le visioni “molto diverse” che stanno alla base delle ipotesi in campo e la necessità di non perdere tempo, considerate le tante cose che dobbiamo fare.
Ora, che i due testi propongano differenze importanti è evidente e non sarebbe giusto banalizzarle, visto che non stiamo parlando di tecnicalità o di mere soluzioni organizzative, ma della forma della democrazia su cui incardinare il movimento.
Lo statuto è sotto ogni aspetto la casa comune di tutti e di tutte, dunque la ricerca tesa a sciogliere i nodi e non a tagliarli con una rasoiata dovrebbe essere ritenuto un vincolo irrinunciabile, tenendo conto del carattere plurale e composito del movimento e della volontà da tutti espressa con enfasi di costruire un progetto inclusivo, fondato su un’estesa pratica democratica e sul criterio della decisione condivisa.
Viola Carofalo ha ragione quando dice che “non sarà possibile fare uno statuto che piaccia a tutti al cento per cento”, ma risolvere il problema con un referendum significa che a chiudere la partita con una scelta oggettivamente divisiva basterà il 50%+1.
La ricerca della decisione condivisa, se la formula non è solo un espediente retorico, deve essere sostenuta da una regola che la faccia vivere, e quella della maggioranza qualificata, dei 2/3 almeno, lo consente. L’altra no, perché spinge a tagliare corto.
Se la ricerca del consenso, diciamo pure: della mediazione, viene interpretata come la ricaduta in vecchie pastoie paralizzanti che impediscono di librarsi nei cieli del nuovo, si rischia di perdere pezzi per strada, uno dopo l’altro.
Nel coordinamento nazionale ho sempre sostenuto, mi era parso senza incontrare obiezioni, che il metodo della condivisione dovesse consistere nel suscitare la massima discussione possibile ad ogni livello e su ogni argomento, e nel mettere a fattor comune tutto ciò che unisce, presentandolo nello spazio pubblico come Potere al Popolo e che quanto invece non appartiene all’elaborazione condivisa fosse lasciato all’autonoma iniziativa dei soggetti collettivi che hanno tutto il diritto di agire in proprio. Poi ho sempre pensato che l’abitudine a lavorare insieme, senza pregiudizi, favorisca processi di ibridazione fra culture diverse, processi che hanno bisogno di tempo, non di scorciatoie.
Ilaria sostiene che si sarebbe sì potuto procedere con un unico testo con emendamenti sui singoli punti ma, aggiunge, “in fase di votazione sarebbe stato un delirio”.
Ma perché sarebbe stato “un delirio”? Esattamente perché il voto è gestito attraverso la piattaforma on line, dove, per definizione, trionfa l’espressione in forma binaria: a o b, sì o no. Nessuno scampo per l’approfondimento, per la dialettica reale: o di qui o di là.
Alla pedagogia della partecipazione si sostituisce il gesto risolutivo del click a distanza.
A mio avviso, questo è un limite, grave, di entrambe le proposte di statuto che accettano, o subiscono, l’infatuazione per la dimensione puramente virtuale del coinvolgimento personale, dove il campo si divide fra chi fa e chi, guardando, si limita a giudicare sommariamente chi fa.
Ilaria chiede a tutti noi “di usare energie e capacità a riflettere su come migliorare uno statuto o l’altro, oppure di presentarne uno totalmente nuovo se nessuno dei due rappresenta a grandi linee la vostra visione”. Condivido senza riserve questa indicazione. Osservo, semmai, che contrasta piuttosto ruvidamente con la sottolineatura che tutti i tentativi sono già stati fatti, mentre tutte le sirene invitano a chiudere presto il conto, piuttosto che a dispiegare intelligenza e creatività.
A Brescia ci siamo sforzati di mettere in pratica questo suggerimento, proponendo, fra molte altre cose, che non tutte le decisioni, ma senz’altro quelle politicamente rilevanti siano assunte a maggioranza qualificata nelle assemblee costituite ad ogni livello del movimento. E come si stabilisce se una questione è “politicamente rilevante”? Si può prevedere che lo è se ritenuta tale dal 10% delle assemblee territoriali, da quella nazionale o del coordinamento. Tutelare le minoranze non è un ubbìa democraticista, ma uno dei tratti distintivi della democrazia.

Da Macron a Tsipras? No grazie di Marco Revelli


Da Macron a Tsipras? No grazie


“…Una grande alleanza da Macron a Tsipras”, invoca Maurizio Martina, a margine del vertice dei leaders del Pse a Strasburgo, “per battere l’asse Orban, Salvini, Le Pen che vuole distruggere l’Europa”.  La stessa formula l’aveva già spesa, il giorno prima, sul “Dubbio” (non è uno scherzo!) Gianni Pittella, per lungo tempo capogruppo del Pse al Parlamento Europeo e ora senatore Pd, invocando “una grande lista con sopra scritto Pse che si presenti alle Europee e che unisca da Macron a Tsipras”. E persino Matteo Renzi si era lasciato andare con Barbara Palombelli, su Rete 4, col suo solito tono, a preconizzare che “le elezioni Europee le vincerà un fronte da Macron a Tsipras”. Nel marasma che caratterizza il collasso psichico del Partito democratico è questo il mantra che rimbalza di bocca in bocca.  
Così, d’istinto, senza stare tanto a pensarci su, sarei tentato di rispondere come lo scrivano di Melville: “Preferirei di no”. Ma poi, dopo più matura riflessione, devo confessare che risponderei nello stesso modo. Terrei ben ferma la mantrica risposta di Bartelmy, persino rafforzata nel suo carattere “a-grammaticale” dalla versione scelta per la traduzione italiana da Gianni Celati: “Avrei preferenza di no“.
E questo per vari, ragionati motivi.
Il primo motivo è di carattere rozzamente e sanguignamente personale, anzi personalistico (d’altra parte non sono forse tutti gl’ invocatori corali della Santa Alleanza, impenitenti fautori della personalizzazione in politica?): fa un po’ disgusto e un po’ rabbia vedere tra gli evocatori del nome di Tsipras quelli che tre anni fa – in occasione dell’ ordalia del 14 luglio 2015  – non esitarono nemmeno un istante a sacrificarlo, senza fare una piega,  pur di restare sul carro dei vincitori (e dei creditori) che stavano umiliando la Grecia per ammonire tutti gli altri a non seguirne la via della dignità. Lo ricordiamo tutti Matteo Renzi, saltellare come un tacchino intorno alla Merkel ostentando- come lo studente secchione con la maestra severa – il proprio zelo a differenza del reprobo dell’ultimo banco… Li ricordiamo i sorrisetti sarcastici di Martin Schultz – allora presidente del parlamento europeo – all’indirizzo del Capo del governo greco messo sotto dai falchi nordici e dal perfido Schauble; o l’anatema lanciato da Sigmar Gabriel, allora presidente dell’Spd e vice- cancelliere tedesco, subito dopo il referendum greco, quando disse che così “Tsipras aveva tagliato i ponti con l’Europa” e si schierò con l’ala dura del feroce bavarese che voleva appunto la Grexit! Allo stesso modo abbiamo ancora negli occhi la solitudine di Alexis Tsipras di fronte a quel Parlamento di Bruxelles gelido, con il fronte del nord, Alda e Ppe a ranghi serrati, dichiaratamente ostile e le socialdemocrazie europee, tutte, prone e allineate e coperte in nome di un’austerità austera solo con i poveri e prodiga con i ricchi…
Il che ci porta al secondo dei “ragionati motivi”. Non più “personale”, questo, ma di natura “generale”. Attinente non alle colpe individuali ma alle identità collettive (supposto che oggi qualcuno o qualcosa possa vantare una qualche identità). A quelle che un tempo si chiamavano “culture politiche” (anche se oggi solo un eufemismo potrebbe giustificare l’accostamento dei termini politica e cultura). Perché mai “famiglie politiche” che hanno dimostrato al di fuori di ogni ragionevole dubbio la propria identificazione con un modello sociale ed economico devastante per ogni possibile forma di “società giusta”  e incompatibile con ogni possibile accezione del termine “giustizia sociale”, dovrebbero essere un valido antidoto alla deriva “populista” in corso? A un imbarbarimento politico e culturale  che affonda le proprie radici nella disgregazione sociale e nel degrado prodotto dalle politiche messe in atto da quegli stessi “soggetti ” che oggi vorrebbero chiamare alla “resistenza”?
L’ha detto come meglio non si può Tomaso Montanari, quando liquidando l’idea nata in area Pd di un “fronte repubblicano” anti giallo-verde, ha ricordato che “la miccia non può diventare l’opposizione alla bomba”. Esattamente come non lo può essere la causa rispetto all’effetto. E la radice all’albero! L’attuale onda nera che minaccia di spazzare l’Europa è il prodotto diretto di un quarto di secolo di politiche a-sociaii e anti-sociali, che hanno frantumato le società, atomizzato gli aggregati collettivi, indebolito fino all’estenuazione le organizzazioni di rappresentanza del lavoro (i sindacati), abbattuto potere d’acquisto dei salari e diritti del lavoro, accresciuto le diseguaglianze e fatto esplodere le solitudini, prodotto rancore, frustrazione, aggressività, competizione molecolare. Perché mai gli autori di quelle politiche (liberali e social-democratici, fino a ieri alleati ai popolari a baricentro tedesco) dovrebbero essere un argine contro le minacce che da quelle società devastate salgono? Con quale legittimità potrebbero pretendere un mandato popolare a “resistere”? Con quale credibilità potrebbero immaginare di ottenere un consenso di massa?
Il neo-liberismo che ha strutturato l’ordine europeo del nuovo secolo nella forma hard dell’”ordo-liberismo” tedesco – è questo il terzo “ragionato motivo” o, meglio, “ragionamento motivante” del NO – si è rivelato, nell’atto del suo pieno compimento, come una gigantesca macchina di riproduzione su scala allargata di sentimenti e comportamenti “populisti”. Ha generato non solo le condizioni materiali della sindrome populista (il senso di impoverimento, espropriazione, perdita di status che ha pervaso la sfera esistenziale di gran parte del ceto medio declassato e le conseguenti pulsioni di rivincita e di vendetta), ma anche i presupposti mentali, i fondamenti antropologico-culturali, con l’assolutizzazione dell’homo oeconomicus, iper-competitivo e iper-egoistico, l’uomo autarchico incapace di condivisione se non sulla base di un nudo calcolo di utilità o – non necessariamente in antitesi con quello – di un delirio di potenza nella forma del nazionalismo o del sovranismo. Il populismo che viene contemporaneamente dall’estremo occidente atlantico (trumpismo) e dall’estremo est-europeo (Visegrad) non è l’antitesi di quel paradigma a lungo egemone, ne è il figlio legittimo ancorché ripudiato. Non risulta che né Macron, né gli acciaccati dirigenti del Partito socialista europeo, ma nemmeno i Verdi, abbiano rielaborato uno straccio di critica e di auto-critica rispetto a quell’allucinazione che ne ha condizionato per almeno un paio di decenni la linea politica e la visione sociale. Nemmeno nel momento dell’appello disperato sulla patria (europea) in pericolo, filtra un barlume di dubbio. Un cenno di resipiscenza. Quello continua a rimanere l’unico mondo possibile: la loro resta, incontrastata e incontrastabile, una “narrazione dell’ inevitabilità” (inevitabilità del rigore di bilancio, dell’interdetto agli “aiuti di stato”, del controllo dei flussi senza se e senza ma, della povertà concepita come colpa e l’assistenza come azzardo morale, del primato dell’impresa sul lavoro e del denaro sulla vita…).
D’altra parte è stato lo stesso Tsipras a chiarire la propria collocazione nel quadro del contrasto su scala europea all’onda nera del populismo di destra radicale. In un intervento tenuto nel corso della riunione preparatoria dell’assemblea del Pse a Salisburgo, in Austria, non ha certo negato il pericolo e il più che giustificato allarme per la crescita del fronte che vede convergere Orban, Salvini, Le Pen  e in generale un populismo d’impronta nazionalista e sovranista che minaccia l’Europa nei suoi fondamenti primi, ma ha tracciato anche precise linee di demarcazione, che impediscono una meccanica identificazione con le politiche finora praticate dai socialisti europei: in particolare la necessità di una netta, non equivoca demarcazione da quelle destre  non populiste, conservatrici e reazionarie, che hanno assunto tuttavia nella propria piattaforma posizioni da destra radicale soprattutto in tema di migranti; e una altrettanto esplicita volontà di opposizione al liberismo. Massima convergenza, dunque, contro un fascismo risorgente, la sua xenofobia, il suo razzismo e la sua intolleranza, ma nessuna identificazione con posizioni che rimangano nell’ambiguità sulle questioni dell’austerità e del neoliberismo che “l’alimentano”.
Tsipras è stato considerato a lungo un reietto dalle grandi famiglie politiche europee, socialdemocratici e liberali in testa, finché la Grecia sembrava annaspare sul pelo dell’acqua. Ora che ha vinto la propria battaglia, che il Paese dato per morto è uscito dal Memorandum e dal commissariamento della troika, diventa un ospite gradito, anzi desiderato. Addirittura quello che potrebbe rianimare le esauste energie di una socialdemocrazia in declino se non in bancarotta. E’ un buon segnale per la Grecia, riconosciuta nei suoi meriti. Non è detto che sia un invito allettante. O promettente. La crisi delle sinistre riformiste europee è così grave, il loro bagaglio di promesse non mantenute, di fallimenti e di abbandoni dei propri rispettivi popoli così logorante, che non basterà un ritocco con fotoshop alla fotografia di famiglia, o un party elettorale con un ospite d’onore in più (anche se molto onorevole) a risollevarne le sorti. E’ piuttosto possibile che con la sua zavorra tiri giù anche la parte sana della sinistra europea. Un naufragio elettorale di un fronte tanto ampio quanto generico e ambiguo sarebbe letale, e aprirebbe la strada, quello sì, a un dominio della destra senza opposizioni.
A pochi mesi dalle elezioni che potrebbero cambiare la geografia politica del  Parlamento Europeo,  le chiacchiere e gli slogans così cari alla nostra sinistra sbandata stanno a zero. Servono idee e atti non equivoci, di cui dai menu delle cene mancate e dai tweet dei leader imbolsiti non si vede traccia. Altrimenti al chiacchiericcio insensato che viene dal Palazzo non può che rispondere la reiterazione infinita del “copista” di Melville, con la sua potenza disarticolante di ogni linguaggio estenuato. O meglio – come ha scritto Derrida – con la sua capacità di “far oscillare il linguaggio nel silenzio”.

venerdì 21 settembre 2018

Potere al Popolo. “Una occasione da non perdere, anzi, da alimentare giorno dopo giorno” di Fabrizio Tomaselli


Lettera aperta ai dirigenti di Rifondazione Comunista
Care compagne e cari compagni,
chi mi conosce sa che sono stato iscritto e militante di Democrazia Proletaria prima e del PRC dalla sua nascita e sino al 2007. Sa che il mio impegno si è sviluppato soprattutto nell’attività sindacale dove ho contribuito, insieme a tante e tanti compagni a far nascere e sviluppare il sindacalismo alternativo, indipendente e di base in questo paese, sino alla realizzazione di quello che considero il passaggio più avanzato verso il sindacalismo di classe, cioè l’Unione Sindacale di Base.
Non ho preso più tessere di partito e ho partecipato alla costruzione di quella piattaforma politica rappresentata da Eurostop. Qualche giorno fa mi sono iscritto a Potere al Popolo.
Speravo, credevo e auspicavo nella nascita di un soggetto politico che superasse le incrostazioni del passato e che saldasse le esperienze positive della sinistra radicale con quelle nuove e più ampie ed articolate esperienze, sia quelle organizzate che quelle non strutturate che si stanno affermando da almeno un decennio.
Speravo e spero ancora che questa sintesi faccia tesoro degli errori del passato che tutti abbiamo commesso e che finalmente si apra una fase nuova, più rispondente alle esigenze emergenti da quel blocco sociale che tutti vorremmo rappresentare e che invece spesso fugge e si ciba delle risposte di costruttori di facili consensi e di pessimi e falsi obiettivi.
Questo percorso di costruzione pretende una “cessione di sovranità” non a quel gruppo o a quel movimento o a quel partito, ma ad un obiettivo preciso: la ripresa del conflitto sociale e politico, condizione senza la quale è assurdo e velleitario pensare di dare voce, diritti e risposte a bisogni concreti a chi li ha persi in decenni di oscurantismo, di liberismo, di ingiustizie sociali, di austerità, di capitalismo più o meno feroce e, non dimentichiamolo, di nostri errori.
Sono quindi convinto che la costruzione di Potere al Popolo sia veramente un’occasione da non perdere, da coltivare, da sviluppare, da alimentare giorno dopo giorno. Questo è il compito di chi ha responsabilità nella gestione delle organizzazioni che hanno aderito ad un progetto che non può certo essere chiamato un partito, ma neanche un treno sul quale salire o scendere a proprio piacimento o in base alle fasi elettorali.
Sono convinto che una eventuale e sciagurata rottura determinata dal PRC all’interno di Potere al Popolo o anche il solo obiettivo di conquistare al suo interno una egemonia politica tutta costruita sul contingente, sul dato elettorale e su quelle lotte di potere che così tanto hanno fatto male all’esperienza della sinistra radicale negli ultimi decenni, rappresenterebbe la fine di Rifondazione e un grave rallentamento nella costruzione del progetto di Potere al Popolo.
Credo quindi che oggi ci sia l’estrema necessità di un forte spirito di servizio e di partecipazione, piuttosto che muri da alzare a difesa della propria storia, della propria sigla o del proprio simbolo.
Così io vivo la nascita di Potere al Popolo e credo che le migliaia e migliaia di militanti, di compagne e compagni che si sono ritrovati dopo esperienze diverse vissute nei passati decenni, debbano mettersi al servizio di quello spirito nuovo, fresco ed entusiasta che si respira nelle assemblee di PAP e che è frutto soprattutto di coloro che quelle nostre “vecchie” esperienze non hanno vissuto.
Un passo indietro non sarebbe interpretato come una vostra sconfitta. Al contrario, rappresenterebbe invece proprio ciò che serve per saldare vecchie e nuove esperienze e costruire ciò che è necessario ora e subito per invertire quella tendenza della sinistra, ormai storica, al frazionismo, alla lite interna, alla cura spesso paranoica del particolare, ai personalismi, alla mancanza di prospettiva che ha marginalizzato qualsiasi ipotesi di alternativa sociale e politica negli ultimi decenni.
Io voterò la proposta n° 1 dello Statuto perché sono convinto che sia più rispondente a ciò che ritengo necessario in questa fase e soprattutto sia più adeguata allo spirito di costruzione di un nuovo soggetto politico. Quello che ho scritto va però oltre il semplice voto su un’ipotesi o l’altra di statuto. Ciò che più conta è la volontà o meno di rimanere chiusi nel proprio fortino o invece aprirsi e contribuire alla costruzione e alla realizzazione di un nuovo percorso che cominci a dare risposte oltre che ad indicare obiettivi. Sono convinto che è questo ciò che vogliono anche migliaia di iscritte ed iscritti a Rifondazione Comunista: sarebbe imperdonabile far finta di nulla.

sabato 8 settembre 2018

Elezioni europee. Rompiamo il falso schema “europeisti versus nazionalisti” di Dante Barontini


L’orizzonte delle europee e la crisi della governance Ue
Non siamo degli appassionati del rito elettorale, ma per la prima volta la scadenza di solito più inutile – le elezioni europee – assume un valore strategico.
E’ quasi sorprendente, visto che tutta la costruzione dell’Unione Europea è stata pensata per congelare dentro trattati di fatto non modificabili (se non all’unanimità, ossia mai) rapporti di forza temporanei e indirizzi di governance in grado di vanificare eventuali risultati elettorali divergenti in qualche singolo paese.
Come spiegava il cerbero Wolfgang Schaeuble in una riunione dell’Eurogruppo, “non si può assolutamente permettere ad un’elezione di cambiare nulla. Perché abbiamo elezioni ogni giorno, siamo in 19 e, se ogni volta che c’è una elezione, cambia qualcosa i contratti tra noi non significherebbero nulla”.
Tutta la costruzione, però, poggiava su una maggioranza politica che sembrava eterna: la grosse koalition su scala continentale tra “popolari” e “socialisti”. Ancora nel 2009 questa coalizione sfiorava i due terzi dei seggi a Strasburgo e quindi garantiva che qualsiasi scelta fatta nella formazione della Commissione (il “governo” europeo, quello che fa le leggi e le “raccomandazioni”, che controlla/contratta la stesura delle “leggi di stabilità” nazionali, ecc), o nel Consiglio Europeo, venisse approvata senza problemi.
I primi scricchiolii sono stati avvertiti già nel 2015, quando la maggioranza è scesa al 54%, mentre cresceva l’opposizione di destra che andava al governo in alcuni paesi, ed ora è diventata un protagonista problematico in quasi tutti. Esisteva anche un’opposizione di sinistra, molto variegata quanto ad orientamenti, ma politicamente ininfluente o subordinata ai “socialisti”.
Il crollo di questa coalizione in Italia (dove le filiali locali Forza Italia e Pd, come si vede meglio ora, hanno praticato per 25 anni la stessa identica politica: privatizzazioni, distruzione dei diritti del lavoro, tagli alle pensioni, precarizzazione, ecc, come “raccomandato” dalla Ue), e l’uscita della Gran Bretagna dal prossimo Parlamento, rendono ora “contendibile” la maggioranza.
L’allarme è stato fatto squillare nelle redazioni mainstream e nelle direzioni dei partiti politici “europeisti”, con la scontata chiamata a raccolta di tutte le forze “liberali ed europeiste” contro quelle “reazionarie e sovraniste”.
Le trappole di questo linguaggio sono innumerevoli – e ce ne occuperemo quanto prima – ma il ragionamento politico è semplicissimo: bisogna a tutti i costi mantenere a Strasburgo una maggioranza favorevole allo statu quo. Anche a costo di tirar fuori dall’armadio un frasario “antifascista” che era stato dimenticato da almeno un ventennio (per non disturbare membri del “partito popolare europeo” come l’ungherese Orbàn o gli alleati nazisti al governo in Ucraina, oltre ai segnali di “dialogo” con i fascisti all’interno di ogni paese; qui da noi i noti Veltroni, Violante, ecc), almeno quanto basta per facilitare l’accodamento di una parte della “sinistra”.
Lo schema descritto dalla narrazione è dunque classicamente bipolare – europeisti versus sovranisti – senza ammettere altri protagonisti. Lo si può vedere dalla cartina allestita dal Corriere della Sera, che in Francia neanche menziona France Insoumise di Jean-Luc Mélénchon (19,6% alle recenti presidenziali, e in crescita nei sondaggi), mentre continua a considerare rilevante il Partito Socialista (dato nei sondaggi ancora all’8%, ma in rapidissimo calo); oppure, in Germania, cancella Die Linke (che pure vanta un dignitoso 9,2% alle elezioni politiche di un anno fa), mentre enfatizza al massimo i razzisti dell’Afd (che avevano preso il 7%, ma crescono cavalcando la paura anti-immigrati).
Dal punto di vista delle classi sociali, questi due schieramenti corrispondono al grande capitale finanziario e multinazionale (“europeista” e “cosmopolita” per definizione) e alla piccola-media borghesia, nazionalista per insufficiente dimensione del capitale, dunque incapace di “competere” sul piano globale.
Per il nostro “blocco sociale” – lavoratori con qualsiasi tipo di contratto, pensionati, disoccupati, precari, studenti, migranti, poveri di tutte le etnie, ecc – non è prevista alcuna rappresentanza né diritto di parola. Al massimo, nella prospettiva dell’establishment neoliberista, viene auspicata una sua partecipazione, silenziosa e subordinatissima, al blocco “europeista”, usando lo spauracchio del fascismo alle porte e ramazzando frazioni della scompaginata “sinistra”.
Sul fronte interno il più chiaro nell’esplicitare questa partizione è stato Massimo Cacciari: Per le elezioni del 2019 ci vuole un progetto transnazionale che vada da Macron a Tsipras e possa sfidare i sovranisti. E lo faranno, non c’è alcun dubbio, perché ne va della loro sopravvivenza politica.
Che il fronte cosiddetto “sovranista” – in realtà banalmente nazionalista e retrogrado – sia una destra pericolosa e violenta, è assolutamente vero. E’ una destra che cavalca l’impoverimento generale (dai “ceti medi” a quelli popolari) causato dalla crisi economica fin dal 2008, aggravato da “politiche di austerità” pro-cicliche, a malapena rabberciate con il quantitative easing della Bce, ora agli sgoccioli.
Ma non è una destra realmente “anti-europeista”, ossia determinata a scassare la governance inscritta nei trattati. Sul piano economico, infatti, è altrettanto liberista del fronte “repubblicano”, con forse qualche condiscendenza in meno verso gli “investitori internazionali” che pretendono condizioni di favore (ma neanche questo è certo, viste le politiche fiscali adottate dai vari membri del “gruppo di Visegrad”).
Le politiche sociali sono grosso modo identiche, la “guerra ai poveri” accomuna senza problemi gli esponenti nazionali dei due fronti, tanto da renderli indistinguibili (a parte gli insulti reciproci). Dalla casa alle pensioni, dal reddito alle tutele del lavoro, non c’è tema in cui sia possibile riconoscere una differenza “forte”.
L’unico terreno che sembrerebbe distinguere i due schieramenti è quello dell’accoglienza verso i migranti, ma anche in questo caso le differenze reali sono molto minori di quelle sbandierate.
La Germania “europeista” di Angela Merkel (spesso contraddetta dal suo ministro dell’interno Seehofer) ha rapidamente ridotto la propria disponibilità ad accogliere ai soli “dotati di specializzazioni professionali utili” all’economia nazionale.
La Francia “repubblicana” di Macron – il più nazionalista dei sedicenti “europeisti” – si nota più per la durezza usata nei loro confronti (da Calais a Bardonecchia, con annesso sconfinamento in territorio italiano) che per la disponibilità a farli entrare.
In Italia Salvini ha sposato il “modello Minniti”, predecessore ai vertici del Pd, ma sbraita in modo decisamente più sguaiato, senza reali mutamenti sostanziali, coprendosi spesso di ridicolo (“Tripoli è un porto sicuro” le batte tutte…).
La chiusura dei confini è insomma generalizzata e risparmia, per ora, solo i migranti interni, quelli con passaporto Ue che, ricordiamolo, sono sempre e soltanto “migranti economici”, restituibili in qualsiasi momento al paese di provenienza, secondo le dottrine maggiormente in auge.
Dunque quello nazionalista e reazionario è un fronte che immagina “un’altra Europa”, altrettanto feroce sul piano economico e sociale interno, e blindata come una fortezza verso l’esterno. Ma niente affatto “alternativa”; molto poco diversa da quella attuale, insomma, solo con molte “facce nuove” decisamente poco presentabili.
Solo nello scenario italiano esiste un “terzo polo” non chiaramente collocabile in uno dei campi: i Cinque Stelle. La loro idea “strategica” – autodefinirsi “né di destra, né di sinistra” – era poco più di un furbata per cercare di sottrarsi alla classificazioni novecentesche. Ma in questa Unione Europea, attraversata da questo scontro, questa ideuzza non ha nemmeno il terreno dove essere coltivata. Impossibile qualificare Macron o Merkel come “sinistra”, mentre certamente sono “destra” i nazionalisti d’ogni lingua e risma… Fuori dalle chiacchiere sulla “legalità”, insomma, e dentro uno scontro intorno alle caratteristiche future della Ue, appaiono come il più classico dei vasi di coccio in mezzo alle palle da cannone.
A prima vista, dunque, c’è necessità soprattutto di uno schieramento continentale popolare assolutamente indipendente da questi due fronti. Ed è per fortuna in via di formazione, a partire dalla firma della Dichiarazione di Lisbona, che ha visto convergere France Insoumise, Podemos e il portoghese Bloco de Esquerra, nonché l’adesione di Potere al Popolo per l’Italia. In questa direzione sembra andare anche Aufstehen, il movimento tedesco che punta esplicitamente a superare il tradizionale bacino di Die Linke (ma che risente pesantemente del clima anti-immigrati tedesco), oltre a interessanti e niente affatto “minori” gruppi danesi, olandesi, sloveni, ecc.
Tutto bene, dunque? Non proprio… “A sinistra”, in Italia come altrove, sopravvivono – pur deperendo a vista d’occhio – nostalgie di “alleanze di centrosinistra”, mal celate spesso sotto confusissimi appelli ad “allargare” il campo antiliberista fino a comprendere frammenti di ceto politico dispersi e molto ondivaghi, senza radicamento sociale, privo quasi sempre di rappresentatività reale, storicamente disposto a quasi tutto. Una “irresistibile” voglia di pastrocchi che – per oggettiva debolezza numerica e di idee – fin d’ora pare destinata a subire, almeno in parte, la forza gravitazionale della nebulosa invocata da Cacciari (“da Macron a Tsipras).
Come sempre, critichiamo una logica politica, non qualche organizzazione particolare. Sappiamo bene che una “cultura” malamente sopravvissuta per 25 anni è diffusa in molti ambiti e in molte menti, e non può essere superata con un semplice atto di volontà o una “presa di coscienza” fulminea… Ma va superata, pena la scomparsa o la subordinazione definitiva di una soggettività autonoma di classe che abbia l’ambizione di esser riconosciuta “dalle masse”.
Su questo vogliamo perciò essere chiarissimi: noi vogliamo allargare la coalizione sociale antagonista (Potere al Popolo, il sindacalismo conflittuale, i movimenti sociali e territoriali, ecc) radicandola con forza dentro il nostro blocco sociale. Vogliamo crescere come quantità di attivisti e qualità politica organizzando la nostra gente per raggiungere obiettivi concreti, vitali, per migliorare le condizioni di vita e risvegliare il protagonismo sociale.
Per riuscirci abbiamo bisogno di percorrere le strade e tutti i luoghi dove si scontrano interessi di classe opposti; abbiamo bisogno di confrontare proposte e idee davanti a tutti, non di rinchiuderci in qualche sala a contrattare – “manuale Cencelli” alla mano – candidature marginali in cambio di silenzio complice sulle politiche sociali passate, presenti e future.
L’Europa è il teatro dove si gioca la partita, lo andiamo ripetendo da anni. E l’Unione Europea è il potere quasi-statuale che determina le politiche poi applicate all’interno degli Stati nazionali in apparente “autonomia”.
Rompere questa gabbia è la condizione per costruire una diversa comunità di Stati con priorità sociali opposte e alternative a quelle della Ue.
Non c’è futuro, per la nostra gente, né con gli “europeisti” del grande capitale, né con i nazionalisti delle “piccole patrie”. E’ ora di sgombrare il campo dalle cortine fumogene, dagli equivoci interessati e dal “pensiero bipolare” che ha ucciso quella che si autodefiniva “sinistra”.