È una grande tristezza assistere inermi alla riduzione e
all'abolizione di qualsiasi forma di finanziamento della politica. E'
una sconfitta della democrazia, del progresso, di civiltà. Almeno della
nostra civiltà europea. Si dice che sono i cittadini a volerla, che essa
rifletta la rabbia del disagio sociale causato dalla crisi. Può darsi.
Ma non è una buona politica quella che interpreta le rabbie. La politica
dovrebbe risolvere i problemi che stanno all'origine della rabbia, non
farsene un interprete populista.
È una regressione grave e pericolosa. Persino, si potrebbe dire, anticostituzionale. L'articolo 49 della nostra Costituzione recita:
È una regressione grave e pericolosa. Persino, si potrebbe dire, anticostituzionale. L'articolo 49 della nostra Costituzione recita:
"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale".Se è un diritto vuol dire che lo stato dovrebbe garantirlo e non negarlo. Favorirlo, non sopprimerlo. Dovrebbe aumentare il finanziamento ai partiti, che in tantissimi paesi europei è nettamente più cospicuo che da noi, magari a scapito degli stipendi dei parlamentari. Poi certamente andrebbe regolamentato e reso trasparente, imponendo alcuni vincoli ai partiti.
Da noi si abolisce il finanziamento pensando di decurtare gli
stipendi dei politici e non si capisce che a rimetterci, come ha
ricordato Ugo Sposetti al Corriere della Sera,
sono in realtà le persone che nei partiti e nelle fondazioni collegate
lavorano per poche centinaia di euro al mese. Sono quelli che lo fanno
per passione prima ancora che per denaro a pagarne le conseguenze.
Ma non è solo questo. L'abolizione del finanziamento alla politica ha
a che fare con l'essenza stessa della democrazia sostanziale. Persino
un bambino capirebbe che, senza il finanziamento, si andrebbe incontro
solo a tendenze plutocratiche e degenerative: la politica la potrebbero
fere solo i ricchi e i partiti diventerebbero ricattabili da chi ha
denaro e sarebbero, dunque, costantemente sotto lo scacco delle lobby
economiche e dei poteri forti. Vince il mercato, perde lo Stato. Vincono
le banche e le imprese, perdono i cittadini. Il pubblico si suicida a
favore del privato. Una tragedia politica e sociale.
Nel discorso pubblico si lascia credere che siano i cittadini a
volere l'abolizione; in realtà è il mondo della finanza e dell'economia
che lo desidera visto che teme, in questo periodo di crisi, le risposte
che possono venire da partiti strutturati che possono portare avanti
istanze reali di cambiamento dal basso. Sono gli stessi soggetti che,
avendo a disposizione i mass media, sono riusciti a montare la polemica,
inconsistente, contro la casta. Voglio che lo Stato non finanzi la
politica ma poi pretendono che utilizzi i soldi dei cittadini per pagare
i debiti delle banche.
Chi difende la democrazia dei partiti viene accusato di essere
novecentesco. Sarà. Ma chi lo dice, dietro la sua presunta
ipermodernità, è in realtà un ottocentesco che propone
(inconsapevolmente?) il ritorno ai notabili muniti di comitati
personali, alla società civile (molto più ridotta del corpo elettorale)
che, in virtù del suo potere cognitivo ed economico, persegue solo
interessi privati senza quella "intuizione del mondo" tipica dei
partiti.
È la vittoria delle miserie del liberalismo italiano che smise di
essere classe dirigente quando comparvero i partiti dimostrando di non
sapere dialogare con la modernità della democrazia di massa. Allora, per
togliere di mezzo i partiti, si servì anche del fascismo. Oggi è
bastato solo aver montato una battaglia mediatica e populista per
raggiungere lo stesso scopo.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua