di Piero Bevilacqua – il manifesto
Ammettiamo pure che Renzi riesca, come ormai si dice, quasi fosse
un biscazziere che tenta la fortuna. Un linguaggio, applicato a un
presidente del Consiglio e relativo alle sorti di un grande paese,
che segnala il punto ultimo di banalizzazione e scadimento cui
è giunta la vita politica nazionale. Ammettiamolo, ipotizzando che
il successo possa venire da qualche riforma istituzionale
riuscita, da qualche rattoppo legislativo e da altri risultati
parziali sfruttabili sul piano della propaganda mediatica. Questo
è il massimo che un osservatore ottimistico può concedere alla
propria immaginazione fiduciosa. Assai più probabile è che il
governo Renzi costituisca una replica, certo più vivace sotto il
profilo comunicativo, del governo Letta. Ci sono infatti tutte le
condizioni perché la situazione economica di una parte crescente
della popolazione tendi a peggiorare, la disoccupazione rimanga
inscalfita almeno per tutto il 2014 (previsioni della Banca d’Italia)
e le politiche di rigore dell’Ue rimangano entro i vincoli
dogmatici che hanno generato la bufera della deflazione europea.
Quelle politiche che Renzi non si sogna neppure di contestare. Come
già con i precedenti governi, di centrodestra e di larghe intese,
in questi anni di tracollo dell’economia, il volto della politica
continua a mostrarsi feroce nei confronti delle popolazioni e mite
nei riguardi delle imprese e del potere finanziario. Forte con
i deboli e debole con i forti come qualcuno ebbe a dire in un tempo
ormai remoto.
Ma, qualunque sia lo scenario del Paese nei prossimi due-tre
anni, una cosa appare ormai certa e prevedibile nel sue prossime
evoluzioni. Il Pd non sarà più un partito di centrosinistra,
tanto meno di sinistra, quale mai è stato. Sarà sempre più quello che
in parte è già oggi, come osservato da tanti commentatori: un
partito personale, anzi neppure un partito (la liquidazione di
questo termine infamante è stata annunciata), ma una agenzia di
marketing elettorale, nuova fiammante come una Ferrari uscita di
fabbrica. E che questo stia accadendo e accadrà a prescindere
dalle dichiarate intenzioni di Renzi e del suo gruppo lo dicono
i fatti osservati. Non c’è solo da prendere atto che Renzi, formando
un nuovo governo senza passare per le urne, replica e amplifica il
tradimento nei confronti degli elettori del Pd, già consumato da
Letta. Non realizza soltanto le larghe intese, per limitati
e transitori atti di governo, ma mette in piedi un esecutivo di
legislatura, estendendo a Berlusconi la presenza sostanziale in
un disegno di riforma costituzionale. Gli elettori del Pd ne
saranno edificati. Ma, si ricorderà, dentro quel partito, prima
dell’avvento di Renzi, 101 parlamentari hanno tradito il loro
impegno, non votando Prodi alla presidenza della Repubblica,
infliggendo un vulnus incaccellabile all’ onore di quel
organismo. Ora Renzi, che aveva rassicurato sino a pochi giorni
prima il suo compagno Letta, lo caccia via senza una qualche
plausibile ragione che non sia di pura forza.
Dunque, che messaggio lancia a tutti i suoi compagni? Che cosa
resta, dentro il Pd di quella speciale stoffa che tesse i rapporti
umani, un tempo definita morale? Se il partito non è di sinistra,
perché non persegue ideali di uguaglianza, non si schiera dalla
parte dei lavoratori – gli uomini e le donne che faticano dalla
mattina alla sera per miseri salari, generando la ricchezza di
questo Paese — quale collante lo tiene insieme? Che cosa se non
l’interesse dei singoli per finalità di carriera personale animerà
il collettivo? Ed è facile immaginare, anche perché è già in atto,
quale logica darwiniana ispirerà la selezione dei gruppi dirigenti
nella periferia del partito, che evidentemente premierà
i caratteri geneticamente dominanti della spregiudicatezza,
della capacità di manovra e di conquista. Ricordo sommessamente
che conosciamo già i tratti tragici di questa vicenda. Essa ha già
percorso la storia nazionale, lasciandoci in eredità magnifiche
rovine. Bettino Craxi fece qualcosa di simile con il Psi. E la
distruzione di quel partito — divenuto ben presto il bastone del
Capo – così come il danno incalcolabile alla sinistra e al Paese, fu
tanto più facile e possibile quanto il tentativo venne premiato
dal successo personale e dai risultati politici iniziali. Tanto la
riuscita che l’insuccesso di Renzi apre ugualmente scenari
inquietanti e indesiderabili, quanto meno per la sinistra
italiana. Schieramento politico la cui sorte a me non appare
separabile da quella del Paese.
Ma tanto l’uno che l’altro esito non interrogano anche noi? Noi
sinistra radicale, costellazione divisa e dispersa di movimenti,
gruppi, piccoli partiti, personalità? Noi che da almeno un
decennio conduciamo lotte, vinciamo referendum di portata
storica, eleggiamo qualche sindaco significativo, produciamo
idee e cultura politica nuova, esprimiamo figure intellettuali di
primissimo piano, diamo un contributo di prim’ordine all’analisi del
capitalismo contemporaneo, ma non riusciamo a organizzare
questa frammentata ricchezza in un organismo politico comunque
denominato?
In questo momento questa vasta area sta compiendo un piccolo
miracolo. Sta portando in porto la candidatura di Alexis Tsipras
alla Commissione europea e selezionando la lista dei candidati
che dovranno accompagnarlo nella competizione del prossimo
maggio. L’idea di un comitato promotore che diventa comitato di
garanti, per la felice iniziativa di Barbara Spinelli, sta
funzionando, anche se bisognerà mettere nel conto qualche errore
e qualche sbavatura per i tempi strettissimi entro cui esso
è costretto a operare. Ma questa breve esperienza ci dice alcune cose
su cui occorrerà riflettere, da cui partire per tentare il grande
mare di un possibile progetto politico. Intanto occorre
compiacersi di un dato non scontato in partenza: il fatto che
l’autorevolezza dei membri che compongono il comitato non sia stata
messo in discussione. Nessuno ne ha contestato la legittimità.
È un successo importante, un principio d’autorità necessario. È la
conferma di un fatto noto: esiste nell’area della sinistra un folto
gruppo di personalità di larga popolarità e spesso di indiscussa
autorevolezza. È un patrimonio prezioso, un punto di partenza
rilevante. Ebbene, lo usiamo solo per rispondere all’iniziativa
dell’avversario, per difendere la Costituzione – come è accaduto,
certo con successo – per l’esperienza della Via maestra di Rodotà
e Landini? E poi riponiamo la spada nel fodero e tutti a casa? Lo
mettiamo in campo solo per selezionare e frenare la rissa dei
candidati in occasione delle competizioni elettorali? E staremo
nei prossimi mesi, una volta conclusasi la campagna elettorale
europea, a osservare i segni di cedimento dentro il Pd, ad
attendere qualche probabile scissione dentro quell’organismo?Non
dobbiamo cambiare prospettiva?
Io credo che oggi dovremmo puntare a una più grande e urgente
ambizione: creare un grande tavolo di discussione, di confronto, di
ricerca tra tutte le forze in campo. Una sorta di Costituente della
sinistra dove si confrontino idee, posizioni, proposte, senza
avere sul capo l’urgenza deformante di una campagna elettorale alle
porte. So bene quanto sia difficile la riuscita di un simile
laboratorio, che dovrebbe puntare alla creazione di una forma
politica nuova, una federazione di forze tenuta insieme da vincoli
e regole severe e ben definite. So bene quanta rissosità,
settarismo, superficialità, alberga tra le nostre file. Ma se non
si tenta adesso una tale strada, in presenza di una delle più grandi
crisi della nostra storia, con fondamenti della nazione in pezzi (la
scuola, l’Università, la piccola industria, la giustizia
amministrativa, la legalità repubblicana, il territorio),
quando mai si tenterà la provvida avventura? Lasceremo a Grillo,
opposizione urlante e politicamente inetta il compito di
raccogliere il grido di dolore di milioni di italiani? E non
dobbiamo pensare che quando giungerà il momento delle elezioni
nazionali – se questo governo dovesse durare – c’è il rischio che il
Paese sia riconsegnato alle destre o sia reso ingovernabile?
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