Che Marchionne stia allo statuto dei lavoratori come Berlusconi sta alla Costituzione è faccenda ormai acclarata: fine della cortina fumogena che ammantava il brevissimo “nuovo corso” della Fabbrica Italiana di Automobili Torino. E fine dell’illusione che aveva rapito gli estasiati neofiti della ex-sinistra moderata, convinti di avere trovato in Sergio Marchionne il moderno interprete del capitalismo democratico da loro agognato. La madre di tutte le imprese torna dunque ad essere la “zona franca” dove i lavoratori sono soltanto numeri, dove neppure la magistratura può ripristinare diritti violati perché la legge dell’azienda è la sola che conta, la sola davvero legittima. E se quella sancita nelle aule di giustizia vi si oppone vuol dire che si è di fronte ad un’incongruenza da sanare, perché per la Fiat il potere giudiziario dovrebbe aderire, come un guanto, a quello reale, quello che vive nei rapporti sociali dominati dal capitale. La Fiat ritiene di avere, obtorto collo, pagato il suo debito con i lavoratori ingiustamente licenziati corrispondendo loro il salario, ma non riammettendoli al lavoro: una operazione che unisce il mobbing all’attentato alla libertà sindacale. Silenzio tombale del governo complice.Chi invece non smette di parlare è il capo della Cisl. L’ossessione fobica per la Fiom, vale a dire per un sindacato che non rinuncia a comportarsi come tale, possiede come un demone implacabile Raffaele Bonanni. Il quale ne è a tal punto divorato da non riuscire a pronunciare parole elementari, di solidarietà incondizionata, nei confronti dei lavoratori licenziati dalla Fiat per rappresaglia antisindacale, ma che Marchionne pretende di tenere fuori dai cancelli malgrado la sentenza con cui la magistratura li ha reintegrati nel posto di lavoro. Se un superficiale rimbrotto egli muove alla Fiat è quello di cadere nella trappola tesa dai metalmeccanici della Cgil. In sostanza, di fare di quell’organizzazione una vittima e dunque di rafforzarla.Un paio di settimane fa avevamo definito il comportamento di Bonanni come un irrefrenabile impulso servile che si manifesta ormai sistematicamente, ora nei confronti del governo, ora di fronte al padrone, anche e proprio quando l’attacco ai lavoratori e ai loro diritti si fa più esplicito e liquidatorio. Un collateralismo tanto sbracato da risultare umoristico, se le conseguenze materiali di un così plateale disarmo non fossero tragiche per l’intero mondo del lavoro dipendente, colpito duramente dalla crisi, da una politica governativa incapace di pensare una benché minima risposta e da una aggressività padronale che non trova efficace contrasto, né politico né sociale.A meno che non ci si accontenti del profluvio di dichiarazioni, deboli anch’esse, che nutrono la stampa, senza lasciare alcun segno di sé. Anche Guglielmo Epifani, sia pure dopo avere condannato la protervia di corso Marconi, finisce per accodarsi al refrain di una Fiom chiusa a riccio e refrattaria a confrontarsi su orari, turni e organizzazione del lavoro. Cosa manifestamente non vera, come Maurizio Landini ha ampiamente spiegato, anche sulle colonne di questo giornale. Sempre che costituzione e contratto collettivo di lavoro non siano considerati merce barattabile.Il fatto è che oggi la rappresentanza sindacale non è frutto di una competizione democratica, dove il voto dei lavoratori decida in modo trasparente il peso di ciascuna forza e ne legittimi il ruolo negoziale. La rappresentanza oggi è solo presunta. Peggio: essa è decisa dalla controparte che sceglie a suo gusto l’interlocutore più malleabile con cui trattare e concludere intese, scrupolosamente sottratte al giudizio vincolante degli interessati. Mai si è dato, in democrazia, un così plateale esproprio di sovranità. Oggi, la Cisl, la Uil, trasformatesi in sindacati di comodo, esercitano una rendita di posizione, una delega padronale al sottogoverno delle aziende in quel simulacro a cui è stato ridotto il confronto fra le parti sociali. Siamo tornati agli anni Cinquanta. Con una differenza. Che allora vi era sulla scena sociale una Cgil non prona ed una sinistra politica combattiva, dichiaratamente e fattivamente al fianco dei lavoratori, sicuramente affrancata da suggestioni interclassiste e non permeata dalla cultura liberista.Con tutta evidenza, la crisi politica, in incubazione da tempo, precipiterà in autunno. Più per autocombustione della maggioranza che per il ruolo evanescente delle opposizioni che siedono in Parlamento. Sarà un bene se la sinistra che ne sta fuori troverà il modo di giocare un proprio ruolo autonomo, nella formazione degli schieramenti elettorali, nella proposta, nel progetto. E, ancor più importante, se la mobilitazione lanciata dalla Fiom per la metà di ottobre saprà raccogliere intorno a sé un arcipelago sociale da troppo tempo rattrappito e confuso. Per distribuire alla politica nuove carte, rispetto a quelle consunte con cui si celebrano i giochi dentro il palazzo.
Dino Greco, direttore Liberazione
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