Milano. Hanno risposto i 260, dalle federazioni e dai circoli del Nord,
alla chiamata a confronto decisa dalla segreteria nazionale di
Rifondazione per aprire, senza rete, una fase di ascolto della propria
“base”, dio sa quanto necessaria, dopo il rovinoso capitombolo
elettorale di febbraio e di fronte all’urgenza di mettere in moto uno
sforzo eccezionale di ricostruzione del partito, di rinnovamento della
sua strategia, delle sue politiche, dei suoi gruppi dirigenti ad ogni
livello. Cimento che troverà il suo approdo conclusivo nel congresso, ma
che deve fare i conti, qui ed ora, con la necessità di condurre
un’opposizione forte e intelligente al governo Letta e alle forze che lo
sostengono, determinate a proseguire nelle politiche di austerità
inaugurate da Berlusconi e portate sino alle estreme conseguenze da
Monti, con gravissime conseguenze per le condizioni di vita di milioni
di lavoratori, di cittadini e per la stessa tenuta della democrazia.
La parola è stata offerta alla “base” e la “base” se l’è presa, con una determinazione e, in più di un caso, con un’asprezza che sono tuttavia l’opposto di una resa, di una rassegnazione a rifluire nella marginalità politica. E questo è il segno – merita sottolinearlo subito – di un primo elemento di valore politico: nessuno, ma proprio nessuno, intende gettare la spugna; tutti convengono sulla indispensabilità che Rifondazione, che un partito comunista moderno, debba essere parte decisiva di un processo di più ampia ricomposizione di una sinistra anticapitalista.
In nessuno dei 35 intervenuti in un serratissimo dibattito (altri 25 hanno dovuto rinunciare per consentire alle delegazioni di tornare a casa) si è avvertita quella sorta di cupio dissolvi, di abbandono del campo che qualcuno paventava. Al contrario, chi ha preso la parola, anche non nascondendo gli accenti più critici, lo ha fatto con l’animo di chi si sente già ingaggiato in una nuova battaglia, con fierezza e passione politica.
L’assemblea, svoltasi nel salone della Camera del Lavoro di Milano, è stata aperta da un’ampia relazione di Gianluigi Pegolo, che ha proposto i tratti di una linea economica e sociale alternativa, che deve avere come fulcro politico il recupero di un’autonomia nazionale cancellata dalla costruzione di un’Europa della moneta ostaggio del potere finanziario: una politica che si declina come spesa sociale, ruolo pubblico nello sviluppo, riappropriazione, da parte dello Stato, di asset fondamentali (dalle banche alla siderurgia), redistribuzione del reddito, ricostruzione di un sindacalismo capace di agire il conflitto di classe affrancandosi da sudditanze e subalternità politiche. Pegolo ha poi proposto che il partito divenga promotore di una grande mobilitazione che faccia leva su tre proposte di legge di iniziativa popolare: la possibilità di sottoporre a referendum l’adesione ai trattati internazionali, l’insieme dei temi connessi ai diritti del lavoro e alla disciplina del mercato del lavoro, le questioni che stanno compromettendo le condizioni di vita di milioni di persone (casa, sanità, precarietà). Pegolo ha poi molto insistito sulla necessità di una riforma politico-organizzativa del partito, tale da rinnovarlo in profondità nei metodi di lavoro, nelle politiche, nella qualità del rapporto fra centro e territori, nei suoi gruppi dirigenti.
La discussione è immediatamente decollata. Difficile darne conto nel dettaglio. Possibile, invece, raccoglierne gli stimoli più forti e ricorrenti. Un primo punto è emerso con forza quasi plebiscitaria: c’è uno scollamento grave fra il gruppo dirigente centrale e la realtà dei circoli che si sentono abbandonati a se stessi, che sentono il partito dilaniato da dinamiche correntizie che ne hanno frenato ogni spinta propulsiva ed agiscono come una cappa mortifera sulle istanze di rinnovamento.
Non vi è stato quasi intervento che non abbia chiesto con veemenza di liberare la dinamica politica interna da questa camicia di forza che impedisce di dispiegare l’iniziativa all’esterno e imprigiona le maggiori energie in lotte fratricide intestine. Ed è emerso il bisogno di contare, di un salto di qualità nella democrazia, latitante nel partito.
In molti hanno detto, senza peli sulla lingua: “Il partito siamo noi, ma contiamo assai poco”. E hanno rivendicato una sorta di rifondazione dal basso, di rovesciamento della piramide, tale da fare piazza pulita delle spartizioni di posti di direzione calati dall’alto sulla base di accordi fra capi corrente attenti alla riproduzione degli equilibri esistenti, ma disinteressati al lavoro reale, là dove con fatica lo si produce.
E’ la denuncia esplicita di un disaggio profondo a cui è indispensabile rispondere con un’autoriforma che eviti un’astratta contrapposizione fra “alto” e “basso”, fra un vertice autoconsegnato ad un solipsistico isolamento ed una base che mugugna priva di orientamento e di direzione.
Serve un netto cambio di marcia che restituisca ad ogni struttura il compito che le deve competere, senza surroghe e supplenze. Gli interventi più maturi lo hanno detto esplicitamente, chiedendo non soltanto di rendere “strutturali” le assemblee nazionali dei circoli, ma anche di restituire efficacia al ruolo delle strutture intermedie.
L’altro robusto elemento di critica ha riguardato il profilo della proposta politica di Rifondazione, ritenuta evanescente, poco chiara, strategicamente e a lungo oscillante intorno al nodo cruciale del rapporto con il Partito democratico e con il Centrosinistra: prima con la Federazione della sinistra, implosa dopo un’agonia che ha lasciato macerie sul campo, poi nell’infelicissima esperienza elettorale di Rivoluzione civile che ha visto sparire dall’agone politico, contemporaneamente, i nostri contenuti più peculiari e le nostre candidature più rappresentative.
Vive in ogni piega del partito, insomma, l’esigenza di ricostruire un’identità forte, non impastata di vecchi “imparaticci” ideologici, ma fatta di idee e progettualità. Lo hanno in particolare rivendicato i molti giovani intervenuti, del tutto affrancati da tossine depressive, pieni di voglia di fare: hanno chiesto meno retorica, più politica, più informazione sistematizzata. E tanta formazione. E non è un caso se proprio loro hanno reagito con più immediatezza e quasi con rabbia al rischio che per un’imperdonabile “distrazione” il partito possa perdere, con Liberazione, il solo strumento di controinformazione, di battaglia culturale e di orientamento politico quotidiano di cui può ancora disporre in uno scenario in cui la “fatwa” lanciata dai nostri avversari contro i comunisti ci ha consegnati ad un totale oscuramento mediatico.
Ogni circolo ha provato a raccontare cosa fa. E si è vista una ricchezza, una tessitura, un proliferare di relazioni che rappresentano un giacimento politico di primaria importanza su cui contare. Da chi, come a Bologna, ha raccontato quanto abbia contato l’impegno del partito nel successo referendario contro i finanziamenti pubblici alle scuole paritarie, alla mobilitazione dei circoli milanesi intorno al tema dei buoni scuola e dell’università, agli straordinari risultati dei circoli dell’area veneziana che si sono buttati nel lavoro verso le fabbriche con eccellenti risultati che si sono riflessi anche nel tesseramento, ai compagni del circolo della Vallesusa che dicono: “Nel No-Tav noi siamo generosamente nella militanza, ma non dirigiamo niente, la nostra è un’immersione senza identità “, ed ora si stanno ponendo il problema di non fare dei comunisti solo i portatori d’acqua, i militanti di un movimento prezioso, ma interlocutori capaci anche di un’autonoma proposta politica. E ancora: chi ha portato la propria esperienza sui temi dell’acqua pubblica, piuttosto che dei rifiuti e dei termoutilizzatori, oppure della lotta contro le servitù militari. Ciascuno, insomma, ha del grano da portare alla macina, ma tutti dicono una cosa: “Noi stiamo nelle lotte, ma non traduciamo l’essere agitatori in capacità di proporre un’alternativa complessiva, un progetto politico organico e credibile”. E’ la richiesta, che più chiara non potrebbe essere, della direzione politica. E di una struttura organizzativa capace di sorreggerla con la continuità necessaria. Chi ha orecchie per capire intenda!
Vi è stato anche chi si è chiesto come il partito non riesca a darsi un think tank, un laboratorio intellettuale stabile, che lo aiuti nella ricerca e nell’elaborazione, non episodica, dei materiali, dei dati, che possono nutrire l’elaborazione della proposta politica, scansando il vizio letale dell’improvvisazione e degli eccessi di tatticismo, sempre sintomo di incertezza e di debolezza e che fatalmente sconfinano nell’opportunismo.
Con eguale insistenza diversi compagni e compagne hanno posto il tema della concretezza, dell’efficacia della nostra azione politica, considerato che i comunisti non possono chiudersi in una predicazione millenaristica, ma le risposte le devono dare qui e subito, connettendole e non separandole da una prospettiva più generale di trasformazione.
Un compagno di Bergamo, un lucidissimo, giovanissimo ottantenne di Bergamo, ha assestato una frustata finale, raccomandando ai compagni di riunirsi, di discutere, ma di non limitarsi a fare riunioni che preparano altre riunioni. Ma di andare poi fra la gente, perché è nella pratica reale che si rivela la giustezza di un’intuizione, la verità immanente in una teoria, l’efficacia di una scelta politica. Non ho idea se il compagno ne avesse la consapevolezza, ma questo, quasi con le stesse parole, è ciò che diceva Karl Marx, in famose note sul metodo, mentre era impegnato, centocinquant’anni or sono, nella costruzione della Lega dei comunisti.
La conclusione dei lavori della giornata, costretta in tempi rigorosamente contingentati dalla necessità di consentire a quanti provenivano dai territori più lontani di guadagnare la strada di casa, è stata affidata ad Augusto Rocchi, che ha sottolineato l’estrema utilità dell’incontro ed anzi l’opportunità di “istituzionalizzare” un simile prassi. Rocchi ha voluto in particolare mettere in valore la forte sintonia dei compagni e delle compagne su un punto cruciale, per nulla scontato: non soltanto il partito non è arrivato al capolinea della sua storia, ma esso riafferma il ruolo insostituibile dei comunisti come componente essenziale di un più vasto schieramento che si proponga di realizzare una trasformazione radicale del paese, cioè quel salto di paradigma economico sociale senza il quale il Paese è condannato non soltanto alla recessione, ma alla regressione democratica e alla barbarie. Per farlo dovrà cambiare molto, farlo con coraggio, intelligenza e generosità. La sfida è aperta.
La parola è stata offerta alla “base” e la “base” se l’è presa, con una determinazione e, in più di un caso, con un’asprezza che sono tuttavia l’opposto di una resa, di una rassegnazione a rifluire nella marginalità politica. E questo è il segno – merita sottolinearlo subito – di un primo elemento di valore politico: nessuno, ma proprio nessuno, intende gettare la spugna; tutti convengono sulla indispensabilità che Rifondazione, che un partito comunista moderno, debba essere parte decisiva di un processo di più ampia ricomposizione di una sinistra anticapitalista.
In nessuno dei 35 intervenuti in un serratissimo dibattito (altri 25 hanno dovuto rinunciare per consentire alle delegazioni di tornare a casa) si è avvertita quella sorta di cupio dissolvi, di abbandono del campo che qualcuno paventava. Al contrario, chi ha preso la parola, anche non nascondendo gli accenti più critici, lo ha fatto con l’animo di chi si sente già ingaggiato in una nuova battaglia, con fierezza e passione politica.
L’assemblea, svoltasi nel salone della Camera del Lavoro di Milano, è stata aperta da un’ampia relazione di Gianluigi Pegolo, che ha proposto i tratti di una linea economica e sociale alternativa, che deve avere come fulcro politico il recupero di un’autonomia nazionale cancellata dalla costruzione di un’Europa della moneta ostaggio del potere finanziario: una politica che si declina come spesa sociale, ruolo pubblico nello sviluppo, riappropriazione, da parte dello Stato, di asset fondamentali (dalle banche alla siderurgia), redistribuzione del reddito, ricostruzione di un sindacalismo capace di agire il conflitto di classe affrancandosi da sudditanze e subalternità politiche. Pegolo ha poi proposto che il partito divenga promotore di una grande mobilitazione che faccia leva su tre proposte di legge di iniziativa popolare: la possibilità di sottoporre a referendum l’adesione ai trattati internazionali, l’insieme dei temi connessi ai diritti del lavoro e alla disciplina del mercato del lavoro, le questioni che stanno compromettendo le condizioni di vita di milioni di persone (casa, sanità, precarietà). Pegolo ha poi molto insistito sulla necessità di una riforma politico-organizzativa del partito, tale da rinnovarlo in profondità nei metodi di lavoro, nelle politiche, nella qualità del rapporto fra centro e territori, nei suoi gruppi dirigenti.
La discussione è immediatamente decollata. Difficile darne conto nel dettaglio. Possibile, invece, raccoglierne gli stimoli più forti e ricorrenti. Un primo punto è emerso con forza quasi plebiscitaria: c’è uno scollamento grave fra il gruppo dirigente centrale e la realtà dei circoli che si sentono abbandonati a se stessi, che sentono il partito dilaniato da dinamiche correntizie che ne hanno frenato ogni spinta propulsiva ed agiscono come una cappa mortifera sulle istanze di rinnovamento.
Non vi è stato quasi intervento che non abbia chiesto con veemenza di liberare la dinamica politica interna da questa camicia di forza che impedisce di dispiegare l’iniziativa all’esterno e imprigiona le maggiori energie in lotte fratricide intestine. Ed è emerso il bisogno di contare, di un salto di qualità nella democrazia, latitante nel partito.
In molti hanno detto, senza peli sulla lingua: “Il partito siamo noi, ma contiamo assai poco”. E hanno rivendicato una sorta di rifondazione dal basso, di rovesciamento della piramide, tale da fare piazza pulita delle spartizioni di posti di direzione calati dall’alto sulla base di accordi fra capi corrente attenti alla riproduzione degli equilibri esistenti, ma disinteressati al lavoro reale, là dove con fatica lo si produce.
E’ la denuncia esplicita di un disaggio profondo a cui è indispensabile rispondere con un’autoriforma che eviti un’astratta contrapposizione fra “alto” e “basso”, fra un vertice autoconsegnato ad un solipsistico isolamento ed una base che mugugna priva di orientamento e di direzione.
Serve un netto cambio di marcia che restituisca ad ogni struttura il compito che le deve competere, senza surroghe e supplenze. Gli interventi più maturi lo hanno detto esplicitamente, chiedendo non soltanto di rendere “strutturali” le assemblee nazionali dei circoli, ma anche di restituire efficacia al ruolo delle strutture intermedie.
L’altro robusto elemento di critica ha riguardato il profilo della proposta politica di Rifondazione, ritenuta evanescente, poco chiara, strategicamente e a lungo oscillante intorno al nodo cruciale del rapporto con il Partito democratico e con il Centrosinistra: prima con la Federazione della sinistra, implosa dopo un’agonia che ha lasciato macerie sul campo, poi nell’infelicissima esperienza elettorale di Rivoluzione civile che ha visto sparire dall’agone politico, contemporaneamente, i nostri contenuti più peculiari e le nostre candidature più rappresentative.
Vive in ogni piega del partito, insomma, l’esigenza di ricostruire un’identità forte, non impastata di vecchi “imparaticci” ideologici, ma fatta di idee e progettualità. Lo hanno in particolare rivendicato i molti giovani intervenuti, del tutto affrancati da tossine depressive, pieni di voglia di fare: hanno chiesto meno retorica, più politica, più informazione sistematizzata. E tanta formazione. E non è un caso se proprio loro hanno reagito con più immediatezza e quasi con rabbia al rischio che per un’imperdonabile “distrazione” il partito possa perdere, con Liberazione, il solo strumento di controinformazione, di battaglia culturale e di orientamento politico quotidiano di cui può ancora disporre in uno scenario in cui la “fatwa” lanciata dai nostri avversari contro i comunisti ci ha consegnati ad un totale oscuramento mediatico.
Ogni circolo ha provato a raccontare cosa fa. E si è vista una ricchezza, una tessitura, un proliferare di relazioni che rappresentano un giacimento politico di primaria importanza su cui contare. Da chi, come a Bologna, ha raccontato quanto abbia contato l’impegno del partito nel successo referendario contro i finanziamenti pubblici alle scuole paritarie, alla mobilitazione dei circoli milanesi intorno al tema dei buoni scuola e dell’università, agli straordinari risultati dei circoli dell’area veneziana che si sono buttati nel lavoro verso le fabbriche con eccellenti risultati che si sono riflessi anche nel tesseramento, ai compagni del circolo della Vallesusa che dicono: “Nel No-Tav noi siamo generosamente nella militanza, ma non dirigiamo niente, la nostra è un’immersione senza identità “, ed ora si stanno ponendo il problema di non fare dei comunisti solo i portatori d’acqua, i militanti di un movimento prezioso, ma interlocutori capaci anche di un’autonoma proposta politica. E ancora: chi ha portato la propria esperienza sui temi dell’acqua pubblica, piuttosto che dei rifiuti e dei termoutilizzatori, oppure della lotta contro le servitù militari. Ciascuno, insomma, ha del grano da portare alla macina, ma tutti dicono una cosa: “Noi stiamo nelle lotte, ma non traduciamo l’essere agitatori in capacità di proporre un’alternativa complessiva, un progetto politico organico e credibile”. E’ la richiesta, che più chiara non potrebbe essere, della direzione politica. E di una struttura organizzativa capace di sorreggerla con la continuità necessaria. Chi ha orecchie per capire intenda!
Vi è stato anche chi si è chiesto come il partito non riesca a darsi un think tank, un laboratorio intellettuale stabile, che lo aiuti nella ricerca e nell’elaborazione, non episodica, dei materiali, dei dati, che possono nutrire l’elaborazione della proposta politica, scansando il vizio letale dell’improvvisazione e degli eccessi di tatticismo, sempre sintomo di incertezza e di debolezza e che fatalmente sconfinano nell’opportunismo.
Con eguale insistenza diversi compagni e compagne hanno posto il tema della concretezza, dell’efficacia della nostra azione politica, considerato che i comunisti non possono chiudersi in una predicazione millenaristica, ma le risposte le devono dare qui e subito, connettendole e non separandole da una prospettiva più generale di trasformazione.
Un compagno di Bergamo, un lucidissimo, giovanissimo ottantenne di Bergamo, ha assestato una frustata finale, raccomandando ai compagni di riunirsi, di discutere, ma di non limitarsi a fare riunioni che preparano altre riunioni. Ma di andare poi fra la gente, perché è nella pratica reale che si rivela la giustezza di un’intuizione, la verità immanente in una teoria, l’efficacia di una scelta politica. Non ho idea se il compagno ne avesse la consapevolezza, ma questo, quasi con le stesse parole, è ciò che diceva Karl Marx, in famose note sul metodo, mentre era impegnato, centocinquant’anni or sono, nella costruzione della Lega dei comunisti.
La conclusione dei lavori della giornata, costretta in tempi rigorosamente contingentati dalla necessità di consentire a quanti provenivano dai territori più lontani di guadagnare la strada di casa, è stata affidata ad Augusto Rocchi, che ha sottolineato l’estrema utilità dell’incontro ed anzi l’opportunità di “istituzionalizzare” un simile prassi. Rocchi ha voluto in particolare mettere in valore la forte sintonia dei compagni e delle compagne su un punto cruciale, per nulla scontato: non soltanto il partito non è arrivato al capolinea della sua storia, ma esso riafferma il ruolo insostituibile dei comunisti come componente essenziale di un più vasto schieramento che si proponga di realizzare una trasformazione radicale del paese, cioè quel salto di paradigma economico sociale senza il quale il Paese è condannato non soltanto alla recessione, ma alla regressione democratica e alla barbarie. Per farlo dovrà cambiare molto, farlo con coraggio, intelligenza e generosità. La sfida è aperta.
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