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sabato 6 settembre 2014

Il mercato che fallisce

I dati drammatici sull’Italia . Lo stato del mercato del lavoro italiano è critico. Lo dice l’Ocse nel rapporto annuale 2014. 6 milioni di persone senza lavoro né reddito
lavorare-restituireLo stato del mer­cato del lavoro ita­liano è dram­ma­tico. Lo dice l’Ocse nel rap­porto annuale 2014. Le con­di­zioni dei gio­vani sul mer­cato peg­gio­rano, aumenta la disoc­cu­pa­zione e chi sta fuori dal mer­cato sta per­sino peggio.
Il lavoro subor­di­nato svolto dalle finte atti­vità auto­nome rimane ele­va­tis­simo. Il numero dei Neet aumenta: gio­vani senza lavoro, non stu­diano, non sono in for­ma­zione, e nep­pure cer­cano lavoro. Il sistema di pro­te­zione sociale è inef­fi­ciente ed ini­quo. Pure gli occu­pati pseudo «garan­titi» peg­gio­rano le loro con­di­zioni per­ché dopo sette anni di crisi eco­no­mica le imprese chiu­dono. Il lavoro non stan­dard con basse tutele sosti­tui­sce quello stan­dard, le retri­bu­zioni si abbas­sano e così pure la pro­dut­ti­vità, le moti­va­zioni e sod­di­sfa­zioni a lavo­rare bene e meglio, men­tre aumenta stress, pres­sione, insi­cu­rezza. Le per­sone con for­ma­zione, istruite e qua­li­fi­cate, svol­gono spesso fun­zioni e com­piti al di sotto delle com­pe­tenze acqui­site, per­ché l’impresa ita­liana domanda lavoro a bassa pro­dut­ti­vità e con basse competenze.
Sono più di 6 milioni gli italiani involontariamente privati di lavoro e di reddito
Stima l’Ocse che la «disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale» è aumen­tata e dif­fi­cil­mente verrà rias­sor­bita con il ritorno alla cre­scita. Ci dovremmo abi­tuare a con­vi­vere con una disoc­cu­pa­zione del 10–12%. Uno sce­na­rio da incubo: se aggiun­giamo i Neets, gli inat­tivi per­ché sco­rag­giati, gli inoc­cu­pa­bili per­ché fuori mer­cato e i «rot­ta­mati» come gli «eso­dati» e gli «eson­danti», supe­riamo i 6 milioni di per­sone invo­lon­ta­ria­mente pri­vate di lavoro e reddito.
L’aumento della disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale ha effetti di non poco conto sugli Obiet­tivi di Medio Ter­mine per il con­so­li­da­mento fiscale e Fiscal Com­pact: il gap tra tasso di disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale disoc­cu­pa­zione effet­tiva si riduce e quindi dimi­nui­scono i mar­gini della poli­tica eco­no­mica, degli stru­menti key­ne­siani, della domanda pub­blica che implica minore spa­zio per fare poli­ti­che di strut­tura per l’industria.
Se si tol­gono que­sti stru­menti dal lato della domanda pub­blica, riman­gono sul tavolo solo le ricette di meno tasse con tagli della spesa, per sod­di­sfare i vin­coli di bilan­cio, e quindi di riforme strut­tu­rali del lavoro per intro­durre più fles­si­bi­lità. La poli­tica eco­no­mica si risolve tutto qui: fles­si­bi­lità del lavoro alla mas­sima velo­cità. Non c’è spa­zio né per Key­nes né per Schumpeter.
E infatti l’Ocse pro­pone una unica ricetta sal­vi­fica: più fles­si­bi­lità di mer­cato, meno regole per assun­zioni e licen­zia­menti. Torna il «tempo delle mele»: ulte­riore revi­sione dell’art. 18 dopo la legge Monti-Fornero del 2012. Chi viene ingiu­sta­mente licen­ziato non deve più godere di alcun diritto a essere rein­te­grato, ma solo un inden­nizzo auto­ma­tico in fun­zione dell’anzianità lavo­ra­tiva, senza appello per­ché i giu­dici del lavoro tute­lano la parte debole, il lavo­ra­tore, e fanno cre­scere i costi per l’impresa. Limi­tare il diritto di rein­te­gro al licen­zia­mento discri­mi­na­to­rio signi­fica la can­cel­la­zione di quel diritto tout court: solo un impren­di­tore stu­pido licen­zie­rebbe con moti­va­zione espli­ci­ta­mente sin­da­cale, poli­tica, raz­ziale, di genere. Scam­bio «diritti con­tro denaro», que­sta è la ricetta occu­pa­zio­nale dell’Ocse.
Che la fles­si­bi­lità abbia pro­dotto più pre­ca­rietà e incer­tezza sulle con­di­zioni lavo­ra­tive, meno moti­va­zioni sul lavoro, poco importa. Non aiuta l’occupazione ma la sosti­tu­zione di lavoro sta­bile e di certa retri­bu­zione con lavoro insta­bile a poco prezzo che sono «trap­pola» della pre­ca­rietà. La facile licen­zia­bi­lità in tempo di crisi pro­duce un aumento della disoc­cu­pa­zione, man­cando il lavoro per­ché manca la domanda.
Che ciò accre­sca la «trap­pola della bassa pro­dut­ti­vità», altro male tipi­ca­mente ita­liano cau­sato non da troppe regole e tutele ma da poca inno­va­zione nei luo­ghi di lavoro e nell’organizzazione del lavoro, inno­va­zione soprat­tutto di pro­dotto, anzi pro­duca un incen­tivo a non inve­stire, ad usare lavoro a basso costo e scarsa pro­dut­ti­vità, è una delle incoe­renze di quanto ci viene pro­pi­nato da lungo tempo. Una ricetta miope e perniciosa.
Si chiede che il Jobs Act riveda le norme sul lavoro, renda ancora più fles­si­bili gli ingressi e le uscite, sem­pli­fi­chi le norme, abbassi il prezzo del lavoro, riduca il dua­li­smo tra pro­tetti e non pro­tetti por­tando le tutele dei primi al livello delle non-tutele dei secondi.
È una nar­ra­zione già letta e pro­vata: non ha gene­rato nulla di buono, solo effetti nega­tivi su equità e efficienza.
Per­ché allora per­se­ve­rare? Chi ci gua­da­gna da que­sta poli­tica senza prin­cipi eco­no­mici fon­danti? Quali sono que­gli «inte­ressi costi­tuiti» di cui par­lava Key­nes che dise­gnano la poli­tica eco­no­mica con­tro la «pro­gres­siva esten­sione delle idee»? Ha forse ragione Krug­man quando afferma che «quando i miti eco­no­mici per­si­stono, di solito la spie­ga­zione risiede nella poli­tica, ed in par­ti­co­lare negli inte­ressi di classe».
Paolo Pini - il manifesto

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