mercoledì 20 febbraio 2013

Sulle differenze (profonde) fra Grillo e noi di Dino Greco


Sulle differenze (profonde) fra Grillo e noi


“Le nostre idee non sono né di destra né di sinistra, le idee sono buone o sono cattive”.
Con questa furba trovata pubblicitaria che parla alla vulgata post-ideologica e a cittadini schifati e disillusi dalla politica, Grillo prova ad incassare consensi trasversali, appunto, da destra e da sinistra. E c’è da credergli. L’Istituto Demos, che ha analizzato l’estrazione politica dei fan di Grillo, ne attribuisce il 32% all’area di centrosinistra e il 28% a quella di destra, dall’estrema mancina fino a Casa Pound, con tutto quello che si trova nel mezzo.
Lui, il comico che rifiuta domande e contraddittorio, parla, anzi, strepita come un ossesso spargendo vetriolo su partiti e sindacati. Tutti, indistintamente. Può pescare a piacimento nello sterminato giacimento di guasti, malversazioni, corruzioni che la cronaca quotidiana gli mette a disposizione e che danno la misura del profondo decadimento culturale, politico e morale dell’Italia.
Lui, Grillo, si presenta come l’uomo dell’Avvento, fonda un movimento che definisce “non contaminato dal sistema” e ne registra il marchio, come si fa per sancire la proprietà personale di un brevetto. Poi promette un bagno purificatore che spazzerà via il marcio che imputridisce le istituzioni. “Tutti a casa”, è il refrain più urlato, che conclude ogni sua esibizione. Tutti, tranne lui, ovviamente. Quello che Grillo chiama “movimento” funziona in realtà come una setta. E come in ogni setta c’è un capo indiscusso. E dei seguaci. Non dei discepoli destinati a divulgare la Buona novella, perché anch’essi deprivati della parola.
La sola voce omologata è quella del guru e del suo ventriloquo e mentore, quel Gianroberto Casaleggio, esperto in strategie di rete e di comunicazione, colui che dietro le quinte scrive il copione delle performance del boss. La sua è Verità rivelata, in quanto tale impermeabile a critiche e a interpretazioni. E’ lui, Grillo, che punisce e blandisce, benedice e scomunica. Senza appello. Le sue apparizioni nelle piazze italiane sono pure esibizioni di avanspettacolo traslato in politica: una forma esasperata di populismo, così grottesca da ricordare la corrosiva caricatura che ne faceva il grande Ettore Petrolini quando in una celebre gag mimava un Giulio Cesare continuamente interrotto nel suo compiaciuto eloquio retorico da una folla delirante. Intorno a Grillo, sul palco delle esibizioni, una claque di sostenitori applaude frenetica ad ogni pernacchia del capo che, più fragorosa è, più manda in deliquio gli estasiati fan. E più l’insulto si fa greve e iconoclasta, più la loro voglia di lavacro si tramuta in un istinto primordiale.
Non va in Tv, Grillo. Ma alla Tv tiene, e come! Negandosi, se le prende tutte. E tutte ne amplificano l’impatto nei confronti di cittadini assuefatti da anni di passività e di condizionamento televisivo.
Grillo, con il suo “non partito” personale è, in definitiva, il frutto coerente, (l’archetipo tuttora vivente è Berlusconi) dello smottamento autoritario della democrazia, che ha travolto come una slavina tutta la politica italiana, consegnata al leaderismo e al populismo.
Grillo chiede il voto, ma a nessuno, tranne che a lui e a Casaleggio, è dato di sapere cosa ne farà dopo: il più che eterogeneo plotone che entrerà in parlamento apprenderà il Verbo dal web.
Vengono in mente le parole straordinariamente profetiche con cui Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, descrive i frutti perversi di questa demagogia deteriore, agìta allo scopo di “servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni. Il demagogo deteriore – scrive Gramsci – pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico). E “il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari”.
Ebbene, noi dobbiamo avere un’altra “ambizione”. Diversa da quella del capo “carismatico”. Sappiamo che l’ostacolo è oggi talmente alto da apparire insormontabile. Ma la difficoltà è solo pari all’importanza del compito. Non avremo un’altra Italia, non avremo nessuna “riforma intellettuale e morale” se non passando attraverso un processo di ridemocratizzazione della vita politica e civile.
La via maestra la indica, ancora una volta, Antonio Gramsci: “Il capo politico della grande ambizione tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e le masse, a suscitare possibili ‘concorrenti’ ed uguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi delle masse, e queste vogliono che un apparecchio di conquista e di dominio non si sfasci per il venir meno del singolo capo, ripiombando nel caos e nell’impotenza primitiva”.

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