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domenica 24 agosto 2014

Come uscire dal recinto della critica economica —  Roberto Romano, Paolo Pini, Il Manifesto

La sen­sa­zione e l’umore di molti eco­no­mi­sti sono quelli delle cro­na­che del “tor­men­tato periodo che va dal 1929 al 1936 […]dove[…] gli eco­no­mi­sti acca­de­mici […]non ave­vano saputo offrire pres­so­ché nes­sun sug­ge­ri­mento poli­ti­ca­mente accet­ta­bile circa un piano d’azione gover­na­tivo, in quanto essi erano fer­ma­mente con­vinti della capa­cità d’autoregolamentazione del mec­ca­ni­smo di mer­cato … l’economia prima o poi si sarebbe ripresa da sola, a patto che la situa­zione non venisse aggra­vata ulte­rior­mente dall’adozione di un’errata poli­tica eco­no­mica, inclusa la mano­vra fiscale” (Hyman P. Min­sky, Key­nes e l’instabilità del capi­ta­li­smo, 2009).
Ma quest’umore non potrebbe essere diverso. Tanti anni di (tesi) poli­ti­che ed eco­no­mi­che fon­date sulla con­cor­renza, sulla fles­si­bi­lità e sui fal­li­menti dello Stato hanno eroso il senso comune e, aspetto ben più grave, com­pro­messo quel vasto patri­mo­nio di cono­scenze che era alla base della rispo­sta poli­tica ed eco­no­mica della crisi del ’29. Se doves­simo pren­dere per asso­lute le dichia­ra­zioni di Fmi (Lagarde e Blan­chard), Bce (Dra­ghi), Com­mis­sione euro­pea (Bar­roso e Junc­ker) e di molti opi­nio­ni­sti ita­liani tra cui Boeri, per non citare con le dovute distin­zioni Ale­sina, Gia­vazzi, Tabel­lini e con­si­mili, dovremmo chiu­dere baracca e burat­tini.
L’aspetto dram­ma­tico di que­ste tesi è l’effetto che hanno sugli eco­no­mi­sti cri­tici (libe­ral, strut­tu­ra­li­sti, cir­cui­sti, key­ne­siani, anche in senso lato). Molti com­menti riflet­tono l’impotenza e, sotto sotto, l’amarezza del dibat­tito. Ridursi a cri­ti­care il pareg­gio di bilan­cio, l’insensatezza della ridu­zione del debito o della esa­spe­rata fles­si­bi­lità del lavoro, l’austerità espan­siva, tra tutte cre­diamo la più indi­ge­sta per­ché non com­pren­diamo il nesso tra auste­rità ed espan­sione, e per ultima la pre­ca­rietà espan­siva, è un eser­ci­zio di buon senso e neces­sa­rio. Lascia tut­ta­via un vuoto di pro­getto e pro­spet­tiva che riduce l’economista a mero “cri­tico”, sep­pur diver­sa­mente declinato.
Quello che manca alla cri­tica è un oriz­zonte minimo e con­di­viso. Saremo dei roman­tici, ma l’economia è una scienza sociale e, prima o poi, dovremo farci carico di una pro­spet­tiva diversa dalla gestione della crisi o dalla cri­tica. Que­sto atteg­gia­mento ha radici molto nobili: senza cri­tica è dif­fi­cile costruire un pro­getto alter­na­tivo. Pen­siamo a Sraffa, Kalecki, Robin­son, Sylos Labini, Gra­ziani, Pasi­netti, Leon. Con tutta l’attenzione pos­si­bile, la cri­tica svolta da que­sti è più che sufficiente.
Non dob­biamo raf­fi­nare ciò che è già stato decli­nato in più modi. Erano (sono) per­so­naggi enormi, ma non hanno costruito una idea orga­nica di società diversa. Abbiamo delle intui­zioni, delle sug­ge­stioni, ma pos­siamo dire che il pro­getto (futu­ri­stico) di società più avan­zato è quello delle pro­spet­tive eco­no­mi­che dei nostri nipoti?
Non ci man­cano i lasciti dei nostri mae­stri. Pen­siamo ai “conti senza l’oste” di Gra­ziani, alla “dina­mica strut­tu­rale” di Pasi­netti e alla “tec­nica supe­riore” di Leon. Senza man­care di rispetto a nes­suno il lascito più grande è forse di Sylos Labini quando afferma che “in una ana­lisi dina­mica lo svi­luppo eco­no­mico è da riguar­dare, non sem­pli­ce­mente come un aumento siste­ma­tico del pro­dotto nazio­nale con­ce­pito come aggre­gato a com­po­si­zione data ma, neces­sa­ria­mente, come un pro­cesso di muta­mento strut­tu­rale, che influi­sce sulla com­po­si­zione della pro­du­zione e dell’occupazione e che deter­mina cam­bia­menti nelle forme di mer­cato, nella distri­bu­zione del red­dito e nel sistema dei prezzi” (Pro­gresso tec­nico e svi­luppo ciclico, 1993). Tec­ni­ca­mente dovremmo avere molti più stru­menti degli eco­no­mi­sti mainstream per dise­gnare un futuro migliore per i nostri nipoti, ma il clima che ci cir­conda è inva­li­dante e disar­mante, con un lascito che annulla anche le più ele­vate buone intenzioni.
In un modo o nell’altro l’Europa è oggi il ter­reno e lo snodo che segnerà la fine o l’inizio di una nuova società. Abbiamo un com­pito gra­voso e pos­siamo assu­merlo se usciamo dalla logica della cri­tica. Per il nostro paese signi­fica qual­cosa di più. Non la ripe­ti­zione di sva­lu­ta­zione (defla­zione) del lavoro. Per la prima volta l’Italia deve assu­mersi delle respon­sa­bi­lità nuove e ine­dite se vuole rima­nere un paese moderno, sia per quanto riguarda le poli­ti­che eco­no­mi­che interne e sia per quanto riguarda le poli­ti­che europee.
Si tratta di cam­biare il motore della mac­china senza fer­marla (Ric­cardo Lom­bardi). Non si tratta di poli­ti­che dell’offerta, piut­to­sto della neces­sità di asse­con­dare e gui­dare la dina­mica di strut­tura di Pasi­netti, i conti senza l’oste di Gra­ziani e il segno del nostro Pil di Sylos Labini. Tutti soste­niamo che l’intervento pub­blico è indi­spen­sa­bile. Pos­siamo almeno decli­nare alcuni pezzi di que­sta neces­sità? Per­ché non pren­dere la ricerca e svi­luppo pub­blica, altra non né cono­sciamo, e indu­stria­liz­zarla al fine di modi­fi­care il segno del Pil, della strut­tura e del ben-essere? Pos­siamo affi­dare alla Cdp, o chi per essa, il com­pito di anti­ci­pare il denaro neces­sa­rio (Gra­ziani) per spo­starci dai set­tori in declino verso i set­tori a mag­giore con­te­nuto tec­no­lo­gico e cogni­tivo? Se poi il pri­vato ha voglia di spen­dere quel tanto o poco di buono che è rima­sto, dob­biamo esserne solo felici. Il con­flitto capitale-lavoro ritro­ve­rebbe l’agio descritto accu­ra­ta­mente dalla immensa Robinson.
Per l’Europa, dob­biamo spin­gerci oltre la fles­si­bi­lità di bilan­cio, la moneta paral­lela o la ri-appropriazione della moneta. La sfida è quella di uno stato fede­rale o uno stato euro­peo a tutto tondo. Lasciamo i mul­ti­pli delle poli­ti­che ter­ri­to­riali. Sono giu­stap­punto mul­ti­pli. L’Europa non sarà mai l’Europa se non riu­scirà a isti­tuire i prin­cìpi, le norme e le regole dell’economia pub­blica, cioè defi­nire l’insieme delle poli­ti­che di bilan­cio comu­ni­ta­rie con le quali indi­riz­zare il sistema eco­no­mico euro­peo verso obiet­tivi demo­cra­ti­ca­mente defi­niti. L’Europa, infatti, non pos­siede un bilan­cio auto­nomo e finan­ziato con entrate fiscali legate ad un’ampia base impo­ni­bile. Imma­gi­niamo un bilan­cio comu­ni­ta­rio pari al 5% del Pil dell’insieme dei paesi mem­bri. Lo stato nasce e si con­so­lida con le impo­ste. I coloni irlan­desi hanno fon­dato gli Stati uniti d’America pro­prio sulle impo­ste. In que­sto modo sarebbe pos­si­bile rimuo­vere il vin­colo discre­zio­nale dei tra­sfe­ri­menti sta­tali. Se la crisi è strut­tu­rale, occorre creare isti­tu­zioni ade­guate per tenere in ten­sione la domanda effet­tiva, ridu­cendo il man­cato impiego delle risorse pro­dut­tive a comin­ciare dalla disoc­cu­pa­zione. Pen­sare ad un bilan­cio euro­peo molto più con­si­stente, finan­ziato con stru­menti come l’Iva, impo­ste ambien­tali ed una tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie, l’emissione di bond acqui­stati dalla Bce per soste­nere la cre­scita e gli inve­sti­menti neces­sari per Europa 2020, che deve ridurre il gap tra i Paesi, infine mec­ca­ni­smi di rie­qui­li­brio dei defi­cit ed avanzi com­mer­ciali tra i paesi che adot­tano la stessa moneta, non sareb­bero stru­menti car­dine per un pro­getto di società o l’embrione di società europea?
Gli eco­no­mi­sti main­stream hanno sem­pre la stessa pro­po­sta “natu­rale” di società ed eco­no­mia, ma una qual­che colpa gli eco­no­mi­sti non–main­stream devono pur averla se i primi hanno tutto que­sto potere culturale.

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