Negli Usa e in Giappone si sta seguendo una linea di politica economica esattamente contraria a quella dell’austerità europea. Questo è un bene, per loro e per il mondo. Ma in economia non esistono scelte che producano effetti in un’unica direzione: il rischio di nuove guerre valutarie è alle porte.
Il titolo del Sole 24 Ore
di sabato scorso diceva (quasi) tutto quello che c’è da dire sul
recente vertice di Bruxelles: “L’Europa vara il bilancio di austerità”.
In effetti la riduzione del bilancio 2014-2020 rispetto a quello
2007-2013 è assai consistente: -3,5%. Ma il dato quantitativo dice
ancora poco di quello che sta succedendo. Tra i 40 miliardi di spesa che
sono saltati, i settori più sacrificati sono quelli relativi a ricerca e
innovazione, formazione e investimenti nelle reti. Ovvero tutte le
sfide più importanti e le probabili leve per uno sviluppo
qualitativamente diverso da quello fin qui avvenuto e entrato in una
profonda crisi strutturale. L’Italia porta a casa qualcosa di meglio
della volta precedente – a trattare c’era Berlusconi, quindi non è un
gran merito – soprattutto grazie al buon lavoro di Fabrizio Barca, ma
tutto sarà devoluto alla campagna elettorale di Mario Monti.
E’ la prima volta che la Ue riduce il suo bilancio già così misero: l’1% del suo Pil. Siamo di fronte non solo ad un dato economico ma a un elemento politico di grande rilevanza. L’insistenza inglese e tedesca sui tagli dimostra che il processo di unità europea è reversibile, che la tendenza all’unità può essere invertita nel suo contrario, che questo avviene ad opera dei paesi più forti dentro la peggiore crisi di tutti i tempi del capitalismo europeo.
Il 2012 si è chiuso con un surplus commerciale tedesco record. Il migliore che si sia mai realizzato fatta eccezione di quello del lontanissimo 1950. Le esportazioni tedesche sono aumentate del 3,4%, le importazioni solo dello 0,7%. Ma questi numeri indicano la poca lungimiranza della politica tedesca. Se l’import arricchisce i produttori esteri, e quindi può essere inteso anche come un freno alla crescita interna, un suo andamento così fiacco mette ancora di più in evidenza la debolezza già in atto della domanda interna, ovvero una difficoltà nella capacità di consumo. Infatti il Pil del quarto trimestre del 2012 si è contratto dello 0,5% rispetto al terzo trimestre. In un quadro come questo l’apprezzamento dell’euro, riavvicinatosi agli 1,40 dollari, e destinato probabilmente ancora a salire (secondo calcoli ovviamente teorici un euro “solo tedesco” varrebbe oggi 1,53 dollari), rischia di capovolgere la situazione per le aziende esportatrici.
Il rischio di nuove guerre valutarie è alle porte. Il motivo è abbastanza semplice. Negli Usa e in Giappone si sta seguendo una linea esattamente contraria a quella dell’austerità europea. E questo è un bene, per loro e per il mondo. Ma in economia non esistono scelte che producano effetti in un’unica direzione. Anzi gli effetti collaterali, voluti o no, sono frequenti e diffusi e a volte finiscono persino per prevalere.
Negli Usa si deciderà il 19 maggio prossimo a quanto potrà salire il livello del debito. Nel frattempo il tetto attuale di 14.400 miliardi di dollari viene abbondantemente sforato, tramite immissione di nuova liquidità da parte della Federal Reserve. In questo modo tra l’altro la Fed pensa di potere governare la discesa del valore del dollaro rispetto all’euro, per rendere così più competitivi i prodotti americani. E’ la messa in pratica del ben noto meccanismo delle “svalutazioni competitive”, ma un conto – osservano Lettieri e Raimondi su ItaliaOggi del 7 febbraio – se queste le fa un paese di piccole o relativamente piccole dimensioni, come successe all’Italia nel 1992, un conto se lo fanno gli Usa. L’impatto sulla situazione mondiale è evidentemente enormemente maggiore e può diventare devastante.
Tanto più che su questa strada si è già immesso il Giappone pronto ad attuare, tramite la propria Banca centrale, un “quantitative easing” di circa 1.200 miliardi di dollari entro il 2013. Tutto ciò malgrado che il debito pubblico giapponese abbia superato il 237% del Pil, ma si tratta di un debito prevalentemente in mano giapponese. L’intenzione del governo di Shinzo Abe è quello di fare uscire il suo paese dalla più che decennale stagnazione. Ma naturalmente la conseguenza è l’abbassamento del valore dello yen sia nei confronti del dollaro, che dell’euro, come dello yuan cinese. Il valore dello yen su dollaro e euro è già sceso del 10%.
In sostanza alla crisi della globalizzazione si risponde in Europa con l’inversione di tendenza dell’unità europea e con una politica di rinazionalizzazione dei bilanci, che peraltro vengono controllati affinché non splafonino tramite i micidiali meccanismi messi in atto dal fiscal compact, mentre nel resto del mondo si accostano politiche espansive con l’apertura di schermaglie o addirittura guerre monetarie.
La Germania si rinchiude sempre più nel suo fortino. Anche la scelta di reimportare nei forzieri tedeschi l’oro sparso per il mondo (pari a circa il 70% delle sue ricchezze aurifere) rientra in questa logica. Come avrebbe detto Keynes i tedeschi si aggrappano alla “barbara reliquia”. Non sono i soli, visto che la Cina, malgrado sia il primo produttore mondiale di oro, ne sta acquistando a tonnellate sul mercato internazionale. Scendendo vorticosamente dal grande al piccolo ben si comprende come i negozietti “compro oro” stiano spuntando come funghi nelle città italiane.
In linea di principio non vi è altra soluzione per uscire da una crisi così lunga e profonda, se non costruendo una nuova governance democratica a livello mondiale, in particolare una nuova Bretton Woods che governi il tramonto auspicabile del dollaro come moneta universale verso una nuova moneta di cambio – secondo il sogno keynesiano – o una sorta di paniere che garantisca il multipolarismo monetario.
Il vaso di coccio è l’Europa. Le scelte dell’altro giorno del Consiglio europeo lo dimostrano. Il parlamento europeo ha su questa materia diritto di veto e il suo Presidente Schulz si è dichiarato contrario. Ma è difficile pensare che ci sia a breve una inversione di tendenza. Questa può derivare solo da una presa di coscienza a livello popolare e delle istituzioni della società civile della centralità e della gravità del problema. Ma se guardiamo alla campagna elettorale di casa nostra, ove di queste tematiche non si è parlato nemmeno per sbaglio, non c’è da essere ottimisti. Non c’è che sperare nel prossimo Forum sociale mondiale previsto per fine marzo a Tunisi, luogo che nel frattempo è diventato il banco di prova di sopravvivenza delle primavere arabe.
E’ la prima volta che la Ue riduce il suo bilancio già così misero: l’1% del suo Pil. Siamo di fronte non solo ad un dato economico ma a un elemento politico di grande rilevanza. L’insistenza inglese e tedesca sui tagli dimostra che il processo di unità europea è reversibile, che la tendenza all’unità può essere invertita nel suo contrario, che questo avviene ad opera dei paesi più forti dentro la peggiore crisi di tutti i tempi del capitalismo europeo.
Il 2012 si è chiuso con un surplus commerciale tedesco record. Il migliore che si sia mai realizzato fatta eccezione di quello del lontanissimo 1950. Le esportazioni tedesche sono aumentate del 3,4%, le importazioni solo dello 0,7%. Ma questi numeri indicano la poca lungimiranza della politica tedesca. Se l’import arricchisce i produttori esteri, e quindi può essere inteso anche come un freno alla crescita interna, un suo andamento così fiacco mette ancora di più in evidenza la debolezza già in atto della domanda interna, ovvero una difficoltà nella capacità di consumo. Infatti il Pil del quarto trimestre del 2012 si è contratto dello 0,5% rispetto al terzo trimestre. In un quadro come questo l’apprezzamento dell’euro, riavvicinatosi agli 1,40 dollari, e destinato probabilmente ancora a salire (secondo calcoli ovviamente teorici un euro “solo tedesco” varrebbe oggi 1,53 dollari), rischia di capovolgere la situazione per le aziende esportatrici.
Il rischio di nuove guerre valutarie è alle porte. Il motivo è abbastanza semplice. Negli Usa e in Giappone si sta seguendo una linea esattamente contraria a quella dell’austerità europea. E questo è un bene, per loro e per il mondo. Ma in economia non esistono scelte che producano effetti in un’unica direzione. Anzi gli effetti collaterali, voluti o no, sono frequenti e diffusi e a volte finiscono persino per prevalere.
Negli Usa si deciderà il 19 maggio prossimo a quanto potrà salire il livello del debito. Nel frattempo il tetto attuale di 14.400 miliardi di dollari viene abbondantemente sforato, tramite immissione di nuova liquidità da parte della Federal Reserve. In questo modo tra l’altro la Fed pensa di potere governare la discesa del valore del dollaro rispetto all’euro, per rendere così più competitivi i prodotti americani. E’ la messa in pratica del ben noto meccanismo delle “svalutazioni competitive”, ma un conto – osservano Lettieri e Raimondi su ItaliaOggi del 7 febbraio – se queste le fa un paese di piccole o relativamente piccole dimensioni, come successe all’Italia nel 1992, un conto se lo fanno gli Usa. L’impatto sulla situazione mondiale è evidentemente enormemente maggiore e può diventare devastante.
Tanto più che su questa strada si è già immesso il Giappone pronto ad attuare, tramite la propria Banca centrale, un “quantitative easing” di circa 1.200 miliardi di dollari entro il 2013. Tutto ciò malgrado che il debito pubblico giapponese abbia superato il 237% del Pil, ma si tratta di un debito prevalentemente in mano giapponese. L’intenzione del governo di Shinzo Abe è quello di fare uscire il suo paese dalla più che decennale stagnazione. Ma naturalmente la conseguenza è l’abbassamento del valore dello yen sia nei confronti del dollaro, che dell’euro, come dello yuan cinese. Il valore dello yen su dollaro e euro è già sceso del 10%.
In sostanza alla crisi della globalizzazione si risponde in Europa con l’inversione di tendenza dell’unità europea e con una politica di rinazionalizzazione dei bilanci, che peraltro vengono controllati affinché non splafonino tramite i micidiali meccanismi messi in atto dal fiscal compact, mentre nel resto del mondo si accostano politiche espansive con l’apertura di schermaglie o addirittura guerre monetarie.
La Germania si rinchiude sempre più nel suo fortino. Anche la scelta di reimportare nei forzieri tedeschi l’oro sparso per il mondo (pari a circa il 70% delle sue ricchezze aurifere) rientra in questa logica. Come avrebbe detto Keynes i tedeschi si aggrappano alla “barbara reliquia”. Non sono i soli, visto che la Cina, malgrado sia il primo produttore mondiale di oro, ne sta acquistando a tonnellate sul mercato internazionale. Scendendo vorticosamente dal grande al piccolo ben si comprende come i negozietti “compro oro” stiano spuntando come funghi nelle città italiane.
In linea di principio non vi è altra soluzione per uscire da una crisi così lunga e profonda, se non costruendo una nuova governance democratica a livello mondiale, in particolare una nuova Bretton Woods che governi il tramonto auspicabile del dollaro come moneta universale verso una nuova moneta di cambio – secondo il sogno keynesiano – o una sorta di paniere che garantisca il multipolarismo monetario.
Il vaso di coccio è l’Europa. Le scelte dell’altro giorno del Consiglio europeo lo dimostrano. Il parlamento europeo ha su questa materia diritto di veto e il suo Presidente Schulz si è dichiarato contrario. Ma è difficile pensare che ci sia a breve una inversione di tendenza. Questa può derivare solo da una presa di coscienza a livello popolare e delle istituzioni della società civile della centralità e della gravità del problema. Ma se guardiamo alla campagna elettorale di casa nostra, ove di queste tematiche non si è parlato nemmeno per sbaglio, non c’è da essere ottimisti. Non c’è che sperare nel prossimo Forum sociale mondiale previsto per fine marzo a Tunisi, luogo che nel frattempo è diventato il banco di prova di sopravvivenza delle primavere arabe.
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