di Inchiestaonline.it -
Riceviamo da Mario Tronti questo testo con queste frasi di accompagnamento: “Cari tutti/e è stata una Pasqua politica: Anche la mia meditazione si è secolarizzata. Il risultato è questo testo.
Riceviamo da Mario Tronti questo testo con queste frasi di accompagnamento: “Cari tutti/e è stata una Pasqua politica: Anche la mia meditazione si è secolarizzata. Il risultato è questo testo.
Vediamo. Intanto riassumiamo. Perché c’è un percorso da ricostruire:
molto eloquente e che fa chiarezza. C’è stata una lunga campagna
elettorale, durata per tutto il tempo del governo Monti in carica. Le
elezioni, anticipate, erano infatti all’ordine del giorno al momento
della caduta rovinosa del governo Berlusconi. Non furono concesse. Da
quelle sarebbe uscita con tutta probabilità una maggioranza certa, con
governabilità assicurata per cinque anni. Magari con una manovra di
salvataggio senza massacro sociale. Cominciò invece un balletto, con una
musica in crescendo fino al 24 febbraio ultimo scorso. Lo scenario: da
una parte una forza politica destinata ad assumere il governo del paese,
dall’altra tutte le altre forze politiche, e annessi moVimenti, intente
a impedire, o a limitare, o ad azzoppare, con tutti i mezzi, quella
soluzione. Operazione infine riuscita.
Operazione, però, riuscita a metà. Perché dalle elezioni esce un
centro-sinistra con una maggioranza assoluta alla Camera e una
maggioranza relativa al Senato. Il pericolo dunque, di una sinistra in
qualche modo al governo era ancora presente. Di qui, la seconda fase
della manovra di ostruzione da opporre a questa eventualità. Un governo
di minoranza era possibile. I precedenti ci sono e la Carta
costituzionale non chiede una maggioranza assoluta per la fiducia al
governo. La coalizione di centro-sinistra aveva diritto e dovere di
andare in Parlamento a presentare la sua proposta di governo. E bene ha
fatto Bersani a chiedere con determinazione questo passaggio. Non è
stato concesso. A mio parere la proposta del governo di minoranza,
monocolore, non di legislatura, ma nemmeno di emergenza, in carica solo
per mettere mano ad alcune urgenze politico-istituzionali ed
economico-sociali, andava presentata da subito all’intero arco delle
forze politiche, con la premessa di un accordo sulle cariche
istituzionali, la presidenza di Commissioni, e il progetto, giusto, del
doppio registro.
Questa era l’iniziativa che spettava a chi, indicato dalle primarie,
aveva condotto la campagna elettorale e vinto appena di misura nel voto.
A mancare l’obiettivo pieno non è stato Bersani. L’abbiamo mancato
tutti: in primo luogo, collegialmente, un partito, privo di antenne in
grado di cogliere lo stato d’animo diffuso nel paese reale. E che, qui
veramente come tutti gli altri, si affida alla falsità, manovrata, dei
sondaggi. Bersani ha mostrato all’Italia la faccia della politica seria,
responsabile, competente, pulita, di impronta popolare e capace di
governo. Il messaggio è calato in un contesto malato, inquinato da
demagogie populiste, lasciate crescere e accarezzate fino all’ultimo
minuto. Ma con questo contesto, era esattamente quella faccia che si
voleva oscurare. Tanto più che dietro di essa c’era una storia, che
tutto quanto sta avvenendo è incaricato adesso di portare alla fine.
Tutto, compresa quella verità sul voto, da tutti riprovata, che ha
pronunciato, in libertà, un socialdemocratico tedesco: in Italia hanno
vinto due clown. Vittoria, appunto, non spontanea, ma costruita, con una
comunicazione di scopo.
Poi, qualcosa non è andata nel verso giusto, anche nella nostra
iniziativa. Può darsi che non sia così, ma quanto si è percepito è che,
nella proposta, si è voluto privilegiare la parte meno disponibile a
qualsiasi tipo di accordo, mirando su questo versante alcune proposte di
programma, e risolvendo in quel senso le figure delle cariche
istituzionali. Ora, io penso che alle pulsioni antipolitiche non bisogna
concedere niente, mai. All’irruzione grillina, la risposta era quella
di uno scatto di orgoglio politico. Quello è un vento, forte, un’onda
anomala. Lo tsunami arriva, distrugge e passa. Lascia sul terreno solo
macerie. Tentare di cavalcarlo è impossibile, e ci si fa solo male. Va
semmai previsto, in modo da prendere le misure necessarie per ridurre i
danni. Starei attento a darne la lettura corrente: un evento che,
comunque, opportunamente scuote e costringe a cambiare. Da quella sponda
non si cambia, si abbatte. Qualcuno ricorda queste espressioni? E come
non vederci l’altra faccia della rottamazione? E’ lo stesso vento.
Questo plebeismo nichilista arriva, ripeto, non a caso, ma come esito
naturale di un’intera stagione.
Tolleranza zero sul linguaggio. Non si parla con chi parla in quel
modo. Il linguaggio politico è importante. Lì, si specchia sempre, anche
senza volerlo, quel che si è. E starei attento a vederci, anche qui, la
rappresentazione di domande giuste: ad esempio l’espressione di una
comprensibile rabbia. Se si rappresentano così, quelle domande, non sono
giuste, sono sbagliate. Non vanno assunte, vanno corrette. Prenderle
per buone come tali, porta a risposte subalterne. Esempio: la rabbia
oggi diffusa è sacrosanta, e però male indirizzata. Ecco, qui luoghi e
tempi dell’azione politica. Se per salire a una carica pubblica si deve
presentare al concorso il titolo di non essere stato, di non essere, di
non voler essere un “politico”, si innesca una deriva senza fondo. Se il
quarto di nobiltà che devi portare nella sfera pubblica consiste nel
pronunciare la frase liberatoria: non sono mai stato iscritto a un
partito, guardate, qui non c’è il finale di partito, c’è la fine della
Repubblica. Sono molto preoccupato. Non vorrei essere tornato in
Parlamento per assistere, con angoscia, alla distruzione dell’edificio
costituzionale-popolare, di rappresentanza e non di mandato, a tutti i
livelli, che i nostri padri hanno costruito, combattendo e pensando.
Bisogna reagire, indignarsi da questa parte, dare battaglia. Insisto su
questo: spetta alla politica, e in prima persona alla politica della
sinistra, chiarire il punto.
E il punto, drammatico, è che il disagio sociale, fortissimo, vera e
propria eccezionale emergenza, non si esprime oggi con la politica, ma
con l’antipolitica. Come, perché? Ecco la prima cosa da capire. E da
rimediare. La condizione oggettiva è quella di un disorientamento
politico di massa. Il brodo di coltura viene da lontano, non
contrastato, anzi benevolmente accompagnato, per tutta la vicenda di
questa devastante cosiddetta seconda Repubblica. Di nuovo, c’è un esito
finale, che arriva a colpire le fondamenta del sistema istituzionale.
Alla base c’è il patto di sindacato stretto tra le élites
economico-finanziarie al governo della globalizzazione neoliberista e,
appunto, il populismo antipolitico gestito dalla grande comunicazione.
Esattamente il blocco dominante da combattere e da sconfiggere. Un
lavoro, pratico, ricostruttivo, e di cultura, di lunga lena. Abbiamo
bisogno di tempo. Non farei precipitare la situazione. In questo
frangente, è il nostro campo che è stato prima di tutto disordinato.
Bisogna riorientarlo, riorganizzarlo, rimotivarlo. Non ci serve
un’offerta pubblicitaria, superpersonalizzata, formattata secondo i
canoni del mercato elettorale, che ti permetta di competere meglio,
subito, sul terreno dell’avversario. L’ultima cosa da fare adesso è
mettersi a cercare un grillo per la sinistra. Anzi, la penultima. Perché
l’ultima è la pretesa di averlo già trovato, pronto lì a scattare dai
nastri di partenza. Come si dice spesso, per motivi più futili: non
scherziamo!
Se per vincere si deve diventare un’altra cosa, mi chiedo se valga la
pena di vincere. E vincere non è una bella parola, nemmeno per un
pensatore del conflitto. La sfida è conquistare il consenso,
democratico, necessario per governare, rimanendo se stessi, incardinati
nelle ragioni storiche della propria parte. Innovando, certo e nel
profondo, rispetto alle grandi trasformazioni in atto, nelle forme,
nelle idee, nei comportamenti, nella qualità, soprattutto nella qualità,
degli uomini e delle donne. Ma in piena libera autonomia. Senza andare a
rimorchio del dominante spirito del tempo. Raccomanderei ai
trenta/quarantenni, giustamente emergenti, meno giustamente scalpitanti,
di badare, con scrupolosa attenzione, a non far coincidere il ricambio
generazionale con una mutazione genetica. Dietro la fine di una storia
c’è sempre il pericolo di un cambio di campo. Responsabilità e
cambiamento devono valere per noi, prima che per gli altri. E ricordarsi
sempre di stare, anzi di mettersi, sotto gli occhi del nostro popolo.
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