di Annamaria Rivera -
Come quasi sempre allorché si tratta di paesi a maggioranza arabofona, i media italiani si distinguono, con alcune eccezioni, per sciatteria e ignoranza. Queste li hanno contraddistinti anche in occasione dell’assassinio politico di Chokri Belaid, avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani, dirigente politico senza peli sulla lingua, figura carismatica dell’opposizione tunisina di sinistra.
Come quasi sempre allorché si tratta di paesi a maggioranza arabofona, i media italiani si distinguono, con alcune eccezioni, per sciatteria e ignoranza. Queste li hanno contraddistinti anche in occasione dell’assassinio politico di Chokri Belaid, avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani, dirigente politico senza peli sulla lingua, figura carismatica dell’opposizione tunisina di sinistra.
Grazie a una velina passata da chissà chi, il 6 febbraio, come un sol
uomo, i quotidiani mainstream, dal Corriere della Sera alla Repubblica,
passando per l’Huffington Post e altri, hanno descritto Belaid come
esponente politico di Nida Tounes: cioè del partito neo-bourguibista
fondato da Beji Caid Essebsi, tre volte ministro e poi presidente della
Camera ai tempi di Bourguiba, infine capo del secondo governo
transitorio post-rivoluzione. Nell’edizione online dello stesso 6
febbraio La Repubblica ha definito Belaid non solo come massimo
esponente di Nida Tounes ma anche, e nel contempo, come leader di un
partito inesistente, il “Partito unificato democratico nazionalista”.
Ancor più sublime Il Corriere della Sera che, senza alcuna rettifica
esplicita, nell’edizione del giorno dopo si limita a spostare
l’etichetta “Nida Tounes” dalla vittima al suo presunto carnefice.
Chi scrive ha avuto l’onore di conoscere Chokri Belaid il 24 aprile
2011, nel Palazzo dei congressi di Tunisi. Vi si svolgeva l’assemblea
che avrebbe sancito l’unificazione tra due formazioni che si definiscono
marxiste-leniniste e panarabiste, nate dalle lotte degli anni ’70,
soprattutto nelle università: l’Mpd (Movimento dei patrioti democratici)
e il Ptpdt (Partito del lavoro, patriottico e democratico). Da questa
fusione è nato il Partito dei patrioti democratici unificato, del quale
Belaid era segretario generale, partito che poi ha aderito al Fronte
popolare (Al Jabha Chaâbia), una coalizione fra partiti di estrema
sinistra comparabile alla greca Syriza.
Forse l’attribuzione di Belaid a Nida Tounes è stata dettata dal
desiderio inconscio di annacquare la biografia di questo “martire”,
occultare la sinistra radicale d’ispirazione marxista cui egli
apparteneva, nascondere che è anche grazie a essa che oggi il pericoloso
impasse istituzionale tunisino ha ricevuto una scossa e le masse
popolari – insieme con “la società civile” – sono tornate a riprendersi
le piazze da protagoniste. Quali siano i loro sentimenti e aspirazioni è
ben mostrato da uno degli slogan gridati nel corso delle manifestazioni
spontanee che hanno percorso quasi l’intero paese subito dopo la morte
di Belaid: “Il popolo vuole una nuova rivoluzione”.
E’ vero: una seconda rivoluzione sarebbe necessaria. Infatti, non
potrebbe essere più profonda la frattura tra il paese ufficiale e quello
reale: soprattutto il paese delle masse diseredate e abbandonate al
loro destino di emarginazione, disoccupazione, precarietà, povertà,
assenza di protezione sociale. Su questo versante, a due anni di
distanza, niente è cambiato dopo la rivoluzione del 14 gennaio. Per
meglio dire, i già gravi problemi economici e sociali e le profonde
disparità regionali si sono inaspriti con la fuga degli imprenditori e
dei capitali esteri, il crollo del turismo, l’aumento vertiginoso della
disoccupazione e del costo della vita, l’inerzia e l’insipienza dei
governi provvisori, soprattutto dell’ultimo.
Anche sul piano degli apparati giudiziario e repressivo i cambiamenti
sono meno che esigui. Basta considerare i numerosi processi per reati
di opinione, talvolta finiti con condanne assai pesanti, nonché la
violenza e l’arbitrio che guidano la repressione poliziesca delle
manifestazioni e soprattutto delle rivolte spontanee: queste ultime, un
dato endemico e irriducibile del panorama sociale tunisino. Usando le
parole di Fausto Giudice, piccolo editore a Tunisi e attento
osservatore, potremmo azzardarci a dire, in sintesi, che è ancora in
piedi il vero potere, cioè “la mafia affaristico-burocratico-poliziesca”
del regime benalista, “alcuni pilastri del quale si son fatti crescere
la barba”. A loro volta, i “pilastri con la barba” e i loro servitori –
salafiti jihadisti e predicatori wahabiti ingrassati a forza di
petrodollari – hanno potuto godere finora dell’indulgenza di una parte
di Ennhadha, il partito islamista “moderato” che domina la coalizione
governativa attuale. Si aggiunga che i nuovi esponenti delle istituzioni
non hanno la forza e la capacità di sottrarsi alle ingiunzioni dei
potenti organismi internazionali che dettano le regole dell’economia
neoliberista, e non solo di essa.
Per complicità, omissione o insipienza, Ennhadha finito per favorire
l’escalation di violenza politica culminata con l’assassinio di Chokri
Belaid, probabilmente compiuto da sicari di professione. A denunciarla a
più riprese, ad additarne la pericolosità rispetto alla sorte della
transizione, era stato lo stesso Belaid. Il quale, non certo per doti
profetiche bensì per lungimiranza politica, aveva previsto perfettamente
l’impennata drammatica che avrebbe avuto il ciclo di attacchi
premeditati a esponenti e sedi dell’opposizione.
Una tappa di questa escalation era stata l’assassinio di un dirigente
locale di Nida Tounes: il 18 ottobre scorso, a Tataouine, Lotfi Naqdh
era stato linciato a morte a colpi di spranga e di martello dalle
famigerate “Leghe di protezione della rivoluzione”, milizie armate al
servizio di Ennahdha (o di una sua fazione). Quanto alle tappe più
recenti, i primi giorni di questo febbraio avevano registrato ben sei
aggressioni in 48 ore, tutte compiute dalle medesime milizie,
spalleggiate talvolta da gruppi di salafiti jihadisti. A questo triste
computo dovrebbero aggiungersi le aggressioni ai giornalisti: per dire
solo dell’ultima, il 2 febbraio scorso Nabil Hajri, dell’emittente
Zitouna Tv, era stato ferito gravemente a colpi d’arma bianca. Temiamo
che il catalogo funesto non si chiuda con la morte di Belaid: l’Ugtt, la
principale centrale sindacale, ha informato che da due giorni riceve
minacce di morte contro Hocine Abassi, il segretario generale, e suo
figlio.
La vasta e possente risposta popolare all’assassinio di Belaid ha
reso possibile all’opposizione di sinistra di proporre il ritiro dei
propri rappresentanti dall’Assemblea costituzionale, chiedere le
dimissioni del governo provvisorio guidato da Hamadi Jebali, prospettare
lo sciopero generale per il giorno dei funerali della vittima illustre:
appello accolto dal resto dell’opposizione e, cosa assai rilevante,
dalla stessa Ugtt. Jebali ha risposto subito proponendo un governo di
tecnici che guidi il periodo di transizione fino alle elezioni, ma non è
affatto scontato che il suo partito lo appoggi unanimemente. Abdelhamid
Jelassi, vice-presidente e portavoce di Ennahdha, ha già dichiarato che
il partito disapprova.
Dato il quadro appena tracciato, azzardata è ogni previsione,
infondati sono sia l’ottimismo ingenuo di certi commentatori tunisini
che gridano alla vittoria della piazza e alla svolta politica, sia il
pessimismo interessato dei profeti di sventura occidentali che evocano
la guerra civile. L’unica cosa certa è che le strade e le piazze
tunisine continueranno a risuonare degli slogan di folle di manifestanti
che chiedono pane e lavoro, libertà e giustizia sociale, uguaglianza e
dignità. A farli tacere non servirà intensificare i lanci di granate
asfissianti e pallettoni da caccia.
P.S. Domenica 10 febbraio, dalle 10 alle 14, si svolgerà a Roma un
sit-in davanti all’Ambasciata tunisina (via Asmara 7), per stigmatizzare
l’assassinio di Chokri Belaid e solidarizzare con i suoi familiari e
compagni, e con i manifestanti tunisini.
di Bruno Steri
“Hanno alzato il tiro: è il segno che la situazione sta peggiorando”. Così mi dice per telefono il mio amico Kamal, comunista algerino, commentando l’uccisione di Chokri Belaid, capo dell’opposizione tunisina e segretario del Partito dei Patrioti Democratici (la coalizione in cui convergono le forze della sinistra laica). La voce del mio amico esprime rabbia e preoccupazione. E c’è da capirlo: è il medesimo sentimento di quanti ora tornano a riempire le piazze tunisine gridando la loro indignazione per l’assassinio di uno stimato leader della sinistra. Si tratta solo dell’ultimo di una serie di episodi di violenza squadrista, di cui sulla stampa italiana non si è avuta notizia ma che hanno caratterizzato il clima politico di questi ultimi mesi in Tunisia: un escalation di intimidazioni, aggressioni, uccisioni ai danni di esponenti della società civile, giornalisti, studenti laici, studentesse che rifiutano di coprirsi il volto con il velo. Sono le imprese compiute in nome del fanatismo religioso dai cosiddetti Comitati per la Difesa della Rivoluzione, frange dell’islamismo radicale da cui Ennahda, il partito degli islamici moderati oggi alla testa del governo, formalmente si dissocia ma che di fatto (come denunciava lo stesso Belaid) esso copre e utilizza.
Due anni fa, proprio da questo Paese maghrebino divampò l’incendio della Primavera araba: all’indomani del 17 dicembre 2010, giorno in cui un giovane disoccupato – Mohamed Bonazizi – si diede fuoco in strada, le piazze tunisine furono invase dalla “Rivoluzione dei gelsomini”. Nel giro di un mese, a metà gennaio 2011, l’autocrate Ben Ali dopo ventitré anni di ininterrotto potere fu costretto a riparare in Arabia Saudita. Ad ottobre, era già costituito il nuovo Parlamento ed insediato un nuovo governo, guidato appunto dal partito di maggioranza Ennahda. L’avvocato Chokri Belaid, laurea in giurisprudenza con specializzazione a Paris 8, già attivo nell’Union générale des étudiants de Tunisie, con la medesima tenacia con cui si era battuto nel movimento contro Ben Ali ha continuato ad opporsi da leader della sinistra a Ghannouchi, segretario di Ennahda. Come non aveva simpatie per le autocrazie borghesi, così ha continuato contrastando duramente il fanatismo destrorso degli islamici (anche se mimetizzato dietro il bon ton istituzionale dei nuovi governanti). Belaid era un figlio genuino della rivoluzione tunisina, la “vera rivoluzione”, quella dei quartieri poveri dove lui stesso era nato. Come mirabilmente annota Domenico Quirico, “stava preparando la seconda rivoluzione, non più quella dei figlioli della borghesia in cui l’impeto ribelle si esauriva in un twitter (…); era la rivoluzione dei senzatutto, delle banlieues sommerse dall’immondizia, dei disoccupati (…), degli operai di un’industria che paga salari da fame per riempire le saccocce alle delocalizzazioni comode dell’Occidente”.
Per questo era scomodo, per questo è stato ammazzato. Oggi lo piangono i media dell’Occidente: quelli stessi che hanno osannato gli interventi in Iraq, Afghanistan, Libia, Mali, mantenendo un ambiguo rapporto con l’islamismo integralista e,di fatto, spianando la strada in Medio Oriente e in Africa a salafiti e figliocci di Al Qaeda. Lacrime di coccodrillo. Lacrime vere sono le nostre: della sinistra, dei comunisti.
“Hanno alzato il tiro: è il segno che la situazione sta peggiorando”. Così mi dice per telefono il mio amico Kamal, comunista algerino, commentando l’uccisione di Chokri Belaid, capo dell’opposizione tunisina e segretario del Partito dei Patrioti Democratici (la coalizione in cui convergono le forze della sinistra laica). La voce del mio amico esprime rabbia e preoccupazione. E c’è da capirlo: è il medesimo sentimento di quanti ora tornano a riempire le piazze tunisine gridando la loro indignazione per l’assassinio di uno stimato leader della sinistra. Si tratta solo dell’ultimo di una serie di episodi di violenza squadrista, di cui sulla stampa italiana non si è avuta notizia ma che hanno caratterizzato il clima politico di questi ultimi mesi in Tunisia: un escalation di intimidazioni, aggressioni, uccisioni ai danni di esponenti della società civile, giornalisti, studenti laici, studentesse che rifiutano di coprirsi il volto con il velo. Sono le imprese compiute in nome del fanatismo religioso dai cosiddetti Comitati per la Difesa della Rivoluzione, frange dell’islamismo radicale da cui Ennahda, il partito degli islamici moderati oggi alla testa del governo, formalmente si dissocia ma che di fatto (come denunciava lo stesso Belaid) esso copre e utilizza.
Due anni fa, proprio da questo Paese maghrebino divampò l’incendio della Primavera araba: all’indomani del 17 dicembre 2010, giorno in cui un giovane disoccupato – Mohamed Bonazizi – si diede fuoco in strada, le piazze tunisine furono invase dalla “Rivoluzione dei gelsomini”. Nel giro di un mese, a metà gennaio 2011, l’autocrate Ben Ali dopo ventitré anni di ininterrotto potere fu costretto a riparare in Arabia Saudita. Ad ottobre, era già costituito il nuovo Parlamento ed insediato un nuovo governo, guidato appunto dal partito di maggioranza Ennahda. L’avvocato Chokri Belaid, laurea in giurisprudenza con specializzazione a Paris 8, già attivo nell’Union générale des étudiants de Tunisie, con la medesima tenacia con cui si era battuto nel movimento contro Ben Ali ha continuato ad opporsi da leader della sinistra a Ghannouchi, segretario di Ennahda. Come non aveva simpatie per le autocrazie borghesi, così ha continuato contrastando duramente il fanatismo destrorso degli islamici (anche se mimetizzato dietro il bon ton istituzionale dei nuovi governanti). Belaid era un figlio genuino della rivoluzione tunisina, la “vera rivoluzione”, quella dei quartieri poveri dove lui stesso era nato. Come mirabilmente annota Domenico Quirico, “stava preparando la seconda rivoluzione, non più quella dei figlioli della borghesia in cui l’impeto ribelle si esauriva in un twitter (…); era la rivoluzione dei senzatutto, delle banlieues sommerse dall’immondizia, dei disoccupati (…), degli operai di un’industria che paga salari da fame per riempire le saccocce alle delocalizzazioni comode dell’Occidente”.
Per questo era scomodo, per questo è stato ammazzato. Oggi lo piangono i media dell’Occidente: quelli stessi che hanno osannato gli interventi in Iraq, Afghanistan, Libia, Mali, mantenendo un ambiguo rapporto con l’islamismo integralista e,di fatto, spianando la strada in Medio Oriente e in Africa a salafiti e figliocci di Al Qaeda. Lacrime di coccodrillo. Lacrime vere sono le nostre: della sinistra, dei comunisti.
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