Ad entrare nello storico palazzo della Cgil, in Corso Italia, sembra quasi che nulla sia cambiato. Stessi quadri alle pareti, vecchi manifesti delle lotte operaie storiche, slogan antichi o seminuovi. Stesse facce o quasi, impegnate nel leggere documenti o al telefono con qualche funzionario o delegato dall’altra parte dell’Italia. Come se entrassi a Botteghe Oscure e da un momento all’altro fosse possibile incontrare Berlinguer o Togliatti, insomma.
Anche nel piano interrato, dove c’è la sala Di Vittorio – piena per qualche assemblea – e altre minori il via vai è quello consueto. Nulla di diverso da sempre. Eppure questa Cgil che si avvia al Congresso di maggio ha ben poco del piglio combattivo di quella che campeggia ancora sulle pareti. Bloccata dalla paresi abituale quando c’è un “governo amico” – insomma, col Pd dentro – e autoconsegnatasi mani e piedi legati al totem dell’”unità sindacale”; ovvero ai giochetti di Bonanni e alle paure di Angeletti.
Si presenta il “documento 2” per il Congresso (“Il sindacato è un’altra cosa”), firmato da Giorgio Cremaschi, Fabrizio Burattini, Francesco De Simone, Eva Mamini, Franca Peroni e Maurizio Scarpa, tutti membri del Direttivo Nazionale uscente. Parla Cremaschi, storico bastian contrario, coordinatore della Rete28Aprile – lunica “area programmatica” alternativa alla maggioranza, dopo lo scioglimento de “La Cgil che vogliamo” (Landini, Rinaldini, ecc), che si limiterà a presentare “emendamenti” al testo e a sperare in un pieno di voti per il segretario generale della Fiom.
Ma l’alternativa è qui. Minoritaria, fortissimamente minoritaria, come ammettono anche i firmatari (“sui 15.000 funzionari a tempo pieno, non credo di averne trovati più di una ventina d’accordo con noi”), confortati da adsioni inaspettate a livello dei delegati sui posti di lavoro. In qualche misura, si dice scherzando fino ad un certo punto, “è un’alternativa di base”; un pezzo di sindacalismo conflittuale ancora attivo dentro un corpaccione conformato da venti anni di “pratiche consociative”, in cui il “ruolo politico” è stato più importante dell’azione di lotta. A voler usare un eufemismo.
La sorpresa destata dalle 18 pagine del documento è che si presenta fin dall’inizio come “un’altra cosa” rispetto alla Cgil attuale. Una vera e propria piattaforma strategica per rifare da cima a fondo una struttura che non possiede più da tempo il “fuoco sacro” della rappresentanza dei lavoratori italiani nel momento più duro da 50 anni a questa parte.
Nell’illustrare – in ampia sintesi – il documento, Cremaschi parte esprimendo intanto il “totale sostegno” allo sciopero delle donne di lunedì 25 novembre e alla straordinaria mobilitazione degli autoferrotranvieri di Genova. Una dimostrazione plastica di come il sindacato che “limita i danni” sia arrivato al capolinea, con intere categorie ormai giunte al punto di non poter più reggere all’arretramento e quindi a un passo dall’esplosione rabbiosa. E non basta il sostegno, c’è l’invito esplicito a unirsi a questa mobilitazione, a farne “il detonatore per lotte più vaste contro le privatizzazioni”.
Un invito inevitabile, nel giorno in cui i media presentano la nuova ondata di svendite del patrimonio industriale nazionale (Eni, Cdp Reti, Cdp Tag, Stm, Grandi Stazioni, Fincantieri, Sace e Enav), come se nessuno si fosse accorto del deserto creato con quelle degli anni ’80 e ’90 (Autostrade, Fs, Alitalia, Ilva, Telecom, acqua, ecc).
Il “senso” del documento è racchiuso nella frase di Di Vittorio posta in apertura: “se il 99% dei nostri problemi vengono dai nostri avversari e l’1% dai nostri errori, noi prima di tutto dobbiamo affrontare i nostri errori”. Perché non si può chiedere agli avversari di essere meno “cattivi” nella loro ricerca della vittoria. E perché in questo caso “gli errori della Cgil si collocano su una percentuale decisamente più alta”. Il Congresso dovrebbe perciò registrare “la crisi della Cgil, l’assenza di una sua efficacia sindacale e politica; stiamo di fatto perdendo il sindacato”. Non si tratta di contare gli iscritti, ma di misurare quanto l’azione della Cgil sia stata capace di difendere – in tempi di crisi – diritti e salari dei lavoratori. Non un granché, comunque la si rigiri…
“Siamo in piena crisi politica e di sistema, come 20 anni fa, ai tempi di Tangentopoli, ma allora il sindacato fu in grado di avere un ruolo centrale e rappresentare un referente autorevole”. Oggi “Cgil, Cisl e Uil sono viste come parte del Palazzo, della casta; è sempre più difficile spiegare a un lavoratore quale sia la differenza tra la Cgil e il Pd”. La reazione all’attacco a diritti e salari “è stata assolutamente insufficiente”. Ancora: “non si può negare che la linea politica e il modo d’essere siano sbagliati”; occorre “un cambio radicale di linea e di gruppi dirigenti, altrimenti questa volta la Cgil non ce la fa”. A sopravvivere, non solo ad “avere un ruolo”.
Quello lanciato qui è un “allarme rosso”; c’è il fondato rischio di “finire a fondo insieme al Palazzo, travolti dalla Storia”. La soluzione sta – secondo questa visione – nel “tornare al lavoro originario, organizzando la protesta, la rabbia, rappresentando gli interessi del mondo del lavoro”.
Sui contenuti, la distanza con le “larghe intese” guidate da Susanna Camusso diventa abissale. “Sono anni che la Cgil non chiede più niente, che non presenta una piattaforma rivendicativa”. Il “modello della contrattazione” che si è ormai imposto vede “gli altri” – Confindustria e governo – avanzare le proprie richieste, e la Cgil impegnata al massimo ad attenuare i danni”. Lo schema va semplicemente rovesciato: “bisogna avere una nostra piattaforma, e noi ne proponiamo una: uscendo dalle politiche sindacali degli utlimi venti anni”. Non c’è più spazio né funzione, insomma, per le “logiche emendative”; il “disastro nel mondo del lavoro è tale che non si può più continuare col tran tran”. Un esempio? L’idea di “rilanciare i contratti nazionali” quando ormai tutti i contratti sono firmati solo se gravemente peggiorativi. Va rotta una cultura che si è imposta anche in Corso Italia: “l’idea che tutto si contratta appartiene alla Cisl, non alla storia della Cgil”.
La prima proposta concreta – per quanto ovviamente di medio periodo – è davvero “choc” rispetto alla storia della Cgil: “chiediamo un salario orario minimo per legge”. Com’è noto, nell’Italia del dopoguerra, e soprattutto per volontà del “sindacato rosso”, non esiste un istituto del genere, perché per quasi 50 anni rappresentava una forza tale da determinare – là dove i contratti nazionali venivano firmati – un livello salariale superiore a un eventuale “minimo”. Ma non è più così da 20 anni, e gli stipendi attuali rappresentano forse la metà del potere d’acquisto di fine anni ’70, quando ancora era prevalente il modello della famiglia monoreddito e quello stipendio era sufficiente a sfamarla tutta intera; adesso, molto spesso, anche là dove si lavora in due i soldi non bastano…
A chi chiede “che ruolo devono avere allora i contratti nazionali?” viene risposto: “migliorare rispetto ai livelli minimi”. Fantascienza, nell’Italia di oggi; ma se non si sa guardare oltre il muto davanti agli occhi, nessuna libertà è mai possibile.
Oggi in tanti lavorano per “3, 4, 5 euro l’ora”, e conosciamo addirittura “scaffalisti notturni” negli ipermercati che lavorano per appena 6 euro l’ora. L’”obiettivo è arrivare a un salario minimo di 10 euro l’ora”, sapendo che al di sotto di questa soglia (che equivale a circa 1.500 euro mensili) “c’è la povertà, i cosiddetti lavoratori poveri”.
E visto che ormai buona parte della disoccupazione ha ragioni anche tecnologiche (serve molta meno gente per fare lo stesso lavoro, per esempio nelle “grandi opere”, o a causa dell’informatizzazione del lavoro d’ufficio), ne consegue l’obiettivo di una “riduzione generalizzata dell’orario di lavoro”. Soglia da fissare, anche progressivamente, nelle “32 ore settimanali”. Ovviamente non c’è più spazio, in una strategia sindacale del genere, per “la defiscalizzazione degli straordinari” (come chiede anche la Cgil); perché ogni ora di lavoro straordinario è un pezzo di posto di lavoro in meno. E oggi in molti comparti si lavora anche 50 ore…
In terzo luogo, non c’è possibilità si inserire i giovani nel mondo del lavoro se non si provvede a “cancellare la controriforma Fornero”. Come in Francia, ci si dovrebbe poter ritirare a 60 anni d’età o con 40 anni di contributi. Fermo restando il diritto specifico per le donne di una trattamento migliorare, compensativo per il lavoro domestico e di cura parentale che pesa soprattutto sulle loro spalle.
La domanda – inevitabile – è “dove si prendono i soldi”? C’è un lungo elenco di spese pubbliche che possono essere adeguatamente compresse (tra interessi sul debito, sprechi, spese militari o comunque inutili si arriva già a quasi un quarto del Pil, assicurano i firmatari).
Ma si può agire in questa direzione solo dicendo un “no” secco “all’austerità imposta dall’Unione Europea”. Non c’è altra via: “l’Italia deve disdettare il Fiscal Compact e gli altri trattati europei che impediscono di fare una politica di sostegno all’economia”. È in fondo la critica che viene da Paul Krugman (premio Nobel per l’economia di stampo “liberal” e keynesiano) alla politica reazionaria imposta dalla Troika ai paesi europei; una critica a quella che è – nei fatti – una replica delirante delle politiche seguite negli anni ’30 come reazione iniziale alla crisi del ’29.
Il sindacato che serve è insomma “un sindacato d’opposizione, che fa opposizione facendo davvero il sindacato”. Che quindi deve “rompere con Cisl e Uil”, insieme alle quali – dal 2003 ad oggi, ultima vittoria Cgil nel respingere l’attacco all’art. 18 – si sono inanellate solo sconfitte.
Tutto questo richiede un altro schema organizzativo per l’intera Cgil. A partire da altre fonti di finanziamento, espludendo tutte quelle diverse dalle tessere degli iscritti (come i soldi provenienti dagli “enti bilaterali”, dai servizi, ecc). E il rifiuto dell’accordo del 31 maggio 2013, che indica invece un modello di “sindacato complice” (espressione introdotta da Maurizio Sacconi, ex ministro del lavoro berlusconiano, ma anche esponente della componente “socialista” e craxiana della Cgil, al pari di Guglielmo Epifani e della stessa Camusso. C’è del resto la sentenza della Corte Costituzionale che ha obbligato la Fiat a riammettere la Fiom nei suoi stabilimenti, in base alla riaffermazione del principio che per fare sindacato non è affatto indispensabile firmare tutti gli accordi e impegnarsi per sempre a non scioperare contro quelli ritenuti dannosi. Che è poi il “modello Marchionne”, recepito integralmente nell’accordo del 31 maggio.
Seguono proposte “minori”, come la sottoscrizione dell’impegno formale – per i segretari generali e i componenti delle segreterie di categoria – a far passare almeno cinque anni tra la fine dell’impegno sindacale e il passaggio alle dipendenze di aziende (pubbliche e private). Si eviterebbe scene vergognose come quelle prodotte da “segretari nazionali” che diventano amministratori delegati (ovvero “controparte”) nel volgere di pochi giorni; con tutti i sospetti del caso (un esempio ormai mitico: Mauro Moretti, a.d. delle Ferrovie dello Stato ed ex segretario della Filt Cgil; ruolo poi rinnegato in sede di “curriculum” ufficiale).
Solo un anno, invece, per il passaggio da Corso Italia a cariche politiche o amministrative (i ministeri hanno visto orde di sindacalisti diventare da un giorno all’altro ministri o sottosegretari…). Del resto è la regola che già vige, in Cgil, per quanti si candidano alle elezioni ma non vengono eletti.
Insomma, la professione del sindacalista richiede “militanza”, “attivismo”, non arrivismo e burocrazia, non passività e “complicità” con le imprese (o con i governi “amici”).
Sarà battaglia di minoranza (“di base”, appunto), ma non si accetterà – come purtroppo avvenuto in passato . Di lasciare senza risposta una “prassi congressuale” in cui in molte – troppe – situazioni si registrano come “partecipanti al congresso locale” il 100% degli iscritti (e qualche volta anche di più, moltiplicando le tessere all’ultimo momento), che poi votano al 100% per la “mozione di maggioranza”. Né si può accettare l’indicazione di “obiettivi di partecipazione crescente” in tempi in cui la partecipazione reale – per esempio alle elezioni – crolla dappertutto. Un aumento dei votanti, insomma, sarebbe indizio certo di broglio.
Non ci pone nemmeno – come “area programmatica” nuova, che va oltre la Rete28Aprile e comprende esponenti di “Lavoro e società”, de “La Cgil che vogliamo” e persino della maggioranza – particolari obiettivi di “percentuale da raggiungere”. “Considereremmo un successo uscire dal Congresso con una organizzazione della critica organizzata diffusa su tutto il territorio nazionale”.
Quanto alle ovvie domande sulla possibile convergenza tra quest’area e l’Usb, il principale – e in crescita – tra i sindacati “di base”, Cremaschi è ironico e lapidario. “In Cgil ci sono rapporti amichevoli persino con l’Ugl” (l’ex sindacato fascista, che una volta si chiamava Cisnal), e “in Italia tutti hanno rapporti con tutti; solo qui sembra assurdo avere rapporti anche con l’Usb, i Cobas e altre organizzazioni minori”. Un assurdo che risale a oltre venti anni fa, quando la scalata dei sindacati di base fu così rapida – in alcuni settori, soprattutto del lavoro pubblico – da mettere paura ai vertici confederali, spingendoli a richiedere quella modifica all’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori che ne avrebbe poi assai limitato – o addirittura impedito – l’agibilità sui luoghi di lavoro.
“Restiamo in Cgil – conclude Cremaschi – ma si devono avere relazioni con il sindacalismo di base; è decisamente meglio che averne con Cisl, Uil e Ugl, di questi tempi. Avere rapporti con chi ha prodotto le giornate del 18 e 19 ottobre può essere solo vivificante per il conflitto sindacale. Noi proponiamo una linea di politica sindacale, non una dislocazione organizzativa”.
Bisognerà vedere se la “maggioranza delle larghe intese”, in Cgil, ammetterà o no questa “alternativa programmatica” così radicalmente diversa.
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