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lunedì 25 agosto 2014

L’erba vorrei. di Carlo Formenti


Antonio Dias2
Vorrei che gli amici di alfabeta2 non mi avessero chiesto di iniziare un articolo con la parola vorrei… Perciò, dopo essermi formalmente adeguato alla richiesta, riformulo l’incipit sostituendo “vorrei” con “mi piacerebbe che”. Anzi, contrordine: meglio adottare un sommesso “gradirei che” (il verbo piacere ha troppe assonanze con i famigerati like di Facebook).
Ricomincio: gradirei provocare il lettore con qualche considerazione in merito all’eredità dell’Erba Voglio (implicita nell’iniziativa alfabetica, in barba all’effetto straniante prodotto dall’uso del condizionale). Premetto che i sentimenti di amicizia e simpatia che provavo negli anni Settanta nei confronti dei fondatori dell’Erba Voglio restano immutati a distanza di quarant’anni (ahimè!); è invece radicalmente cambiato il mio giudizio nei confronti del messaggio politico-culturale di cui la rivista fu latrice.
A noi tardo autonomi quel messaggio piaceva perché radicalizzava la critica nei confronti della cultura tradizionale del movimento operaio, nella misura in cui contrapponeva a una visione accentratrice e gerarchica dell’organizzazione politica una visione orizzontale e libertaria, ispirata alle pratiche del femminismo e a una lettura alternativa della teoria psicanalitica: no ai vecchi, noiosi programmi politici, sì al pensiero della differenza e alle pratiche desideranti.
Nei decenni successivi abbiamo avuto modo di verificare gli effetti (non “voluti” ma non per questo meno perniciosi) di quella svolta culturale. I “nuovi movimenti”, privi di un progetto politico comune, concentrati su singoli obiettivi (sistematicamente compatibili con la conservazione della società capitalista), lanciati all’inseguimento di “differenze” foriere di derive identitarie, mobilitati all’insegna di un “desiderio” che poco aveva a che spartire con la radicalità lacaniana del concetto (e assai più con i velleitari svolazzi “antiedipici” della coppia Deleuze/Guattari o, peggio, dei loro mediocri emuli italiani, francesi e americani), non sono stati minimamente in grado di contrastare la controrivoluzione liberal-liberista;
di più: ne sono stati in certa misura complici, favorendo la crescita di una mentalità individualista e soggettivista che ha indebolito la capacità di lotta delle nuove generazioni, già compromessa dalla frantumazione del corpo di classe associata alla ristrutturazione capitalista. Per concludere: gradirei che quanto resta della sinistra radicale tornasse ad associare il verbo volere all’endiadi gramsciana – pessimismo della ragione, ottimismo della volontà – e non alla chiacchiera desiderante dell’Erba Voglio. O dell’Erba Vorrei.

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