Cercherò
di essere fedele, qualche volta esplicitamente qualche volta
implicitamente, alla frase scritta a video e quindi cercherò di essere
un po’ ribelle nei confronti di chi mi ha preceduto, d’altronde appunto,
come è stato detto, ho studiato giurisprudenza, mi sono laureato con
Claudio Napoleoni, ho lavorato con Augusto Graziani, ho conosciuto Hyman
Minsky: in qualche misura mi sento “allievo” ma ho sempre avuto un
atteggiamento critico, quindi sono assolutamente certo che qualsiasi
cosa io dica anche a loro favore sarebbe vista con un attimo di
scetticismo.
Vorrei iniziare da una citazione, inconsueta forse in questo contesto, di un libro che quando ero giovane andava molto di moda: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. A un certo punto, ci si riferisce lì al pensiero occidentale ma io ne farei un discorso più generale, si dice che siamo abituati a ragionare in termini dualistici, sì e no, in realtà esiste una terza possibilità logica; questa terza possibilità logica in giapponese si esprime con mu, che vuol dire né sì né no, chiede di riformulare la domanda perché la verità della risposta sfugge al sì e al no. Io credo che questo sia un insegnamento su due questioni che abbiamo davanti. Una è la crisi finanziaria, crisi finanziaria, crisi reale: credo che sia entrambe e non sono molto convinto dal tirarla solo da una parte o solo dall’altra. Qui credo di essere d’accordo con Ciocca ma forse con qualche disaccordo sul suo accento a tirarla più dal lato reale. L’altra risposta mu credo debba essere data anche rispetto alla discussione che, soprattutto in ambito italiano – forse perché lo conosco di più –, si dà sulla questione della crisi europea: dentro o fuori l’euro; credo che né il sì né il no anche qui abbiano molto senso.
La crisi che abbiamo dietro di noi – quella che al momento è stata chiamata grande recessione, adesso Krugman la chiama la depressione minore – è secondo me con tutta evidenza una crisi che, partita dalle dinamiche finanziarie, è divenuta reale; sicuramente aveva delle cause reali in squilibri reali, al tempo stesso credo che non sia facile incolpare la finanza rispetto alla crisi reale senza al contempo dire che proprio la finanza perversa è stata funzionale agli aspetti dinamici del capitalismo dei precedenti trent’anni. La crisi del 2007/2008 è appunto partita come crisi finanziaria, la crisi nel mercato dei subprime. Si era cominciato a riutilizzare il termine Minsky moment prima ancora della crisi dei subprime, tra l’altro non da parte degli economisti ma degli esperti di finanza, dei “bloggisti” finanziari. È stata subito una crisi globale dal punto di vista finanziario, ha colpito forse da principio di più l’Europa, persino le Landesbank tedesche, mentre dal punto di vista reale all’inizio ha colpito prevalentemente gli Stati Uniti. Ricordo che per circa un anno, nelle parti anche più insospettate, si è favoleggiato di uno sganciamento dell’Europa dagli Stati Uniti perché allora le economie, per esempio quella italiana e quella tedesca, andavano molto bene: se non ricordo male la Banca centrale europea aumentò il tasso di interesse, che era a livelli significativi del 4%, ancora nell’estate del 2008.
C’è poi stata la crisi di Lehman Brothers nel settembre del 2008 e ci si è resi conto che la crisi reale era già partita ovunque. Ci sono stati sei mesi di terrore sostanzialmente tra il settembre 2008 e il marzo 2009, allora forse il neoliberismo poteva essere morto e io credo che nella forma in cui l’abbiamo conosciuto è davvero morto con questa crisi. Purtroppo i sei mesi di terrore sono stati troppo pochi, si sono visti germogli di ripresa, il ritorno più o meno mascherato a Keynes come sostegno alla finanza e intervento discrezionale, tranne forse che in Italia, persino in Europa – non credete a quello che dicono i Tedeschi, guardate a quello che fanno: la ripresa tedesca è stata dovuta anche a interventi intelligenti pure di tipo fiscale pure in disavanzo.
Dopo questo parziale ritorno al Keynes monetario e fiscale, quella che abbiamo vissuto è stata sostanzialmente una reazione, che è stata accentuata ovviamente dall’esplodere del debito sovrano in Europa – che è un debito privato mascherato –, una crisi che non nasce dall’euro, non nasce direttamente dal disegno istituzionale dell’euro ma ovviamente è stata di molto aggravata, così che stiamo vivendo un secondo salto nella recessione e il rischio di una grande depressione.
Questa crisi è stata vista come il ritorno di tante persone: il ritorno di Marx, il ritorno di Keynes, il ritorno di Minsky. Nella forma in cui questi ritorni vengono proclamati non mi trovo d’accordo. Marx e la caduta del saggio del profitto: dal 1980 quello che vedo è stato un enorme recupero del saggio del profitto. La crisi come problema di domanda effettiva, qualcuno dice crisi di un mondo dei bassi salari: anche questo non lo trovo convincente, in un certo senso abbiamo avuto non una crisi sottoconsumistica ma una crisi di sovraconsumo. E quella tra finanza ed economia reale nel neoliberismo è stata una relazione che in qualche modo è riuscita per molto tempo a produrre al suo interno domanda effettiva, con l’invenzione del consumo a debito come nuova variabile autonoma regolata in qualche misura dalla stessa politica monetaria. In questo senso credo abbia di nuovo ragione Ciocca, anche se pure qui do la mia interpretazione: il banchiere centrale non può essere completamente mainstream. Insegno economia monetaria e in realtà la politica monetaria effettiva si è sganciata sempre di più da tutte le ortodossie più o meno moderate e in qualche modo ora i manuali registrano una politica monetaria diversa da quella che De Cecco (mi spiace che non sia qui) ha chiamato quella del banchiere della banca centrale come finanziatore di prima istanza.
Su Minsky sono d’accordo con quello che ha detto Kregel: sostanzialmente parliamo di momento Minsky, però se volessimo leggere rigidamente questa crisi secondo le categorie di Minsky avremmo delle difficoltà, in qualche modo sono cambiate troppe cose nel capitalismo perché il modello di Minsky si applichi rigidamente. Al tempo stesso credo che noi non si sia in grado di analizzare questa crisi se non partendo da Minsky, cioè dobbiamo fare un po’ quello che Minsky stesso avrebbe fatto: cercare di analizzare una realtà in evoluzione modificando le categorie. In questo senso credo che Minsky sia nella tradizione di Marx, di Keynes e di Schumpeter, cioè un’attenzione al processo di creazione di denaro a mezzo di denaro che in qualche modo non separa la realtà strettamente finanziaria dalla realtà reale.
Se cercassimo di analizzare – e qui vengo più strettamente al tema degli insegnamenti di Minsky – l’economia attraverso le sue categorie, diremmo che Minsky ci dà un insegnamento fondamentale, che è quello di analizzare l’economia attraverso i bilanci finanziari, gli agenti come agenti che scambiano moneta oggi con moneta domani, e questo vale per qualsiasi tipo di agente.
Il secondo insegnamento è che l’economia muta nel tempo – e qui sono d’accordo con Kregel e ho un parziale dissenso con Roncaglia. Minsky riteneva, quando si poneva la domanda Can “It” happen again?, che “It”, la Grande crisi degli anni Trenta, fosse ormai alle nostre spalle; non che l’instabilità finanziaria fosse superata ma che in qualche modo, se non siamo completamente diventati stupidi, sappiamo, attraverso una realtà di big government e di big bank, come tamponare quelle contraddizioni, che però si presentano in altra forma. È interessante analizzare l’interpretazione di Minsky della stagflazione e quindi sarebbe interessante capire quanto la sua analisi di allora valga in una fase diversa.
Il terzo insegnamento di Minsky è quello che con più difficoltà forse riusciamo a ricostruire perché è successivo all’ultimo suo libro, del 1986 se ricordo bene: Stabilizing an Unstable Economy. Minsky è l’autore – qui sono totalmente d’accordo con Alessandro Roncaglia – che capisce la trasformazione del capitalismo in money manager capitalism. Questo è cruciale perché se ci fermiamo alle interpretazioni precedenti attacchiamo troppo strettamente Minsky a una formulazione rigida e meccanica della cosiddetta ipotesi di instabilità finanziaria, quella secondo la quale le crisi capitalistiche di instabilità finanziaria sono dovute al crescente indebitamento delle imprese non finanziarie. È evidente che invece l’indebitamento rilevante dei decenni più recenti è stato quello interno alla finanza e quello delle famiglie, non quello delle imprese finanziarie. Anzi, un altro elemento nuovo in qualche modo su cui riflettere è che esattamente i meccanismi fortemente squilibranti della finanza sono quelli che hanno avuto, contrariamente ad una lettura “meccanica” di Minsky, un effetto stabilizzante sul sistema economico, hanno portato all’aumento dell’equity quindi in un certo senso ad un apparente movimento delle imprese verso una finanza sempre più sicura e hanno stabilizzato anche i cosiddetti global unbalance, gli squilibri globali, attraverso i movimenti di capitale, pensate solo al ruolo del carry trade. Questo significa, secondo me, che dobbiamo leggere Minsky inserendo l’ipotesi di instabilità finanziaria nella sua visione stadiale del capitalismo, cioè il fatto che il capitalismo viva delle grandi fasi che sono differenti l’una dall’altra e in cui le contraddizioni si modificano, non si presentano mai identiche. Il money manager capitalism è esattamente questa cosa.
A questo punto ci possiamo muovere sul terreno più intrigante e più interessante degli insegnamenti di politica economica. Anche negli ambienti eterodossi, anche e soprattutto in quelli nostrani, la tendenza è di muoversi verso un ritorno a Keynes – comprensibile –, cioè la banca come prestatore di ultima istanza, possibilmente anche una banca centrale che torni ad essere prestatrice dei governi senza troppe condizionalità, uno Stato che sia sufficientemente grande da avere degli stabilizzatori automatici ma anche che, in casi di crisi, tanto più di grave crisi, intervenga con la spesa in disavanzo. La cosa interessante è che Minsky è un critico di questo keynesismo dai tempi esattamente non solo della stagflazione degli anni Settanta ma addirittura dagli anni Sessanta, questo keynesismo è insufficiente sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista della politica economica.
In realtà, se andiamo a vedere quello che scrive, Minsky propone una socializzazione dell’investimento, una socializzazione dell’occupazione, una socializzazione della banca e della finanza. Questo è in qualche misura esplicito in tutte le sue opere. Qui faccio riferimento al primo libro, John Maynard Keynes del 1975 – che credo sia stato scritto a Cambridge all’inizio degli anni Settanta – e i due capitoli finali, che normalmente non vengono letti perché non sono strettamente analitici, sono molto interessanti perché Minsky critica Keynes, ritiene che la formulazione di Keynes della socializzazione dell’investimento sia del tutto insufficiente, addirittura sostiene che ci si debba muovere verso una forma di socialismo che controlli – è letterale – i towering heads (in italiano potrei tradurlo con: i centri di comando) e si muova verso forme di communal consumption. Parla anche di un’economia trainata dal consumo, ma nella sua filosofia non credo che si tratti tanto di un puro e semplice aumento della propensione al consumo trainato dal reddito monetario ma sia semmai una diversa forma di intervento statale.
Minsky è durissimo con l’era keynesiana, una strategia di alti profitti e alti investimenti è fortemente destabilizzante, ma va molto oltre, parla di distruzione dell’equilibrio sociale e ambientale, sostiene che si debba tornare alla casella numero uno, cioè al 1933: cosa si produce e per chi. Minsky quando parla di socializzazione degli investimenti parla di un settore pubblico, di un governo che interviene non solo sul livello ma anche sulla composizione della produzione. C’è un articolo di qualche anno prima di Joan Robinson del 1972 (che io lessi nel primo corso 1973‘74) che si intitola La seconda crisi della teoria economica, che mi sembra si muova su linee analoghe. Questo ovviamente si accompagna al discorso sulla socializzazione dell’occupazione, che nella forma di Minsky ha a che vedere con l’employer of last resort, con lo Stato come occupatore di ultima istanza su un salario minimo.
Personalmente credo che queste suggestioni di Minsky vadano però adattate al contesto europeo e vadano adattate anche ai tempi. Credo che una via promettente sulla socializzazione dell’occupazione sia da questo punto di vista quella liberalsocialista, non socialliberista, l’idea liberalsocialista che ho in mente è quella di Ernesto Rossi, è quella di Paolo Sylos Labini, è quella di un esercito del lavoro, mi pare fosse il modo con cui questa cosa veniva detta. Dentro questo discorso c’è evidentemente una critica alle forme e alla composizione della spesa pubblica, l’idea è che lo Stato debba produrre qualcosa, l’idea è che un welfare fatto solo di trasferimenti monetari sia negativo. Ho qualche difficoltà ad aderire a un’impostazione che questa cosa la faccia partire da una riduzione della spesa corrente, io credo che la riduzione della quota della spesa corrente vada prodotta in una strategia espansiva.
Siamo in una situazione nella quale dai disavanzi e dal debito non si scappa, tanto meno con politiche monetariste o di finanza sana, semplicemente producono dei cattivi deficit. Ben diversa sarebbe una prospettiva, che a me sembra compatibile con Minsky, della produzione di buoni disavanzi, esattamente i disavanzi che intervengono sulla composizione della produzione con investimenti pubblici e appunto communal consumption. Tutto ciò ovviamente a Minsky viene perché la sua formazione è quella del New Deal che, a mio parere, non è stato keynesiano; la sfida di Minsky è di proporre un rinnovato New Deal che sia invece keynesiano.
Due parole sul contesto europeo. Credo che siano molto interessanti i discorsi recenti di Mario Draghi sia nell’aspetto positivo sia nei limiti di prospettiva che non possono non mostrare. L’aspetto positivo: sono molto in disaccordo con una lettura banalizzante di Draghi come una persona che ha semplicemente abbandonato, buttato nel cestino il welfare e il modello sociale europeo, perché quello di Draghi mi sembra essere un discorso che dice sostanzialmente che il capitalismo si è modificato e nel nuovo capitalismo il vecchio modello sociale europeo, certe tutele sono obsolete, bisogna inventarne di altre, di sostenibili. La sostenibilità è legata a riforme nel mercato del lavoro e riforme della previdenza, che però di per sé non bastano perché possono aprire a situazioni di sfruttamento di potere di mercato. Occorre dunque che queste riforme si accompagnino ad altre che aprano alla concorrenza e a investimenti pubblici. Quindi sostanzialmente una posizione che io chiamo socialliberista, cioè un’apertura alla concorrenza nei mercati dei beni e dei servizi essenziali. In questo rompe con il mio liberismo perché, per fare dei nomi, Bush e Berlusconi certamente non hanno combattuto il monopolio.
Sfortunatamente quando si va sul terreno di una politica di investimenti pubblici vedo un certo silenzio. Il punto è che mi pare che da parte di Draghi le trasformazioni del capitalismo siano prese come una variabile completamente esogena. All’interno del quadro di vincoli, credo che molto di quello che viene detto e viene fatto sia sensato, anzi vedo nell’ultima decisione dell’inizio di settembre due elementi nuovi di grande significatività. Repubblica pubblica oggi un articolo molto bello di De Cecco sulla natura illimitata degli interventi della Banca centrale europea sul mercato secondario dei titoli e il fatto che si sia proceduto anche con un esplicito dissenso della Germania. A questo si accompagna la condizionalità rispetto ai Paesi che devono chiedere, e in questo secondo me non c’è solo il fatto di fare accettare il tutto alla Germania, c’è anche il fatto che stiamo parlando di una crisi capitalistica e di un’uscita dalla crisi capitalistica, una crisi che sta procedendo con l’approfondimento dell’estensione alla finanza di aree della riproduzione sociale. C’è un attacco al lavoro, al lavoro privato ma al lavoro nel settore pubblico innanzitutto, c’è un attacco alla condizione della donna che verrà colpita anche quando l’occupazione aumenterà, dei nuovi settori in cui l’occupazione verrà trovata, c’è quello che autori di ispirazione marxista chiamano le nuove enclosure.
Questa è la crisi capitalistica e la necessità ormai di un’uscita dalla crisi capitalistica con la politica economica, non senza la politica economica. In questo, a me sembra, l’insegnamento di Minsky è netto, per lo meno nella tradizione di Keynes, se non di Marx. La tendenza alla instabilità è necessaria, qualsiasi illusione che la semplice regolamentazione, che è necessaria, sia sufficiente è appunto inaccettabile perché l’instabilità si riproduce in forme sempre diverse. Tra l’altro non ci si può sognare di cancellare l’instabilità cancellando la speculazione, perché qui Marx e Minsky la pensano esattamente allo stesso modo: ciò che di buono viene dal capitalismo viene dalla fase speculativa. D’altra parte la fase speculativa non può che tendere a degenerare. Allora cosa possiamo fare? Possiamo appunto solo sì attutire gli effetti ma a condizione di cambiare il modello di capitalismo radicalmente. Quindi il risultato di una decente riforma viene solo dall’affrontare direttamente e criticamente il capitalismo con un diverso modo di pensare e di agire. Questo è fuori dall’orizzonte delle politiche economiche attuali ma anche ahimè dei banchieri centrali attuali.
Chiudo osservando che purtroppo lo spirito di Minsky, e a me sembra anche lo spirito di Keynes evidenziato dalla citazione sul video, sarà sempre più difficile da ritrovare nella teoria economica, perché i processi di valutazione e selezione basati puramente e semplicemente sugli indicatori e sulle valutazioni quantitative si stanno diffondendo a macchia d’olio e diventano un modo diretto e immediato di disciplinamento della ricerca, anche dei giovani ricercatori. Credo che di questo dovremmo cominciare a preoccuparci in modo serio.
Trascrizione a cura della redazione non rivista dal relatore
Vorrei iniziare da una citazione, inconsueta forse in questo contesto, di un libro che quando ero giovane andava molto di moda: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. A un certo punto, ci si riferisce lì al pensiero occidentale ma io ne farei un discorso più generale, si dice che siamo abituati a ragionare in termini dualistici, sì e no, in realtà esiste una terza possibilità logica; questa terza possibilità logica in giapponese si esprime con mu, che vuol dire né sì né no, chiede di riformulare la domanda perché la verità della risposta sfugge al sì e al no. Io credo che questo sia un insegnamento su due questioni che abbiamo davanti. Una è la crisi finanziaria, crisi finanziaria, crisi reale: credo che sia entrambe e non sono molto convinto dal tirarla solo da una parte o solo dall’altra. Qui credo di essere d’accordo con Ciocca ma forse con qualche disaccordo sul suo accento a tirarla più dal lato reale. L’altra risposta mu credo debba essere data anche rispetto alla discussione che, soprattutto in ambito italiano – forse perché lo conosco di più –, si dà sulla questione della crisi europea: dentro o fuori l’euro; credo che né il sì né il no anche qui abbiano molto senso.
La crisi che abbiamo dietro di noi – quella che al momento è stata chiamata grande recessione, adesso Krugman la chiama la depressione minore – è secondo me con tutta evidenza una crisi che, partita dalle dinamiche finanziarie, è divenuta reale; sicuramente aveva delle cause reali in squilibri reali, al tempo stesso credo che non sia facile incolpare la finanza rispetto alla crisi reale senza al contempo dire che proprio la finanza perversa è stata funzionale agli aspetti dinamici del capitalismo dei precedenti trent’anni. La crisi del 2007/2008 è appunto partita come crisi finanziaria, la crisi nel mercato dei subprime. Si era cominciato a riutilizzare il termine Minsky moment prima ancora della crisi dei subprime, tra l’altro non da parte degli economisti ma degli esperti di finanza, dei “bloggisti” finanziari. È stata subito una crisi globale dal punto di vista finanziario, ha colpito forse da principio di più l’Europa, persino le Landesbank tedesche, mentre dal punto di vista reale all’inizio ha colpito prevalentemente gli Stati Uniti. Ricordo che per circa un anno, nelle parti anche più insospettate, si è favoleggiato di uno sganciamento dell’Europa dagli Stati Uniti perché allora le economie, per esempio quella italiana e quella tedesca, andavano molto bene: se non ricordo male la Banca centrale europea aumentò il tasso di interesse, che era a livelli significativi del 4%, ancora nell’estate del 2008.
C’è poi stata la crisi di Lehman Brothers nel settembre del 2008 e ci si è resi conto che la crisi reale era già partita ovunque. Ci sono stati sei mesi di terrore sostanzialmente tra il settembre 2008 e il marzo 2009, allora forse il neoliberismo poteva essere morto e io credo che nella forma in cui l’abbiamo conosciuto è davvero morto con questa crisi. Purtroppo i sei mesi di terrore sono stati troppo pochi, si sono visti germogli di ripresa, il ritorno più o meno mascherato a Keynes come sostegno alla finanza e intervento discrezionale, tranne forse che in Italia, persino in Europa – non credete a quello che dicono i Tedeschi, guardate a quello che fanno: la ripresa tedesca è stata dovuta anche a interventi intelligenti pure di tipo fiscale pure in disavanzo.
Dopo questo parziale ritorno al Keynes monetario e fiscale, quella che abbiamo vissuto è stata sostanzialmente una reazione, che è stata accentuata ovviamente dall’esplodere del debito sovrano in Europa – che è un debito privato mascherato –, una crisi che non nasce dall’euro, non nasce direttamente dal disegno istituzionale dell’euro ma ovviamente è stata di molto aggravata, così che stiamo vivendo un secondo salto nella recessione e il rischio di una grande depressione.
Questa crisi è stata vista come il ritorno di tante persone: il ritorno di Marx, il ritorno di Keynes, il ritorno di Minsky. Nella forma in cui questi ritorni vengono proclamati non mi trovo d’accordo. Marx e la caduta del saggio del profitto: dal 1980 quello che vedo è stato un enorme recupero del saggio del profitto. La crisi come problema di domanda effettiva, qualcuno dice crisi di un mondo dei bassi salari: anche questo non lo trovo convincente, in un certo senso abbiamo avuto non una crisi sottoconsumistica ma una crisi di sovraconsumo. E quella tra finanza ed economia reale nel neoliberismo è stata una relazione che in qualche modo è riuscita per molto tempo a produrre al suo interno domanda effettiva, con l’invenzione del consumo a debito come nuova variabile autonoma regolata in qualche misura dalla stessa politica monetaria. In questo senso credo abbia di nuovo ragione Ciocca, anche se pure qui do la mia interpretazione: il banchiere centrale non può essere completamente mainstream. Insegno economia monetaria e in realtà la politica monetaria effettiva si è sganciata sempre di più da tutte le ortodossie più o meno moderate e in qualche modo ora i manuali registrano una politica monetaria diversa da quella che De Cecco (mi spiace che non sia qui) ha chiamato quella del banchiere della banca centrale come finanziatore di prima istanza.
Su Minsky sono d’accordo con quello che ha detto Kregel: sostanzialmente parliamo di momento Minsky, però se volessimo leggere rigidamente questa crisi secondo le categorie di Minsky avremmo delle difficoltà, in qualche modo sono cambiate troppe cose nel capitalismo perché il modello di Minsky si applichi rigidamente. Al tempo stesso credo che noi non si sia in grado di analizzare questa crisi se non partendo da Minsky, cioè dobbiamo fare un po’ quello che Minsky stesso avrebbe fatto: cercare di analizzare una realtà in evoluzione modificando le categorie. In questo senso credo che Minsky sia nella tradizione di Marx, di Keynes e di Schumpeter, cioè un’attenzione al processo di creazione di denaro a mezzo di denaro che in qualche modo non separa la realtà strettamente finanziaria dalla realtà reale.
Se cercassimo di analizzare – e qui vengo più strettamente al tema degli insegnamenti di Minsky – l’economia attraverso le sue categorie, diremmo che Minsky ci dà un insegnamento fondamentale, che è quello di analizzare l’economia attraverso i bilanci finanziari, gli agenti come agenti che scambiano moneta oggi con moneta domani, e questo vale per qualsiasi tipo di agente.
Il secondo insegnamento è che l’economia muta nel tempo – e qui sono d’accordo con Kregel e ho un parziale dissenso con Roncaglia. Minsky riteneva, quando si poneva la domanda Can “It” happen again?, che “It”, la Grande crisi degli anni Trenta, fosse ormai alle nostre spalle; non che l’instabilità finanziaria fosse superata ma che in qualche modo, se non siamo completamente diventati stupidi, sappiamo, attraverso una realtà di big government e di big bank, come tamponare quelle contraddizioni, che però si presentano in altra forma. È interessante analizzare l’interpretazione di Minsky della stagflazione e quindi sarebbe interessante capire quanto la sua analisi di allora valga in una fase diversa.
Il terzo insegnamento di Minsky è quello che con più difficoltà forse riusciamo a ricostruire perché è successivo all’ultimo suo libro, del 1986 se ricordo bene: Stabilizing an Unstable Economy. Minsky è l’autore – qui sono totalmente d’accordo con Alessandro Roncaglia – che capisce la trasformazione del capitalismo in money manager capitalism. Questo è cruciale perché se ci fermiamo alle interpretazioni precedenti attacchiamo troppo strettamente Minsky a una formulazione rigida e meccanica della cosiddetta ipotesi di instabilità finanziaria, quella secondo la quale le crisi capitalistiche di instabilità finanziaria sono dovute al crescente indebitamento delle imprese non finanziarie. È evidente che invece l’indebitamento rilevante dei decenni più recenti è stato quello interno alla finanza e quello delle famiglie, non quello delle imprese finanziarie. Anzi, un altro elemento nuovo in qualche modo su cui riflettere è che esattamente i meccanismi fortemente squilibranti della finanza sono quelli che hanno avuto, contrariamente ad una lettura “meccanica” di Minsky, un effetto stabilizzante sul sistema economico, hanno portato all’aumento dell’equity quindi in un certo senso ad un apparente movimento delle imprese verso una finanza sempre più sicura e hanno stabilizzato anche i cosiddetti global unbalance, gli squilibri globali, attraverso i movimenti di capitale, pensate solo al ruolo del carry trade. Questo significa, secondo me, che dobbiamo leggere Minsky inserendo l’ipotesi di instabilità finanziaria nella sua visione stadiale del capitalismo, cioè il fatto che il capitalismo viva delle grandi fasi che sono differenti l’una dall’altra e in cui le contraddizioni si modificano, non si presentano mai identiche. Il money manager capitalism è esattamente questa cosa.
A questo punto ci possiamo muovere sul terreno più intrigante e più interessante degli insegnamenti di politica economica. Anche negli ambienti eterodossi, anche e soprattutto in quelli nostrani, la tendenza è di muoversi verso un ritorno a Keynes – comprensibile –, cioè la banca come prestatore di ultima istanza, possibilmente anche una banca centrale che torni ad essere prestatrice dei governi senza troppe condizionalità, uno Stato che sia sufficientemente grande da avere degli stabilizzatori automatici ma anche che, in casi di crisi, tanto più di grave crisi, intervenga con la spesa in disavanzo. La cosa interessante è che Minsky è un critico di questo keynesismo dai tempi esattamente non solo della stagflazione degli anni Settanta ma addirittura dagli anni Sessanta, questo keynesismo è insufficiente sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista della politica economica.
In realtà, se andiamo a vedere quello che scrive, Minsky propone una socializzazione dell’investimento, una socializzazione dell’occupazione, una socializzazione della banca e della finanza. Questo è in qualche misura esplicito in tutte le sue opere. Qui faccio riferimento al primo libro, John Maynard Keynes del 1975 – che credo sia stato scritto a Cambridge all’inizio degli anni Settanta – e i due capitoli finali, che normalmente non vengono letti perché non sono strettamente analitici, sono molto interessanti perché Minsky critica Keynes, ritiene che la formulazione di Keynes della socializzazione dell’investimento sia del tutto insufficiente, addirittura sostiene che ci si debba muovere verso una forma di socialismo che controlli – è letterale – i towering heads (in italiano potrei tradurlo con: i centri di comando) e si muova verso forme di communal consumption. Parla anche di un’economia trainata dal consumo, ma nella sua filosofia non credo che si tratti tanto di un puro e semplice aumento della propensione al consumo trainato dal reddito monetario ma sia semmai una diversa forma di intervento statale.
Minsky è durissimo con l’era keynesiana, una strategia di alti profitti e alti investimenti è fortemente destabilizzante, ma va molto oltre, parla di distruzione dell’equilibrio sociale e ambientale, sostiene che si debba tornare alla casella numero uno, cioè al 1933: cosa si produce e per chi. Minsky quando parla di socializzazione degli investimenti parla di un settore pubblico, di un governo che interviene non solo sul livello ma anche sulla composizione della produzione. C’è un articolo di qualche anno prima di Joan Robinson del 1972 (che io lessi nel primo corso 1973‘74) che si intitola La seconda crisi della teoria economica, che mi sembra si muova su linee analoghe. Questo ovviamente si accompagna al discorso sulla socializzazione dell’occupazione, che nella forma di Minsky ha a che vedere con l’employer of last resort, con lo Stato come occupatore di ultima istanza su un salario minimo.
Personalmente credo che queste suggestioni di Minsky vadano però adattate al contesto europeo e vadano adattate anche ai tempi. Credo che una via promettente sulla socializzazione dell’occupazione sia da questo punto di vista quella liberalsocialista, non socialliberista, l’idea liberalsocialista che ho in mente è quella di Ernesto Rossi, è quella di Paolo Sylos Labini, è quella di un esercito del lavoro, mi pare fosse il modo con cui questa cosa veniva detta. Dentro questo discorso c’è evidentemente una critica alle forme e alla composizione della spesa pubblica, l’idea è che lo Stato debba produrre qualcosa, l’idea è che un welfare fatto solo di trasferimenti monetari sia negativo. Ho qualche difficoltà ad aderire a un’impostazione che questa cosa la faccia partire da una riduzione della spesa corrente, io credo che la riduzione della quota della spesa corrente vada prodotta in una strategia espansiva.
Siamo in una situazione nella quale dai disavanzi e dal debito non si scappa, tanto meno con politiche monetariste o di finanza sana, semplicemente producono dei cattivi deficit. Ben diversa sarebbe una prospettiva, che a me sembra compatibile con Minsky, della produzione di buoni disavanzi, esattamente i disavanzi che intervengono sulla composizione della produzione con investimenti pubblici e appunto communal consumption. Tutto ciò ovviamente a Minsky viene perché la sua formazione è quella del New Deal che, a mio parere, non è stato keynesiano; la sfida di Minsky è di proporre un rinnovato New Deal che sia invece keynesiano.
Due parole sul contesto europeo. Credo che siano molto interessanti i discorsi recenti di Mario Draghi sia nell’aspetto positivo sia nei limiti di prospettiva che non possono non mostrare. L’aspetto positivo: sono molto in disaccordo con una lettura banalizzante di Draghi come una persona che ha semplicemente abbandonato, buttato nel cestino il welfare e il modello sociale europeo, perché quello di Draghi mi sembra essere un discorso che dice sostanzialmente che il capitalismo si è modificato e nel nuovo capitalismo il vecchio modello sociale europeo, certe tutele sono obsolete, bisogna inventarne di altre, di sostenibili. La sostenibilità è legata a riforme nel mercato del lavoro e riforme della previdenza, che però di per sé non bastano perché possono aprire a situazioni di sfruttamento di potere di mercato. Occorre dunque che queste riforme si accompagnino ad altre che aprano alla concorrenza e a investimenti pubblici. Quindi sostanzialmente una posizione che io chiamo socialliberista, cioè un’apertura alla concorrenza nei mercati dei beni e dei servizi essenziali. In questo rompe con il mio liberismo perché, per fare dei nomi, Bush e Berlusconi certamente non hanno combattuto il monopolio.
Sfortunatamente quando si va sul terreno di una politica di investimenti pubblici vedo un certo silenzio. Il punto è che mi pare che da parte di Draghi le trasformazioni del capitalismo siano prese come una variabile completamente esogena. All’interno del quadro di vincoli, credo che molto di quello che viene detto e viene fatto sia sensato, anzi vedo nell’ultima decisione dell’inizio di settembre due elementi nuovi di grande significatività. Repubblica pubblica oggi un articolo molto bello di De Cecco sulla natura illimitata degli interventi della Banca centrale europea sul mercato secondario dei titoli e il fatto che si sia proceduto anche con un esplicito dissenso della Germania. A questo si accompagna la condizionalità rispetto ai Paesi che devono chiedere, e in questo secondo me non c’è solo il fatto di fare accettare il tutto alla Germania, c’è anche il fatto che stiamo parlando di una crisi capitalistica e di un’uscita dalla crisi capitalistica, una crisi che sta procedendo con l’approfondimento dell’estensione alla finanza di aree della riproduzione sociale. C’è un attacco al lavoro, al lavoro privato ma al lavoro nel settore pubblico innanzitutto, c’è un attacco alla condizione della donna che verrà colpita anche quando l’occupazione aumenterà, dei nuovi settori in cui l’occupazione verrà trovata, c’è quello che autori di ispirazione marxista chiamano le nuove enclosure.
Questa è la crisi capitalistica e la necessità ormai di un’uscita dalla crisi capitalistica con la politica economica, non senza la politica economica. In questo, a me sembra, l’insegnamento di Minsky è netto, per lo meno nella tradizione di Keynes, se non di Marx. La tendenza alla instabilità è necessaria, qualsiasi illusione che la semplice regolamentazione, che è necessaria, sia sufficiente è appunto inaccettabile perché l’instabilità si riproduce in forme sempre diverse. Tra l’altro non ci si può sognare di cancellare l’instabilità cancellando la speculazione, perché qui Marx e Minsky la pensano esattamente allo stesso modo: ciò che di buono viene dal capitalismo viene dalla fase speculativa. D’altra parte la fase speculativa non può che tendere a degenerare. Allora cosa possiamo fare? Possiamo appunto solo sì attutire gli effetti ma a condizione di cambiare il modello di capitalismo radicalmente. Quindi il risultato di una decente riforma viene solo dall’affrontare direttamente e criticamente il capitalismo con un diverso modo di pensare e di agire. Questo è fuori dall’orizzonte delle politiche economiche attuali ma anche ahimè dei banchieri centrali attuali.
Chiudo osservando che purtroppo lo spirito di Minsky, e a me sembra anche lo spirito di Keynes evidenziato dalla citazione sul video, sarà sempre più difficile da ritrovare nella teoria economica, perché i processi di valutazione e selezione basati puramente e semplicemente sugli indicatori e sulle valutazioni quantitative si stanno diffondendo a macchia d’olio e diventano un modo diretto e immediato di disciplinamento della ricerca, anche dei giovani ricercatori. Credo che di questo dovremmo cominciare a preoccuparci in modo serio.
Trascrizione a cura della redazione non rivista dal relatore
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