lunedì 16 giugno 2014

Le ragioni del referendum contro il Fiscal Compact

di Riccardo Realfonzo daEconomiaepolitica.it
Il rispetto del Fiscal Compact – il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’unione economica e monetaria, sottoscritto nel 2012 – costringerebbe il governo italiano a praticare ulteriori drastiche politiche di austerità, per i prossimi due decenni. Si tratta di impegni che tecnicamente non possono essere rispettati, a meno di volere trascinare il Paese in una prolungata recessione dagli effetti sociali devastanti. Per questa ragione, è bene che gli italiani si esprimano sul referendum che abbiamo proposto, respingendo un approccio di finanza pubblica pesantemente restrittivo che non ha alcuna giustificazione tecnico-scientifica. Il referendum ha per oggetto aspetti specifici della legge 243 del 2013, la quale dà attuazione al principio del pareggio di bilancio recentemente introdotto nella Costituzione (con la legge costituzionale n. 1 del 2012). Tuttavia, il significato politico del referendum è molto chiaro: si tratta di chiedere ai cittadini di esprimersi finalmente sull’intero sentiero di austerità previsto dal Fiscal Compact.
Per inquadrare la questione, è opportuno sottolineare che le politiche di taglio della spesa pubblica e incremento della pressione fiscale hanno già avuto effetti devastanti nell’eurozona.
A riguardo è sufficiente concentrare l’attenzione sui risultati dell’operare dei vincoli europei sul deficit e sul debito all’indomani della crisi scoppiata alla fine del 2007. La risposta del tutto inadeguata alla crisi ha portato nell’eurozona a una crescita del numero dei disoccupati da 11,6 ad oltre 19 milioni di fine 2013 (con un incremento che sfiora il 65%) e il pil ancora oggi risulta di 1,5 punti inferiore al livello raggiunto nel 2007 (dati Commissione Europea, a prezzi costanti). In Italia, a causa della risposta sbagliata alla crisi, il pil resta oggi a un livello del 9% più basso rispetto allo scoppio della crisi e la disoccupazione è più che raddoppiata, passando da 1,5 a 3,1 milioni. Viceversa, negli USA, dove il Presidente Obama ha varato il Recovery Act, stanziando risorse per circa 800 miliardi di dollari, la crisi ormai è un ricordo lontano e l’economia ha ripreso una crescita solida.
Le ulteriori dosi di austerità previste dal Fiscal Compact riguardano l’equilibrio strutturale del bilancio e l’abbattimento del debito pubblico alla soglia ritenuta ottimale del 60% del rapporto tra debito e pil. Vediamo quali sarebbero le conseguenze di queste politiche.
Cominciamo con l’obbligo relativo al debito pubblico. Secondo il Fiscal Compact, il debito dovrebbe essere ridotto ogni anno di un ventesimo della differenza tra il rapporto debito pil registrato dal Paese considerato e il valore obiettivo del 60%. Cosa dovrebbe fare l’Italia per soddisfare questo impegno? Dovrebbe continuare con il mettere in fila avanzi primari, e cioè anno dopo anno registrare un eccesso della raccolta fiscale rispetto alla spesa pubblica destinata a produrre merci e servizi (con esclusione quindi degli interessi sul debito).
Per capire quale sia la strada indicata dal Fiscal Compact occorre ricordare che secondo lacondizione di sostenibilità delle finanze pubbliche, dato un certo obiettivo del rapporto tra debito e pil, l’avanzo primario necessario a conseguirlo dipende dalla differenza tra due grandezze estremamente importanti: il costo medio del debito pubblico (cioè il tasso di interesse che mediamente lo Stato paga ai possessori dei titoli del debito pubblico) e il tasso di crescita del pil nominale (cioè la velocità a cui cresce il prodotto interno lordo ai prezzi correnti, includendo cioè l’inflazione)
Il DEF prevede di cogliere l’obiettivo dell’abbattimento del debito al 60% in 20 anni ed anche di realizzare il pareggio di bilancio in termini strutturali (al netto cioè delle variazioni cicliche), secondo quanto previsto dalla disciplina del Fiscal Compact (l’obiettivo sarebbe conseguito nel 2016).
Sulla assurdità del principio del pareggio, qui mi limito a ricordare che quando negli USA, nel 2011, la destra repubblicana spinse per introdurre nella Costituzione il principio del pareggio di bilancio, cinque premi Nobel e altri autorevoli economisti scrissero a Obama. Spiegarono che “inserire un tetto alla spesa pubblica peggiorerebbe le cose” e “chiudere il bilancio in pareggio aggraverebbe le recessioni”. Il pareggio di bilancio è dunque una “pericolosa camicia di forza” che “impedirebbe al governo di ricorrere al credito” quando ce n’è bisogno e “favorirebbe dubbie manovre finanziarie, quali la vendita di beni pubblici”. Obama ascoltò l’allarme dei Nobel e si guardò bene dall’inserire il pareggio in Costituzione. In Italia, invece, abbiamo zelantemente recepito il principio e inseguiamo da anni con pervicace coerenza questo fantomatico obiettivo di “sana finanza pubblica”.
È utile sottolineare la differenza tra i gravosissimi avanzi primari richiesti per rispettare il Fiscal Compact e quelli sufficienti a stabilizzare il debito rispetto al pil
La differenza tra le due politiche è estremamente significativa. Già il prossimo anno una semplice politica di stabilizzazione consentirebbe di avere maggiori risorse a disposizione, per riduzioni di tasse e aumenti di spesa pubblica, per 26 miliardi. Una maggiore disponibilità di risorse che nel 2018, anno finale della legislatura, raggiungerebbe i 77 miliardi di euro. Si noti che l’avanzo primario che il Fiscal Compact imporrebbe alla luce delle ipotesi governative nel 2018 raggiungerebbe la cifra stratosferica di 90 miliardi di euro
Il confronto con tra i gravissimi sacrifici richiesti dal Fiscal Compact e una “semplice” politica di stabilizzazione del debito fanno comprendere quanto sia assurdo imboccare la strada dell’abbattimento del debito a tappe forzate che l’Europa tecnocratica ci chiede.
Ma la strada del Fiscal Compact mostra la sua assoluta insostenibilità alla luce di alcune ulteriori considerazioni. Lo studio sopra riportato assume infatti i valori delle ipotesi governative come se, effettivamente, fosse possibile inanellare una serie di avanzi primari del 5% ed avere al tempo stesso una crescita reale dell’economia intorno al 2% (come assume il DEF). In realtà sappiamo ormai molto bene che ciò è impossibile. Il fallimento della dottrina dell’austerità espansiva - secondo cui le politiche di austerità favoriscono la crescita – è ormai stato confermato dai fatti, oltre che dalla teoria macroeconomica. E, come ha riconosciuto anche Olivier Blanchard, l’autorevole capoeconomista del Fondo Monetario Internazionale, l’austerità riduce drasticamente la crescita. Insomma, se davvero provassimo a fissare avanzi primari dell’ordine del 5%, ciò farebbe crollare il pil, determinerebbe una riduzione delle entrate fiscali e porterebbe ad una ulteriore crescita (non a un decremento) del rapporto tra debito e pil. D’altra parte, si tratta dello scenario cui abbiamo già assistito in questi anni. E poi: in che modo potremmo accumulare avanzi primari di quel valore? Gli analisti dovrebbero sapere bene che le politiche di austerità di questi anni hanno già drasticamente ridimensionato la quota della spesa pubblica sul pil (-6% rispetto al 1990) e hanno portato la spesa pubblica per cittadino in termini reali a livelli molto inferiori alla media dell’eurozona
Insomma, il Fiscal Compact disegna un sentiero impercorribile all’insegna della più ottusa austerità. Un sentiero semplicemente non percorribile. È indispensabile che l’Italia e l’Europa abbandonino al più presto questo percorso. Auguriamoci che il referendum contro il Fiscal Compact possa dare un contributo incisivo in questa direzione.
*Membro del Comitato promotore del referendum contro il Fiscal Compact
Università del Sannio

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