martedì 4 marzo 2014

Il lato oscuro degli italiani di Ermanno Rea, Il Manifesto

Napolitano-contro-i-tre-leader.-I-tre-leader-contro-il-palazzo_h_partbOrmai è farsa con­ti­nua. Abbiamo pra­ti­ca­mente rag­giunto l’incerta linea di con­fine che separa, e per­ciò intrec­cia e con­fonde, com­me­dia e tra­ge­dia, riso e pianto, buo­nu­more e dispe­ra­zione. Tutta colpa di Renzi, Ber­lu­sconi, Grillo e di non so quanti altri attori del tea­trino politico-istituzionale nostrano? Pur­troppo no. Come viene detto nell’Amleto, c’è del mar­cio in Dani­marca, cioè in Ita­lia. Renzi, Ber­lu­sconi e Grillo fanno il loro mestiere di incan­ta­tori di ser­penti, ma che ne sarebbe di loro se noi non li votas­simo, se non ci rico­no­sces­simo nelle loro facce, se non li amas­simo appas­sio­na­ta­mente, soprat­tutto se li con­tra­stas­simo senza ambi­guità? La domanda non è sol­tanto legit­tima, è vec­chia di almeno cin­que secoli, quanti ne sono tra­scorsi dal giorno in cui Etienne de La Boé­tie scrisse il suo Discorso sulla ser­vitù volon­ta­ria nel quale si chie­deva come mai – in nome di che cosa — folle ster­mi­nate di esseri umani pre­fe­ris­sero essere schiavi di un tiranno piut­to­sto che uomini liberi. E con­clu­deva affer­mando che forse la libertà non è altret­tanto con­ve­niente quanto la schia­vitù.
È una con­clu­sione oggi meno vera di ieri? Sap­piamo tutti che no, che le cose non sono affatto cam­biate. Soprat­tutto chez nous, dove l’attrazione per il cosid­detto «uomo forte», a furia di essere un’abitudine, è diven­tata una vocazione.
Secondo cal­coli gros­so­lani, i tre incan­ta­tori di ser­penti sopra citati rie­scono a rac­co­gliere il set­tan­ta­cin­que per cento dei voti espressi dagli ita­liani: così, senza che da parte loro venga offerto alcun serio pro­getto di futuro, venga pro­spet­tato un solo tra­guardo di rilievo vero­si­mile, uni­ca­mente in nome del loro pre­sunto appeal. Chiedo a un amico: ma per­ché ti piace Renzi? Risponde: per­ché è sim­pa­tico e ruspante, sa quel che vuole. Obietto: lui forse sa quel che vuole, ma per­ché non lo rac­conta anche a noi? Fac­cio la stessa domanda a una mili­tante di Forza Ita­lia: ma che ci trova, signora, di così coin­vol­gente in Sil­vio Ber­lu­sconi? Rispo­sta: tutto! È un grande sta­ti­sta, non ruba per­ché è ricco ed è anche un bell’uomo! A un mio gio­vane con­giunto, che vota per il Movi­mento 5 Stelle, rim­pro­vero siste­ma­ti­ca­mente (quanto inu­til­mente) la sua pas­sione per Grillo: pos­si­bile che non abbia in testa altra stra­te­gia che quella di trion­fare, lui da solo, su tutto e su tutti? Ma chi si crede d’essere il tuo comico con quella sua fac­cia spi­ri­tata e quei ric­cio­loni di nar­ciso sca­te­nato? Replica: faremo a tutti un culo così.
Siamo al trionfo del deli­rio auto-celebrativo. Al disco­no­sci­mento di ogni alte­rità. Addio, logos. Altro che Etienne de La Boé­tie: oggi le cose vanno di gran lunga peg­gio di un tempo. Dap­per­tutto, temo. Ma in spe­cial modo qui da noi dove santa romana Chiesa ci ha espro­priato di ogni senso di respon­sa­bi­lità, degra­dan­doci a sud­diti da cit­ta­dini che era­vamo (mi è capi­tato di scri­vere un libro al riguardo, inti­to­lato La fab­brica dell’obbedienza, il lato oscuro e com­plice degli ita­liani).
La sini­stra è scom­parsa. A met­terla defi­ni­ti­va­mente fuori com­bat­ti­mento è stata la crisi eco­no­mica che ha fatto emer­gere in maniera ancora più cla­mo­rosa che in pas­sato la sua vacuità e ina­de­gua­tezza a rap­pre­sen­tare gli inte­ressi dei ceti col­piti, la sua voca­zione alla sud­di­tanza e al com­pro­messo. Lo spet­ta­colo stringe il cuore. Tanto più che, men­tre nelle piazze tele­vi­sive trionfa una ple­tora di unti dal Signore (se Renzi è il figlio, Grillo è lo spi­rito santo), la sini­stra non rie­sce a into­nare nep­pure un mea culpa, a ela­bo­rare nean­che uno strac­cio di rifles­sione auto­cri­tica. Come se nes­suno fosse respon­sa­bile di niente, tutto fosse avve­nuto per sen­tenza cele­ste e ormai non ci restasse che piangere.
A guar­darsi intorno, si direbbe che il fascino per­verso del cata­stro­fi­smo ci abbia presi tutti al lac­cio: la pio­vra finan­zia­ria, l’Europa dei forti, i nuovi schia­vi­sti della mon­dia­liz­za­zione pro­dut­tiva sem­brano aver eretto, tutti assieme, un muro impos­si­bile da oltrepassare.
Ho par­te­ci­pato alcune sere fa a una riu­nione di per­sone aventi alle spalle un ono­re­vole pas­sato di lotte demo­cra­ti­che, insomma di forte impe­gno poli­tico. Non ho sen­tito echeg­giare una sola parola di tipo pro­po­si­tivo, e ancor meno rela­tiva agli errori com­messi, ai com­por­ta­menti sba­gliati, alle debo­lezze anche di tipo etico mostrate, si badi, non sol­tanto da que­sta o da quella orga­niz­za­zione poli­tica ma dai sin­goli, da tutti noi. Avrei voluto pren­dere la parola ma non ho osato, inti­mi­dito a mia volta dalla cupa atmo­sfera gene­rale deter­mi­na­tasi, credo, in forza del pre­va­lente sen­tire pes­si­mi­stico dei pre­senti.
Siamo tutti vera­mente pri­gio­nieri di una situa­zione irri­me­dia­bile? Que­sto avrei voluto dire. Ma non sol­tanto que­sto. Avrei voluto par­lare dei nostri errori, del fatto che la sini­stra, come un pugile suo­nato, ormai non è più in grado di tute­lare nep­pure il pro­prio patri­mo­nio lin­gui­stico, come sta a dimo­strare la spre­giu­di­cata appro­pria­zione della parola «auste­rità» da parte di una destra euro­pea tanto cana­glia quanto truf­fal­dina, che se ne è ser­vita per con­fe­rire una par­venza di ono­ra­bi­lità ai pro­pri dik­tat eco­no­mici. E tutto que­sto senza che da parte degli eco­no­mi­sti demo­cra­tici si levasse un solo grido di pro­te­sta, una sola accusa di «furto ideologico».
Le parole, lo sap­piamo tutti, sono impor­tanti, scal­fi­scono le nostre coscienze. Soprat­tutto quando ven­gono osses­si­va­mente rei­te­rate come fanno i gior­nali ogni mat­tina con que­sto lemma abu­sivo, come fa la tele­vi­sione, come fanno i poli­tici, i cit­ta­dini e come fac­ciamo incon­sa­pe­vol­mente noi stessi attri­buendo in tal modo, senza rite­gno, quarti di nobiltà a poli­ti­che che meri­te­reb­bero ben altre defi­ni­zioni.
Le parole devono cor­ri­spon­dere esat­ta­mente alle cose: guai se ciò non accade. Mi ven­gono a mente alcuni straor­di­nari versi di Juan Ramon Jime­nez: Intel­li­genza, dammi/ il nome esatto delle cose!/ … che la mia parola sia/ la cosa stessa…
Per noi infatti era «la cosa stessa», soprat­tutto se ci si rife­ri­sce al con­te­nuto etico della parola «auste­rità», che da sem­pre si con­trap­pone a «dis­so­lu­tezza» e «cor­ru­zione» ed è meta­fora di costumi irre­pren­si­bili. Appar­te­neva insomma al nostro voca­bo­la­rio (chi più di noi può amare e pra­ti­care l’austerità?): abbiamo lasciato senza colpo ferire che diven­tasse l’altrui foglia di fico. Anzi peg­gio: che diven­tasse la nostra parola «nemica», la ban­diera da abbat­tere.
Sve­glia, sini­stra, apri gli occhi!
Ermanno Rea - il manifesto

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