Storico voto all'Assemblea generale delle Nazioni Unite: l'accesso all'acqua potabile è stato riconosciuto come un diritto umano.Pensate come cambiano le cose: solo pochi mesi fa Franco De Benedetti, senatore Pd e autorevole editorialista di Repubblica, sostenne che l'acqua non è un diritto umano e che sbaglia chi lo sostiene. Oggi lo sostiene l'Onu. E Repubblica online scrive: «Storico voto».È un primo passo, una risoluzione senza vincolo di attuazione, ma non credo di esagerare se sostengo che è uno di quei passaggi che segnano la storia e che, con le dovute differenze, può essere equiparato alla dichiarazione con la quale nell'800 il mondo affermò l'illegalità della schiavitù.Sulla base di quanto affermato nella risoluzione possiamo dire che far mancare l'acqua potabile a qualcuno è illegale e che, qualora fosse resa vincolante la risoluzione, tutte le istituzioni del mondo dovranno garantire a tutti i cittadini l'accesso a tale diritto.Ne discende una domanda: il diritto umano all'acqua, così come il risparmio di questo bene comune, è compatibile con la sua mercificazione-privatizzazione? Il movimento dell'acqua mondiale da più di 10 anni ha detto no in tutte le sedi. Ha sviluppato movimenti, ha influenzato governi, cambiato leggi e costituzioni in tal senso e centinaia di comuni italiani hanno modificato gli statuti. Ha detto che il diritto è incompatibile con il profitto, con la privatizzazione dei servizi idrici e con il consegnare l'accesso all'acqua potabile per 1 miliardo e 200 milioni di persone ai partenariati pubblico-privato. Ha detto che è incompatibile una politica mondiale dell'acqua se delegata ad una istituzione privata come il Consiglio Mondiale, governata dalle solite multinazionali Suez e Veolia. Infine ha detto che è incompatibile una politica di risparmio di acqua se regolata e venduta da imprese che devono fare profitti.Per queste ragioni la risoluzione dovrebbe affidare alle reti internazionali, ai governi che l'hanno promossa e a quelli che l'hanno firmata, tre compiti. Il primo è quello di renderla vincolante e tradurla in orientamenti legislativi e costituzionali in tutto il mondo. Il secondo è quello di chiamare, come da tempo fanno le reti dell'acqua, le Nazioni unite alla propria responsabilità di definire la politica mondiale dell'acqua in quanto unica istituzione legittima. Il che vuol dire che l'Onu deve delegittimare, in vista di Marsiglia 2012 sede del prossimo Forum Mondiale dell'Acqua, il Consiglio Mondiale dell'acqua che lo promuove.Il terzo punto riguarda noi, il nostro paese, il governo, il ministro Ronchi, ma anche la politica che ha partorito la legge che fa obbligo di privatizzare la gestione di tutti i rubinetti italiani. Ecco, dopo il voto dell'Assemblea dell'Onu e la straordinaria raccolta di firme (1,4 milioni di firme, il 4% dell'elettorato italiano) che ne chiede l'abrogazione, è d'obbligo un ripensamento. È un popolo che lo chiede, quello dei banchetti, trasversale, libero dalla gabbia nella quale il bipolarismo ha tentato di imprigionarlo, nel tentativo di farne due popoli tra loro incomunicabili. Una raccolta senza sponsor, senza visibilità mediatica, senza leader. Credo non sia più possibile ignorare anche un serio confronto per l'acqua sulla questione della fuoriuscita dalla logica privata del full cost recovery, ovvero della tariffa fatta da pareggi di bilancio e giusta remunerazione (al 7%) del capitale. Un confronto serio, che parta dal diritto umano, che lo quantifichi - come fa l'Organizzazione mondiale della sanità - in un minimo di 50 litri al giorno per persona da garantire a tutti, a carico della fiscalità generale, una base sicura oltre la quale introdurre tariffe progressivamente più care per consumi sempre più elevati, tesa a ridurre consumi sprechi eccetera. Un modello non più trattabile con sufficienza come ideologico, ma come il solo in grado di rendere compatibili esigenze imprescrittibili: diritto e risparmio. Un modello che solo la politica, il pubblico e la partecipazione dei cittadini può realizzare, dando corpo a quanto di storico è stato votato a New York.
Emilio Molinari
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