Non c’è bisogno di ripeterlo, ma tant’è lo ripetiamo tutti: Beppe Grillo
sa come muoversi davanti alle telecamere. Ufficialmente non ne vuole
nemmeno una ai suoi comizi, tranne quella che lo proietta nella rete di
Internet e lo fa vedere “urbi et orbi” e che è sempre sul palco sorretta
da un suo sostenitore.
Eppure Grillo, che lamenta di essere censurato e di veder maltrattato il movimento 5 Stelle, è il convitato di pietra – neppure tanto di pietra… – di ogni programma di intrattenimento politico, di ogni “talk show”. Lo è sempre, e lo è perché rifiuta di partecipare a questi momenti di confronto, secondo la strategia comunicativa di Casaleggio e della sua agenzia.
Ma allora perché, essendo uno dei più gettonati leader politici in tv, si percuote il petto e si lancia nella nenia della persecuzione giornalistica? Perché tutto questo vittimismo?
Credo che la risposta sia molto semplice: perché anche questo fa apparire eroico sia lui che il suo movimento. Senza individuare un qualunque nemico, un avversario irriducibile, come potrebbe mai suonare la grancassa dell’ “avanti miei prodi”, verso una rivoluzione italiana tanto promessa e tanto impossibilitata a concretizzarsi secondo lo schematismo e l’immobilismo grillino?
Ogni fenomeno insufficiente a sé stesso ha bisogno sempre, per mostrarsi, dimostrarsi e avanzare, di un nemico cui poter fare riferimento e al quale gridare nei momenti di difficoltà.
Dopo la cocente sconfitta delle elezioni amministrative, dove il movimento 5 Stelle ha più che dimezzato i voti a Roma e perso oltre tre quarti dei consensi nelle più grandi realtà che andavano al voto, è naturale intanto la minimizzazione del comico genovese che fa la distinzione – peraltro opportuna – tra piano locale e piano nazionale; ed è poi altrettanto naturale l’accusa di essere stato oscurato nella proposta del suo programma politico da televisioni, Internet, radio, mass media in generale.
La seconda è una bugia grande quanto il mare oceano; la prima è un’osservazione, come dicevo, opportuna che però deve tenere conto della particolarità del voto dato al movimento 5 Stelle.
Non siamo davanti ad un consenso “rigido”, ad un consenso – per usare le parole di un tempo – “ideologico”: lo stesso movimento e lo stesso comico si definiscono né di destra, né di centro, né di sinistra. Una novità dunque che, se si trattasse di fare un paragone, sarebbe simile a qualcosa di angelico, asessuato, privo quindi delle caratteristiche umanamente conosciute: qui, politicamente conosciute.
Questa pretesa di verginità politica è la prima presunzione confutabile del movimento: non è vero che non è di destra, né di sinistra o centro. E’ un movimento assolutamente classificabile ogni volta che si esprime.
Se una deputata in aula sostiene che a determinati giornalisti “bisognerebbe dare l’olio di ricino”, in quel momento è legittimo sostenere che sta parlando con un linguaggio quanto meno aggressivo, muscolare, anche storicamente poco opportuno al contesto parlamentare repubblicano, quindi offensivo e di destra? Non perché tutto quello che proviene da destra sia offensivo: ma di certo molte cose sono offensive per l’uguaglianza dei diritti sociali e civili.
Quando Grillo in persona, fingendosi faceto, si rivolge ai giornalisti e ne fa un elenco verbale e – sempre minimizzando per poter replicare o confutare le “cattive” e “maliziose” interpretazioni – dice che prima o poi farà i conti con Giovanni Floris, Corrado Formigli e i loro programmi, possiamo dire con assoluta liceità che fa un attacco immorale, incostituzionale, quindi una prova di forza anche solo verbale contro un elemento cardine della libertà democratica: l’espressione delle idee e il diritto di cronaca?
La strategia è lontana mentre la tattica la si vede fin troppo bene: “Ci prenderemo il Paese ad ottobre” dice il capocomico.
Probabilmente ha ragione nel calcolare gli effetti disastrosi di una crisi economica che il liberismo sta spingendo sempre più in avanti e contro le categorie sociali più deboli del Paese. Del resto anche la CGIL ha dimostrato numeri alla mano che occore una sessantina di anni per tornare a degli standard di minima decenza nei trattamenti del lavoro, nelle percentuali produttive e di rispetto dei salari che si avevano negli anni ’70 e ’80.
Il livello della disoccupazione è destinato a crescere e quindi non c’è salvezza per le proposte sensate, ragionate, soppesate in base ai rapporti di forza esistenti nell’agone sociale, politico ed economico.
C’è spazio, tanto spazio, per la presunzione, per l’arroganza, per lo “stile di Grillo”: lo dicono i suoi deputati e i suoi senatori. Lui parla così. E del resto potrebbe mai parlare diversamente? Lo potete immaginare seduto tra gli altri leader politici e sindacali a discutere?
La prevaricazione del tono della sua voce è appunto tale, è unidirezionale, non ammente contraddizione o risposta. Accetta solo l’urlo della piazza che grida sempre il solito mantra: “Tutti a casa!”.
E naturalmente il nemico numero uno è chi critica o adombra incongruenze tra il dire il fare del movimento 5 Stelle. Non è permesso criticare, non è concesso stigmatizzare nulla.
Se lo fai, ti becchi Crimi per strada che ti dice: “Voi (giornalisti) avete crato un castello di carta che serve a voi stessi”, o frasi simili. La colpa non è nostra, dice Crimi, i cattivoni siete voi. Sempre e solo voi.
L’anomalia politica di questo Paese ora, dunque, contempla oltre a Berlusconi a destra e oltre a quel curioso mai riuscito esperimento di fusione di politicismo cattolico e socialdemocratico chiamato “Partito Democratico” nell’alveo del centrosinistra, anche il grillismo tra mito, leggenda e speranza che ancora una volta sarà delusa.
L’Italia guarda “Striscia la notizia” e sogna i vendicatori più o meno mascherati di Antonio Ricci dalla tv e dal palco delle piazze il nuovo messia, il nuovo conducator di un Paese alla deriva morale, alla deriva politica e anche e soprattutto ad una deriva culturale.
Non c’è salvezza politica senza salvezza sociale, e non c’è politica buona senza un livello di civismo tale da poterla produrre.
Qui si inserisce il deficitarismo della sinistra italiana che va ricostruita. Ma questo vulnus non è del tutto politico: ha radici anche in un monoculturalismo che ha fatto di noi comunisti molto spesso dei soggetti dogmatici, dei cloni di altre generazioni scomparse.
Abbiamo esercitato noi per primi, in tutti questi ultimi anni, una presunzione enorme nel dirci e considerarci la forza di rappresentanza politica dei lavoratori e sapevamo benissimo che i lavoratori e le lavoratrici ci avevano voltato le spalle nella maggioranza dei casi.
Votavano al Nord principalmente un altro soggetto populista ma molto diverso dal movimento 5 Stelle: la Lega di Bossi e Maroni. Nemici e amici oggi, ma fratelli ieri in nome degli interessi di una media borghesia che ha tentato di imporsi sul resto del Paese e ha fallito solamente perché il grande padronato non è rimasto a guardare ma si è riorganizzato prima sotto l’improvvisazione berlusconiana e democratica e oggi, ben più compiutamente, si riconosce nell’unità del governo di Enrico Letta.
Beppe Grillo non ha un programma sul lavoro: parla dell’Ilva di Taranto, di andare a presidiarla due giorni con i suoi deputati e senatori ma non propone nessuna analisi critica nei confronti dell’impresa.
Non siamo, dunque, davanti ad un movimento classista, ma interclassista che ormai rappresenta il cliché dei partiti e dei soggetti politici che il Paese è abituato a conoscere: non più partiti schierati da una parte sociale sola, ma schierati con tutte e tutti gli strati della società. Così è per il PDL, così è per il PD e così è per il movimento grillino.
La tristemente ben nota opinione che del ruolo del sindacato ha Grillo, è facile da incasellare come opportunità di far lievitare ancora di più il più che giusto malumore e la rabbia dei lavoratori nei confronti di un sistema di protezione dei diritti che troppo spesso è stato messo al servizio della controparte invece che rimanere dalla propria.
Qualcuno ha detto che, in fondo, Grillo è una “tigre di carta”, riprendendo l’espressione di Mao Tse Tung verso gli Stati Uniti d’America.
Non condivido questo giudizio: penso che sia una tigre che ancora non ha tutte le unghie affilate, ma che viene cavalcata molto bene dai suoi padroni e spinta nella direzione giusta da chi intende impossessarsi di un sistema politico per scopi tutt’altro che pubblici.
C’è un grande inganno in tutto questo. Ma noi che lo denunciamo siamo dei complottisti, dei “conservatori”. Chi non lo vede invece è – per moda, illusione o per entrambe – il virtuoso del momento.
Eppure Grillo, che lamenta di essere censurato e di veder maltrattato il movimento 5 Stelle, è il convitato di pietra – neppure tanto di pietra… – di ogni programma di intrattenimento politico, di ogni “talk show”. Lo è sempre, e lo è perché rifiuta di partecipare a questi momenti di confronto, secondo la strategia comunicativa di Casaleggio e della sua agenzia.
Ma allora perché, essendo uno dei più gettonati leader politici in tv, si percuote il petto e si lancia nella nenia della persecuzione giornalistica? Perché tutto questo vittimismo?
Credo che la risposta sia molto semplice: perché anche questo fa apparire eroico sia lui che il suo movimento. Senza individuare un qualunque nemico, un avversario irriducibile, come potrebbe mai suonare la grancassa dell’ “avanti miei prodi”, verso una rivoluzione italiana tanto promessa e tanto impossibilitata a concretizzarsi secondo lo schematismo e l’immobilismo grillino?
Ogni fenomeno insufficiente a sé stesso ha bisogno sempre, per mostrarsi, dimostrarsi e avanzare, di un nemico cui poter fare riferimento e al quale gridare nei momenti di difficoltà.
Dopo la cocente sconfitta delle elezioni amministrative, dove il movimento 5 Stelle ha più che dimezzato i voti a Roma e perso oltre tre quarti dei consensi nelle più grandi realtà che andavano al voto, è naturale intanto la minimizzazione del comico genovese che fa la distinzione – peraltro opportuna – tra piano locale e piano nazionale; ed è poi altrettanto naturale l’accusa di essere stato oscurato nella proposta del suo programma politico da televisioni, Internet, radio, mass media in generale.
La seconda è una bugia grande quanto il mare oceano; la prima è un’osservazione, come dicevo, opportuna che però deve tenere conto della particolarità del voto dato al movimento 5 Stelle.
Non siamo davanti ad un consenso “rigido”, ad un consenso – per usare le parole di un tempo – “ideologico”: lo stesso movimento e lo stesso comico si definiscono né di destra, né di centro, né di sinistra. Una novità dunque che, se si trattasse di fare un paragone, sarebbe simile a qualcosa di angelico, asessuato, privo quindi delle caratteristiche umanamente conosciute: qui, politicamente conosciute.
Questa pretesa di verginità politica è la prima presunzione confutabile del movimento: non è vero che non è di destra, né di sinistra o centro. E’ un movimento assolutamente classificabile ogni volta che si esprime.
Se una deputata in aula sostiene che a determinati giornalisti “bisognerebbe dare l’olio di ricino”, in quel momento è legittimo sostenere che sta parlando con un linguaggio quanto meno aggressivo, muscolare, anche storicamente poco opportuno al contesto parlamentare repubblicano, quindi offensivo e di destra? Non perché tutto quello che proviene da destra sia offensivo: ma di certo molte cose sono offensive per l’uguaglianza dei diritti sociali e civili.
Quando Grillo in persona, fingendosi faceto, si rivolge ai giornalisti e ne fa un elenco verbale e – sempre minimizzando per poter replicare o confutare le “cattive” e “maliziose” interpretazioni – dice che prima o poi farà i conti con Giovanni Floris, Corrado Formigli e i loro programmi, possiamo dire con assoluta liceità che fa un attacco immorale, incostituzionale, quindi una prova di forza anche solo verbale contro un elemento cardine della libertà democratica: l’espressione delle idee e il diritto di cronaca?
La strategia è lontana mentre la tattica la si vede fin troppo bene: “Ci prenderemo il Paese ad ottobre” dice il capocomico.
Probabilmente ha ragione nel calcolare gli effetti disastrosi di una crisi economica che il liberismo sta spingendo sempre più in avanti e contro le categorie sociali più deboli del Paese. Del resto anche la CGIL ha dimostrato numeri alla mano che occore una sessantina di anni per tornare a degli standard di minima decenza nei trattamenti del lavoro, nelle percentuali produttive e di rispetto dei salari che si avevano negli anni ’70 e ’80.
Il livello della disoccupazione è destinato a crescere e quindi non c’è salvezza per le proposte sensate, ragionate, soppesate in base ai rapporti di forza esistenti nell’agone sociale, politico ed economico.
C’è spazio, tanto spazio, per la presunzione, per l’arroganza, per lo “stile di Grillo”: lo dicono i suoi deputati e i suoi senatori. Lui parla così. E del resto potrebbe mai parlare diversamente? Lo potete immaginare seduto tra gli altri leader politici e sindacali a discutere?
La prevaricazione del tono della sua voce è appunto tale, è unidirezionale, non ammente contraddizione o risposta. Accetta solo l’urlo della piazza che grida sempre il solito mantra: “Tutti a casa!”.
E naturalmente il nemico numero uno è chi critica o adombra incongruenze tra il dire il fare del movimento 5 Stelle. Non è permesso criticare, non è concesso stigmatizzare nulla.
Se lo fai, ti becchi Crimi per strada che ti dice: “Voi (giornalisti) avete crato un castello di carta che serve a voi stessi”, o frasi simili. La colpa non è nostra, dice Crimi, i cattivoni siete voi. Sempre e solo voi.
L’anomalia politica di questo Paese ora, dunque, contempla oltre a Berlusconi a destra e oltre a quel curioso mai riuscito esperimento di fusione di politicismo cattolico e socialdemocratico chiamato “Partito Democratico” nell’alveo del centrosinistra, anche il grillismo tra mito, leggenda e speranza che ancora una volta sarà delusa.
L’Italia guarda “Striscia la notizia” e sogna i vendicatori più o meno mascherati di Antonio Ricci dalla tv e dal palco delle piazze il nuovo messia, il nuovo conducator di un Paese alla deriva morale, alla deriva politica e anche e soprattutto ad una deriva culturale.
Non c’è salvezza politica senza salvezza sociale, e non c’è politica buona senza un livello di civismo tale da poterla produrre.
Qui si inserisce il deficitarismo della sinistra italiana che va ricostruita. Ma questo vulnus non è del tutto politico: ha radici anche in un monoculturalismo che ha fatto di noi comunisti molto spesso dei soggetti dogmatici, dei cloni di altre generazioni scomparse.
Abbiamo esercitato noi per primi, in tutti questi ultimi anni, una presunzione enorme nel dirci e considerarci la forza di rappresentanza politica dei lavoratori e sapevamo benissimo che i lavoratori e le lavoratrici ci avevano voltato le spalle nella maggioranza dei casi.
Votavano al Nord principalmente un altro soggetto populista ma molto diverso dal movimento 5 Stelle: la Lega di Bossi e Maroni. Nemici e amici oggi, ma fratelli ieri in nome degli interessi di una media borghesia che ha tentato di imporsi sul resto del Paese e ha fallito solamente perché il grande padronato non è rimasto a guardare ma si è riorganizzato prima sotto l’improvvisazione berlusconiana e democratica e oggi, ben più compiutamente, si riconosce nell’unità del governo di Enrico Letta.
Beppe Grillo non ha un programma sul lavoro: parla dell’Ilva di Taranto, di andare a presidiarla due giorni con i suoi deputati e senatori ma non propone nessuna analisi critica nei confronti dell’impresa.
Non siamo, dunque, davanti ad un movimento classista, ma interclassista che ormai rappresenta il cliché dei partiti e dei soggetti politici che il Paese è abituato a conoscere: non più partiti schierati da una parte sociale sola, ma schierati con tutte e tutti gli strati della società. Così è per il PDL, così è per il PD e così è per il movimento grillino.
La tristemente ben nota opinione che del ruolo del sindacato ha Grillo, è facile da incasellare come opportunità di far lievitare ancora di più il più che giusto malumore e la rabbia dei lavoratori nei confronti di un sistema di protezione dei diritti che troppo spesso è stato messo al servizio della controparte invece che rimanere dalla propria.
Qualcuno ha detto che, in fondo, Grillo è una “tigre di carta”, riprendendo l’espressione di Mao Tse Tung verso gli Stati Uniti d’America.
Non condivido questo giudizio: penso che sia una tigre che ancora non ha tutte le unghie affilate, ma che viene cavalcata molto bene dai suoi padroni e spinta nella direzione giusta da chi intende impossessarsi di un sistema politico per scopi tutt’altro che pubblici.
C’è un grande inganno in tutto questo. Ma noi che lo denunciamo siamo dei complottisti, dei “conservatori”. Chi non lo vede invece è – per moda, illusione o per entrambe – il virtuoso del momento.
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