Ci vuole coraggio, mentre l’Istat sforna l’ennesimo bollettino di guerra sui numeri choc della disoccupazione italiana, a convocare uno sciopero della Rai contro Renzi, anzi, contro Matteo. Per capirlo basta accendere un telegiornale o un talk-show a caso. Senza bisogno di alcuna riforma, siamo al Telegiornale Unico del Pd. Già durante la campagna elettorale, e ancor di più dopo i clamorosi risultati delle elezioni europee, è esplosa l’entusiasta adesione del servizio pubblico verso il “partito della nazione”, fino ai toni di vibrante commozione con cui i tg commentavano il “bagno di folla” del capo del governo nella giornata del 2 Giugno.
Un conformismo asfissiante che, fossimo nei panni del popolare presidente del consiglio, cercheremmo di contenere consigliando al fan-club di Saxa Rubra di placare questa onda berlusconiana di ritorno. E infatti dopo la proclamazione della protesta sindacale, nel volgere di qualche ora, sono comparsi i distinguo, i dubbi, le dissociazioni, l’apertura a un supplemento di riflessione da parte dello stesso sindacato dei giornalisti, che ora deve fare i conti con il divieto pronunciato ieri dalla commissione di garanzia sugli scioperi che dice no alla data dell’11 giugno.
Le ragioni dello sciopero sono note: la richiesta di Palazzo Chigi di fare cassa per 150 milioni, approvata ieri dalle commissioni Bilancio e Finanze del senato, insieme all’esplicita richiesta di cessione di quote importanti di RayWay (i trasmettitori di frequenza). Soldi subito per coprire le necessità del decreto Irpef e dismissione di una parte dell’asse strategico RayWay (da custodire invece gelosamente in mano pubblica, materia prima per tutti i nuovi servizi della banda ultralarga).
Ciascun attore ha fatto la sua parte in commedia. Il governo ha sparato sulla crocerossa, proseguendo nella linea vincente di prosciugare l’acqua al mulino grillino, profittando del discredito che colpisce un’azienda sfinita dalla lottizzazione, omologata alla tv commerciale, affidata al lavoro di migliaia di precari. Il direttore generale ha minacciato “lacrime e sangue” anziché controbattere con un piano a medio termine di risparmi, doverosi in un’azienda dove i generali sono più dei soldati semplici, e tra consulenze, appalti, collaborazioni esterne siamo più vicini a una catena feudale che al modello della più grande azienda culturale del paese. Il presidente-cittadino della Vigilanza anziché applaudire ai tagli contro l’odiata casta, come Grillo comanda, promette di unirsi alla protesta. Infine il sindacato che non ha mai scioperato quando un solo padrone governava la Rai in simbiosi con le sue televisioni private, mettendo a rischio, non solo il servizio pubblico, ma la democrazia del paese. Salvo minacciare di incrociare le braccia di fronte a una spending dura ma sostenibile, d’accordo tutte le sette sigle sindacali e tutte le categorie, dalle sgretarie ai dirigenti, ai giornalisti.
Questa commedia conferma la funzione di sismografo della Rai nei passaggi cruciali della politica nazionale, quando il cavallo deve acconciarsi a portare il peso del nuovo cavaliere. Ma tutto sarà stato utile se sarà servito ad aprire una discussione pubblica su una radicale riforma dell’azienda e del prodotto.
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