la «buona volontà» del sociologo
riluttante
L.
Gallino, La lotta di classe dopo la lotta
di classe, Laterza, Roma-Bari 2012
Note critiche a cura di Deborah Ardilli
e Gabriele Donato
«Attese un poco sul viale,
quindi rientrò in casa a correggere le sue bozze e a escogitare qualche
espediente per nascondere la verità»: con questa istantaea scattata sulla
borghesia inglese dell’età edoardiana si conclude l’opera postuma di E. M. Forster,
ultimata nel 1914 e pubblicata soltanto nel 1971. Che l’«anno migliore» a cui
il romanzo è dedicato sia ancora di là da venire, almeno per quanto riguarda la
disponibilità dei ceti medi riflessivi a fare i conti con gli aspetti più
scandalosi del reale, è dimostrato dal fatto che la frase in questione potrebbe
valere come epigrafe per almeno tre quarti della cultura accademica contemporanea:
la quale sembra non volersi fare carico di altro mandato oltre a quello di far
dimenticare l’esistenza di una società divisa, «in ultima istanza», in
sfruttati e sfruttatori.
Escogitare espedienti per nascondere la verità comporta
programmare nel tempo gli effetti di un discorso e, quindi, prevederne la circolazione
sociale: obiettivo centrato, fino a prova contraria, dalla selettività inespressiva
e livellante (soggetti e interessi) del vocabolario «tecnico» che entra in
funzione non appena si tratta di giustificare «responsabilmente» la necessità politica
di sacrifici umani.
A questa caduta verticale
di problematicità tenta di reagire quella parte della cultura accademica che, a
differenza della frazione egemone, la verità vorrebbe dirla tutta intera e
senza sconti: ma con discrezione professionale, senza compromettersi, mantenendosi
a rigorosa distanza di sicurezza dal proprio oggetto; esponendosi, dunque, alla
paralisi dovuta alla coabitazione forzata di queste spinte contraddittorie.
Rientra in quest’ultima categoria l’ultimo lavoro di Luciano Gallino, il libro-intervista intitolato La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intransigente nella confutazione del repertorio argomentativo sponsorizzato dall’ideologia avversaria per dimostrare la compiuta dissoluzione delle classi sociali, prudente al limite della contorsione al momento delle conclusioni pratiche, il ragionamento svolto dal sociologo piemontese configura, al tempo stesso, un caso meritorio di «buona volontà» e un esempio particolarmente istruttivo della coazione a «girare a vuoto» intorno a soluzioni montate nel passato e riproposte fuori tempo massimo. Vale perciò la pena ripercorrerne i passaggi principali accantonando l’enfasi promozionale con cui il libro è stato accolto a sinistra, e provando semmai a disporne i dati sugli assi divergenti che affiorano nel corso dell’argomentazione: la linea della resistenza agli assunti dell’ideologia neo-liberista e la linea della riluttanza alla coordinazione della critica ai livelli reali del conflitto.
Sulla linea della resistenza al pensiero unico, Gallino procede scortato da un’evidenza empirica documentata in cifre e statistiche, che lo induce a restituire centralità a una categoria — quella di lotta di classe, appunto — alla luce della quale interpretare misure abitualmente presentate sotto le insegne neutrali dell’efficienza tecnica e della razionalizzazione giuridica. Parole-civetta di cui il discorso corrente è infestato, come «competitività», «austerità», «flessibilità», riacquistano così un grado di leggibilità sociale supportato da una risposta non reticente alla domanda circa gli strumenti perfezionati dalla borghesia per assicurarsi posizioni di vantaggio competitivo rispetto all’avversario. «La lotta di classe», afferma Gallino, si svolge «anzitutto per mezzo di leggi, confezionate da governi e parlamenti, che sono intese, al di là delle apparenze, a rafforzare la posizione e a difendere gli interessi della classe dominante, e a contrastare le possibilità che la classe operaia e la classe media affermino i propri».
Senonché — e precisamente a
quest’altezza comincia a emergere la linea della riluttanza — un’affermazione
tanto nitida della politicità intrinseca della legge, sembra provocare nel
sociologo, per contraccolpo, un moto improvviso di pentimento. Non si spiegano
altrimenti il rifiuto di chiamare per nome il luogo privilegiato di
unificazione politica delle borghesie nazionali e l’accentuazione esclusiva,
che direttamente ne scaturisce, del carattere globalizzato dei gruppi
dominanti. «Nell’insieme» osserva Gallino «detta classe ha come elemento aggregante,
come fattore di trasformazione della classe in
sé nella classe per sé, un
processo che nel suo caso non è solo avviato, ma fortemente consolidato. È un processo che si avvale di una
quantità di strumenti diretti e indiretti per condurre una efficace lotta di
classe contro coloro che in qualche modo riuscirono a ottenere un miglioramento
delle proprie condizioni nei primi trent’anni del secondo dopo guerra».
Fra gli strumenti consolidati di soggettivazione politica del gruppo dominante, il sociologo annovera la circolazione dei top manager da un’impresa all’altra, i loro convegni, i sistemi di comunicazione, le svariate modalità di collusione informale tra ceti politici ed élites economico-finanziarie. Brilla per assenza, in questa lista, ogni esplicito riferimento agli apparati dello Stato. Si ha quasi l’impressione, scorrendo le pagine dedicate alla penetrazione del pensiero unico nelle differenti articolazioni della relazione sociale, che le dissertazioni lette dagli economisti ai convegni di Davos possano tradursi in atto indipendentemente dall’insediamento istituzionale di una pluralità di partiti pronti ad approvare con una voce sola, poniamo, la costituzionalizzazione del pareggio in bilancio.
Si direbbe insomma che, dopo
aver allineato una quantità di elementi in grado di risvegliare nel lettore la
tentazione di misurarsi con la definizione marxiana dello Stato come «comitato
d’affari della borghesia», Gallino intenda suggerirgli di fermarsi e fare retromarcia.
Perché? Perché soltanto a condizione di fare un passo indietro è possibile
teorizzare la necessità di una «ripresa del movimento dialettico tra classi che
riconoscono di essere divise da un conflitto strutturale ineludibile, e
tuttavia sono disposte ad ammettere che un compromesso mobile, attuato nel
quadro di una convivenza realmente democratica, per entrambe le parti
preferibile ad uno scontro frontale».
Devoto all’Idea, il
sociologo non può fare altro che rammaricarsi a causa della sua difettosa
realizzazione, e unire al «canone della riluttanza» il rimpianto per un
intangibile oggetto di passione. Difficile stabilire, infatti, in che cosa
potrebbe concretamente consistere il «compromesso mobile» che dovrebbe infiammare
i cuori di quel nuovo proletariato globale politicamente sottorappresentato a
cui Gallino indica, come obiettivo prioritario di lotta, una «incisiva» riforma
del sistema finanziario. Più facile, invece, rintracciare le motivazioni che
spingono l’autore a orientare la proposta tenendo lo sguardo fisso su un
passato che, si accetti o meno di definirlo «gloriosamente» segnato dai
successi della socialdemocrazia e dalla presenza di settori «illuminati» in
seno al capitalismo industriale, presenta in ogni caso l’ineliminabile inconveniente
di essere trascorso.
La (non dichiarata) nostalgia per la stagione olivettiana gioca qui, in tutta evidenza, un ruolo di rilievo: creando un fantastico alibi intellettuale per «progredire a ritroso» e tentare la strada della ricomposizione di equilibri spezzati. È questa bruciante nostalgia a proiettarsi, per esempio, sulla descrizione idilliaca della grande industria tedesca e del suo sistema di cogestione sindacale, senza che ci si chieda se i successi vantati dalla cancelliera Merkel abbiano qualcosa a che fare con le mani che i capitalisti tedeschi hanno messo su tanta parte dell’Europa orientale. Ed è sempre la nostalgia per un modello ideale di «impresa responsabile», costretta dal concerto degli attori istituzionali ad anteporre gli interessi dei dipendenti alle aspettative di remunerazione degli azionisti, a dettare un’analisi della finanziariazzione dell’economia avara di spiegazioni in merito alle ragioni fisiologiche della carenza di investimenti produttivi, e propensa piuttosto a enfatizzarne la dimensione patologica di squilibrio, «per certi aspetti incomprensibile e smodato», tra gli attivi finanziari e il Pil del mondo. Su questo modello, evocato a titolo di cellula socio-economica non ancora intaccata dalla perversione speculativa, è chiamato a innestarsi il rilancio dello stato sociale europeo, da perseguire attraverso i vantaggi che potrebbero derivare da un consolidamento del ruolo della Bce. Gallino è in effetti fra quanti, a sinistra, si chiedono per quale motivo la Bce non possa operare con stessa la forza della Fed, assumendo funzioni di «prestatore in ultima istanza» che la renderebbero capace di coordinare le politiche dei diversi paesi, garantendo occupazione e livelli accettabili di protezione sociale. Ma la domanda da porre, al lume dell’esperienza, dovrebbe piuttosto essere un’altra: e cioè per quale ragione la maggiore libertà di manovra della Fed rispetto all’omologo europeo non abbia risparmiato agli Stati Uniti la crisi di cui, pure, il libro descrive accuratamente gli effetti.
Si intende bene che, sulla
scorta di idealità normative riconquistate a colpi di rimozione e di
interrogativi inevasi, il presente non possa che apparire disperatamente povero
di risorse in grado di innescare un’inversione della linea di tendenza. E,
certamente, avrebbe poco senso minimizzare gli effetti devastanti della
«rivoluzione conservatrice» sui livelli di coesione politica e sindacale precedentemente
raggiunti dalle classi lavoratrici. Ma è esattamente questo il motivo che
dovrebbe suggerire al lettore l’opportunità di imboccare con spregiudicatezza la
direzione che l’autore non può percorrere: cominciando a dissociare una volta
per tutte il percorso di emancipazione delle classi subalterne — intese come
gruppi legati a una «comunità di destino» implicante appartenenze non elettive,
ma pure un potenziale di mobilitazione capace di correggere la sorte — dalla
fase, inesorabilmente calante, della socialdemocrazia.
Le vertenze vittoriose portate avanti in questi mesi dai lavoratori del polo logistico organizzati dal sindacato extra-confederale segnalano che qualcuno, su questo sentiero, ci sta già precedendo. Di questa nuova composizione di classe, in grado di esercitare un peso e infliggere colpi alla controparte proprio in virtù della centralità strategica assunta nella catena post-fordista della valorizzazione, la sonda lanciata da Gallino nel mondo del lavoro subalterno pare appena grado di registrare l’esistenza: tanto più che agli addetti alla circolazione delle merci è negata, nelle battute iniziali del libro, l’appartenenza in senso stretto ai ranghi del proletariato (riservata ai lavoratori dipendenti direttamente impegnati nella produzione). Ironia della sorte: l’intellettuale riformista si rivela il meno disponibile fra noi a prendere sul serio il «dopo» che segna il confine tra due epoche nella storia della lotta di classe. Come si dice in questi casi? «Una risata vi seppellirà»…
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