La spesa pubblica italiana annua per cittadino, al netto degli
interessi, è inferiore di oltre 2mila euro rispetto alla spesa media
dell'area euro. Il problema del nostro debito pubblico, dunque, non
deriva da un "eccesso" di spesa. Per questo concentrarsi solo sul modo
in cui effettuare tagli rischia di lasciare pericolosamente nell'ombra
le cause di fondo dei problemi italiani.
Stando a una diffusa opinione, il debito pubblico italiano è molto elevato perché nel passato la spesa pubblica è stata "eccessiva", e in buona misura continua a esserlo.
Tuttavia, per quanto possa sembrare paradossale - e per quanto resti corretto criticare la composizione della spesa pubblica e diversi intollerabili sprechi - il volume della spesa pubblica italiana non è affatto superiore alla media dei Paesi europei. Anzi, la spesa pubblica primaria o "di scopo", con esclusione cioè degli interessi sul debito, è stata costantemente più bassa della media europea, pur in presenza di un rapporto tra debito e Prodotto interno lordo più elevato. Una contraddizione, a ben vedere, solo apparente.
Prendendo inizialmente come riferimento il fatidico 1981 - l'anno in cui si consumò il "divorzio" tra il Tesoro e la Banca d'Italia, che da allora in poi non era più tenuta ad acquistare i titoli del debito pubblico -, la spesa "di scopo" ammontava al 39% del Pil, a fronte del 45% della Germania e del 47% della Francia (dati Ameco, Commissione europea). Al tempo stesso, il debito pubblico italiano era pari al 59% del Prodotto interno lordo, mentre in Germania raggiungeva il 34% e in Francia appena il 22%. Già allora, l'Italia riusciva nella curiosa impresa di fare più debito con meno spesa.
La ragione di ciò riposava nel volume contenuto delle entrate pubbliche e nell'elevato regime dei tassi d'interesse.
Da un lato, infatti, le entrate rappresentavano il 34% del Pil, mentre in Germania e in Francia si attestavano su valori dieci punti più alti; e questo non perché fossero basse le aliquote, ma per la diffusione del fenomeno dell'evasione e dell'elusione fiscale. La conseguenza era che l'Italia registrava livelli di disavanzo del bilancio pubblico, al netto degli interessi, sconosciuti agli altri Paesi.
Dall'altro lato, lo Stato italiano pagava tassi sul debito ben più elevati dei partner europei. Ciò dipendeva dal fatto che, dopo il "divorzio" fra Tesoro e Banca d'Italia, lo Stato doveva necessariamente collocare i titoli del debito sul mercato. Al tempo stesso, il nostro apparato produttivo si mostrava non adeguatamente competitivo, dando vita a una tendenza strutturale all'eccesso delle importazioni sulle esportazioni, che veniva compensato con un avanzo della bilancia dei capitali, e dunque con afflussi di capitali attratti da tassi particolarmente invitanti. Per queste ragioni, il peso sugli interessi del debito crebbe sino al 13% del Pil, nel 1993, mentre negli altri Paesi il valore si attestava mediamente intorno al 3 per cento.
Oggi in buona misura viviamo gli effetti di quelle medesime dinamiche, a cui non si è mai posto rimedio.
Certo, la raccolta fiscale italiana rispetto al Prodotto interno lordo è ormai nella media europea (intorno al 48% del Pil); ma dal momento che non si sono abbattute le sacche di evasione ed elusione, ciò avviene a prezzo di una sperequazione dei carichi fiscali che contribuisce a frenare drammaticamente la domanda e a minare la competitività della nostra migliore imprenditoria.
Naturalmente, i tassi sono scesi, ma resta un significativo spread rispetto alla Germania, così come resta il problema di competitività che fa sì che la nostra bilancia commerciale sia in equilibrio solo in presenza di livelli particolarmente bassi del Pil.
E comunque, ancora nel 2012, il volume della spesa "di scopo" rispetto al Prodotto interno lordo risulta essere inferiore di oltre un punto percentuale rispetto alla media europea (l'Italia si attesta al 45,4%, mentre l'Europa a 15 è al 46,9%; la Francia arriva addirittura al 54%).
Non bisogna dunque stupirsi che la spesa pubblica italiana annua per cittadino, al netto degli interessi, sia inferiore di oltre 2mila euro rispetto alla spesa media dell'area euro e della Germania, e di ben 4.500 euro rispetto alla Francia. E persino considerando gli interessi sul debito, che - come è ben noto - restano più alti di quelli tedeschi e francesi, la spesa pubblica pro capite italiana è inferiore di circa 1.800 euro alla media europea.
Da tutto ciò consegue che, diversamente da quanto spesso si crede, il problema del debito pubblico italiano non deriva da un "eccesso" di spesa statale. Per questo, concentrarsi sul modo in cui tagliare la spesa pubblica al fine di abbattere il disavanzo e il debito pubblico rischia di lasciare pericolosamente nell'ombra le cause di fondo dei problemi italiani, che riposano nelle distorsioni del meccanismo delle entrate, nella scarsa competitività del nostro apparato produttivo, nell'insufficienza della domanda aggregata.
Solo una politica economica che si ponesse obiettivi lungimiranti di sviluppo potrebbe ambire anche a risolvere il problema del debito pubblico.
Stando a una diffusa opinione, il debito pubblico italiano è molto elevato perché nel passato la spesa pubblica è stata "eccessiva", e in buona misura continua a esserlo.
Tuttavia, per quanto possa sembrare paradossale - e per quanto resti corretto criticare la composizione della spesa pubblica e diversi intollerabili sprechi - il volume della spesa pubblica italiana non è affatto superiore alla media dei Paesi europei. Anzi, la spesa pubblica primaria o "di scopo", con esclusione cioè degli interessi sul debito, è stata costantemente più bassa della media europea, pur in presenza di un rapporto tra debito e Prodotto interno lordo più elevato. Una contraddizione, a ben vedere, solo apparente.
Prendendo inizialmente come riferimento il fatidico 1981 - l'anno in cui si consumò il "divorzio" tra il Tesoro e la Banca d'Italia, che da allora in poi non era più tenuta ad acquistare i titoli del debito pubblico -, la spesa "di scopo" ammontava al 39% del Pil, a fronte del 45% della Germania e del 47% della Francia (dati Ameco, Commissione europea). Al tempo stesso, il debito pubblico italiano era pari al 59% del Prodotto interno lordo, mentre in Germania raggiungeva il 34% e in Francia appena il 22%. Già allora, l'Italia riusciva nella curiosa impresa di fare più debito con meno spesa.
La ragione di ciò riposava nel volume contenuto delle entrate pubbliche e nell'elevato regime dei tassi d'interesse.
Da un lato, infatti, le entrate rappresentavano il 34% del Pil, mentre in Germania e in Francia si attestavano su valori dieci punti più alti; e questo non perché fossero basse le aliquote, ma per la diffusione del fenomeno dell'evasione e dell'elusione fiscale. La conseguenza era che l'Italia registrava livelli di disavanzo del bilancio pubblico, al netto degli interessi, sconosciuti agli altri Paesi.
Dall'altro lato, lo Stato italiano pagava tassi sul debito ben più elevati dei partner europei. Ciò dipendeva dal fatto che, dopo il "divorzio" fra Tesoro e Banca d'Italia, lo Stato doveva necessariamente collocare i titoli del debito sul mercato. Al tempo stesso, il nostro apparato produttivo si mostrava non adeguatamente competitivo, dando vita a una tendenza strutturale all'eccesso delle importazioni sulle esportazioni, che veniva compensato con un avanzo della bilancia dei capitali, e dunque con afflussi di capitali attratti da tassi particolarmente invitanti. Per queste ragioni, il peso sugli interessi del debito crebbe sino al 13% del Pil, nel 1993, mentre negli altri Paesi il valore si attestava mediamente intorno al 3 per cento.
Oggi in buona misura viviamo gli effetti di quelle medesime dinamiche, a cui non si è mai posto rimedio.
Certo, la raccolta fiscale italiana rispetto al Prodotto interno lordo è ormai nella media europea (intorno al 48% del Pil); ma dal momento che non si sono abbattute le sacche di evasione ed elusione, ciò avviene a prezzo di una sperequazione dei carichi fiscali che contribuisce a frenare drammaticamente la domanda e a minare la competitività della nostra migliore imprenditoria.
Naturalmente, i tassi sono scesi, ma resta un significativo spread rispetto alla Germania, così come resta il problema di competitività che fa sì che la nostra bilancia commerciale sia in equilibrio solo in presenza di livelli particolarmente bassi del Pil.
E comunque, ancora nel 2012, il volume della spesa "di scopo" rispetto al Prodotto interno lordo risulta essere inferiore di oltre un punto percentuale rispetto alla media europea (l'Italia si attesta al 45,4%, mentre l'Europa a 15 è al 46,9%; la Francia arriva addirittura al 54%).
Non bisogna dunque stupirsi che la spesa pubblica italiana annua per cittadino, al netto degli interessi, sia inferiore di oltre 2mila euro rispetto alla spesa media dell'area euro e della Germania, e di ben 4.500 euro rispetto alla Francia. E persino considerando gli interessi sul debito, che - come è ben noto - restano più alti di quelli tedeschi e francesi, la spesa pubblica pro capite italiana è inferiore di circa 1.800 euro alla media europea.
Da tutto ciò consegue che, diversamente da quanto spesso si crede, il problema del debito pubblico italiano non deriva da un "eccesso" di spesa statale. Per questo, concentrarsi sul modo in cui tagliare la spesa pubblica al fine di abbattere il disavanzo e il debito pubblico rischia di lasciare pericolosamente nell'ombra le cause di fondo dei problemi italiani, che riposano nelle distorsioni del meccanismo delle entrate, nella scarsa competitività del nostro apparato produttivo, nell'insufficienza della domanda aggregata.
Solo una politica economica che si ponesse obiettivi lungimiranti di sviluppo potrebbe ambire anche a risolvere il problema del debito pubblico.
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