Avanti, dottò… Un po’ indietro, dottò… La mancia, dottò… grazie,
dottò… Non c’è bisogno che ritorni Carosello per ricordare agli italiani
quel delicato profumo di anni Sessanta in cui chi aveva la cravatta
aveva anche un titolo, una laurea, un “pezzo di carta”, come lo
chiamavano i nostri nonni. E però il mondo cambia. Un esempio? Eccolo:
è sempre stato un errore tipico dei comunisti quello di credere alla
propria propaganda. E ora, invece, ecco: anche fior di liberisti ci
cascano con tutte le scarpe. E così abbiamo passato anni e anni a
sentirci dire in tutte le lingue che ci vuole la laurea, senza laurea
non sei nessuno. E poi anche: la laurea non basta, ci vuole il master.
Il master? Sì, ma all’estero! Eccetera eccetera. Una specie di rilancio
continuo nel poker di una sostanza melmosa e fragile chiamata “merito”.
E così tutti, presi dal sogno dell’ascensore sociale – peraltro
guasto da tempo, usate le scale! – esibiscono la loro laurea e il loro
master come una medaglietta. E quando non ce l’hanno se lo inventano.
Elenco lungo e variegato. C’è il proto-finanziere Alessandro Proto, per
dire, che si fregia del titolo di bocconiano costringendo la Bocconi a
smentire (mai visto da queste parti). Un tipo schietto che amava
allargarsi (anche se attualmente risulta ristretto, come dicono i
caramba).
Poi c’era il notevolissimo Belsito, tesoriere della Lega di Bossi
(parlandone da vivo) che millantava anche lui lauree mai conseguite, e
non era certo il peggiore dei suoi barbatrucchi. Il giovane Bossi Trota,
invece, che la laurea se la comprava all’estero, dagli odiati albanesi,
in un’Università dal nome evocativo di buone gelaterie sul lungomare
(Kristal, ma tu dimmi!). Dilettanti.
C’è chi fa meglio e di più, tipo Giuseppe Biesuz, candidato della
regione Lombardia, cioè di Formigoni, alla guida delle Ferrovie Nord
Milano, anche lui millantatore di laurea, che ha pure l’ardire di dirlo
al magistrato: titolo di studio? Laurea. Ahi, ahi, ahi: puoi dirlo alla
zia e anche alla moglie, come faceva il Bossi Umberto giovinetto uscendo
di casa la mattina con la valigetta da medico per andare al bar. Ma al
magistrato è meglio di no, trattasi di falso, che non essendo “in
bilancio” è un reato tutt’ora esistente.
E va bene, dai, restiamo umani. La millantata laurea, il titolo di
studio made in Albania, il fregio accademico pazientemente realizzato
coi trasferelli, sono vezzi che inducono tenerezza, scorciatoie
proletarie per aprirsi la porta di affarucci molto borghesi. Ma poi. Ma
poi mi ci casca anche un Giannino, uno così liberista e meritocratico
che strabuzza gli occhi e li fa roteare selvaggio al solo sentire la
parola “Stato”.
Tu quoque, mannaggia, a inventarti un master esotico in quel di
Chicago, città di studi e di Blues Brothers. Peraltro sbugiardato dal
suo economista di riferimento, quello Zingales che tanto vorrebbe una
rivoluzione liberista (un’altra? Eccheccazzo!). Lui, che nell’università
del presunto master insegna, e che fa scoppiare il petardo a cinque
giorni dalle elezioni. Segue marcia indietro, scuse, timidi balbettii
del Giannino Oscar, tanto diversi per intensità e volume di quando grida
“ladro!” allo Stato e “merito!” a tutti gli altri.
Ma perché, alla fine, tanto astio? Perché tanta acredine su un vezzo
così deliziosamente italiano? Perché in Germania i ministri si dimettono
per aver copiato la tesi? Andiamo, e l’italianità dove la mettiamo? In
fondo, per dirti, “venga avanti, dottò” il posteggiatore mica ti chiede
una pergamena, no?
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