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Ciononostante il tasso di disoccupazione tra gennaio e settembre di
quest’anno è diminuito dal 5,7 al 5,1% restituendo un’idea
assolutamente falsata della realtà. Ciò accade perché man mano che
calano le occasioni di lavoro, calano anche le iscrizioni alla
disoccupazione che è la base sulla quale vengono vengono compilate le
statistiche, per cui a una diminuzione reale dei posti di lavoro può
far riscontro un aumento del tasso di occupazione. Ho parlato degli
Usa, ma questo schema generale pur con numerose varianti è adottato in
tutto l’occidente portando così a risultati paradossali come quelli
forniti dall’Istat per settembre nel quale sono aumentati sia i
disoccupati che gli occupati producendo come dato finale una lievissima
diminuzione del tasso di disoccupazione che ha dato la possibilità al
guappo narciso e al suo governo di specchiarsi nelle meraviglie del job
act. In realtà sono solo aumentati gli inattivi ed è anche probabile che
vi saranno correzioni al peggio tra qualche mese perché dopotutto è
irresistibile la tentazione di fare gli ammergani.
Ci si può legittimamente e retoricamente chiedere come mai in tutto
il mondo occidentale si usino sistemi di rilevazione e calcoli così
ambigui che sembrano fatti apposta per confondere l’opinione pubblica e
per gettare legna sul falò della peggiore retorica politicante. Quale
euristica li suggerisce? Ed è facilissimo scoprirlo: la svalutazione
completa del significato stesso di lavoro e la sua riduzione a puro job,
vale a dire attività temporanea ed estemporanea. Prendiamo per esempio i
criteri con cui l’Istat compila le sue statistiche: l’occupato è colui –
tra i 15 e i 64 anni – che nelle quattro settimane precedenti la
rilevazione ha svolto almeno un’ora di lavoro retribuito in denaro o in
natura. Si può dire che sia lavoro questo? Un disoccupato va dalla
vicina e mette a posto il rubinetto, viene ripagato con una fetta di
torta (altre fattispecie non risulterebbero, ma sarebbero comunque
ammissibili) ed ecco che miracolosamente passa dalla parte degli
occupati. Chissà come sarebbero contenti quelli dell’Istat se fossero
impegnati un’ ora ogni mese in cambio di una pummarola alla Fornero.
Mica perderebbero il lavoro visto il concetto che hanno del medesimo.
Dunque non solo i numeri creano confusione, ma nascono da un concetto di
lavoro francamente intollerabile e fonte di un errore radicale riguardo
alla macroeconomia: così come avviene negli Usa, il numero degli
“occupati” non viene mai confrontato in via diretta con l’entità del
salario in denaro o in natura, quindi nulla si può dire riguardo alla
quantità di domanda aggregata che poi determina la crescita.
Questo però frega poco alle teorie assurde liberiste e ai mentecatti
che le ripetono come automi: ciò che interessa è che la statistica
rifletta un concetto di lavoro volatile, mal pagato e sotto ricatto
quando non apertamente schiavistico (anche lo zio Tom era pagato in
vitto e alloggio) . Più ci si avvicina a quell’idea più sono contenti,
anche se i numeri diventano ballerini e di fatto un riflesso ideologico
più che una realtà. La quale è lenta, ma prima o poi si vendica,
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