Se è vero che la crisi – dal greco krinò,
ossia separazione, decisione – è quel particolare momento che divide un
modo di essere da un altro, producendo cambiamenti, è pur vero che le
scelte operate a seguito di una crisi rivelano la caratura, umana e
intellettuale, di chi quelle scelte compie.
La classe politica dei Paesi europei, Italia compresa, dopo vent’anni di tagli allo stato sociale e di deregolamentazione del lavoro, si prepara a smantellare il primo e a rendere del tutto precario il secondo. Colpa della crisi, dicono, che rende sia il sistema pubblico che quello produttivo, insostenibili da un punto di vista economico. Nulla di più falso, come abbiamo già evidenziato (1). Ciò a cui stiamo assistendo è la fase finale della messa in pratica di una teoria economica, il neoliberismo, che ha piantato radici profonde nel pensiero economico-politico, al punto da diventare egemone dopo il crollo dell’Urss; una teoria economica che si è innestata nel capitalismo e ha contribuito all’attuale crisi.
La pervicace volontà di continuare sulla stessa strada, oltre ad avere peso e conseguenze sociali per l’intera umanità, è dunque qualcosa che attiene anche all’onestà intellettuale delle singole persone che hanno oggi il potere di decidere le politiche economiche, e di coloro che hanno il potere di indirizzare il pensiero dell’opinione pubblica: che le loro decisioni siano dettate da una fede cieca nel dogma della libera circolazione dei capitali e del ‘meno Stato più mercato’, oppure dal disinteresse più totale per la vita degli altri uomini e dall’egoismo più bieco, tanto più criminale quanto più si sale nella piramide del potere e dunque nella responsabilità, è purtroppo un conto che ognuno di loro farà solo con se stesso. Se e quando il tribunale della Storia li chiamerà in qualità di imputati, essi saranno già belle che morti, placidamente nei loro letti, dopo una vita vissuta nell’agio e un funerale con tutti gli onori.
Di certo, dando credito all’ipotesi della buonafede, occorre domandarsi quanto sia viva la loro capacità di analisi del reale, in termini di cause e conseguenze.
Il neoliberismo poggia sul concetto di libero mercato, ossia l’egoismo assunto a dogma, sulle orme di Adam Smith, nella convinzione che ogni individuo, perseguendo il proprio particolare interesse, aiuti automaticamente la società a progredire; un mercato (che è anche mercato del lavoro) visto come un sistema in grado di autoregolarsi creando un equilibrio spontaneo; ne consegue che nulla deve intervenire a indirizzare, limitare, coordinare le azioni economiche, né lo Stato né i confini nazionali. Capisaldi della ricetta salvifica sono la totale fuoriuscita dello Stato dall’economia, con la privatizzazione di tutti i beni e servizi pubblici e la riduzione delle spese sociali, l’abbassamento delle imposte e l’eliminazione di ogni barriera nella circolazione delle merci e dei capitali (quella libera circolazione che da una parte ha portato alla finanziarizzazione globale dell’economia, e dall’altra alla delocalizzazione della produzione manifatturiera nei Paesi con bassi salari).
Nata negli anni Sessanta con Milton Friedman e il suo Capitalismo e libertà (1962), i primi ad applicare la nuova teoria economica sono gli Stati Uniti di Reagan, nel decennio successivo, poi l’Inghilterra della Thatcher, e infine i Paesi dell’Unione europea, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.
I dati Ocse(2) evidenziano come l’aumento della disuguaglianza nelle varie nazioni sia andato di pari passo con l’applicazione della ricetta neoliberista. “Il coefficiente di Gini, una misura standard di disuguaglianza di reddito che va da zero (quando tutti hanno redditi identici) a uno (quando tutto il reddito va a una sola persona), era pari a una media di 0,29 nei Paesi Ocse a metà degli anni Ottanta. Alla metà degli anni Duemila era aumentato di quasi il 10%, arrivando a quota 0,316. [...] Nel corso del tempo, la disuguaglianza di reddito ha seguito diversi schemi nei vari Paesi dell’Ocse: per prima è iniziata ad aumentare alla fine degli anni Settanta e inizio anni Ottanta in alcuni Paesi di lingua inglese, in particolare il Regno Unito e gli Stati Uniti, ma anche Israele. Dalla fine degli anni Ottanta, l’aumento delle disparità di reddito è diventato più diffuso. Le ultime tendenze degli anni Duemila hanno mostrato un divario crescente tra ricchi e poveri non solo nei Paesi che già mostravano una forte disuguaglianza, come Israele e Stati Uniti, ma anche – per la prima volta – in Paesi tradizionalmente a bassa disuguaglianza, come Germania, Danimarca e Svezia (e altri Paesi nordici), dove negli anni Duemila la disuguaglianza è cresciuta più che altrove” (vedi tabella 1, colonna A).
Davanti all’evidenza dei dati, i sostenitori del neoliberismo affermano che il tuttora esistente divario tra ricchi e poveri è dovuto alla mancata attuazione della ricetta neoliberista nella sua completezza (lo Stato è ancora troppo presente nell’economia, e la circolazione di beni, servizi e lavoro non è del tutto libera, dicono); tuttavia non hanno una ragione plausibile che spieghi perché in trent’anni di applicazione, sia pur parziale, della teoria economica, questo divario abbia avuto una tendenza in aumento invece che in diminuzione. Una mancata replica che non sorprende, perché la risposta non riguarda il neoliberismo in sé, ma il sistema di produzione su cui il neoliberismo si inserisce, ossia il capitalismo.
Ammessa e non concessa l’incapacità di analisi del reale di politici e maître à penser, infatti, non depone a favore della loro onestà intellettuale la radicale censura del pensiero economico marxiano che entrambe le categorie operano con zelante impegno da tre decenni. Marx è morto. Questo sostiene il pensiero dominante – e “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti” (3) – in una sorta di mantra esorcizzante che si prefigge lo scopo di consegnare il pensiero marxiano al regno dei defunti, ben consapevole di quanto esso sia in realtà vivo e destabilizzante per lo status quo: finché il sistema economico sarà quello capitalistico, infatti, lo spettro di Marx continuerà ad aggirarsi per il mondo, perché nessuno come lui ne ha mostrato la dinamica, i meccanismi, le inevitabili crisi cicliche e strutturali ed evidenziato la libertà solo apparente che genera.
Tralasciando i concetti di pluslavoro e plusvalore, con i quali Marx evidenzia come il capitalismo poggi sullo sfruttamento dell’uomo generando disuguaglianza, i nuclei teorici del complesso e articolato pensiero marxiano che qui ci interessa evidenziare, in una sintesi estremamente parziale e semplificata, sono due: il ‘materialismo storico’ e la ‘doppia cittadinanza’ dell’uomo moderno.
La classe politica dei Paesi europei, Italia compresa, dopo vent’anni di tagli allo stato sociale e di deregolamentazione del lavoro, si prepara a smantellare il primo e a rendere del tutto precario il secondo. Colpa della crisi, dicono, che rende sia il sistema pubblico che quello produttivo, insostenibili da un punto di vista economico. Nulla di più falso, come abbiamo già evidenziato (1). Ciò a cui stiamo assistendo è la fase finale della messa in pratica di una teoria economica, il neoliberismo, che ha piantato radici profonde nel pensiero economico-politico, al punto da diventare egemone dopo il crollo dell’Urss; una teoria economica che si è innestata nel capitalismo e ha contribuito all’attuale crisi.
La pervicace volontà di continuare sulla stessa strada, oltre ad avere peso e conseguenze sociali per l’intera umanità, è dunque qualcosa che attiene anche all’onestà intellettuale delle singole persone che hanno oggi il potere di decidere le politiche economiche, e di coloro che hanno il potere di indirizzare il pensiero dell’opinione pubblica: che le loro decisioni siano dettate da una fede cieca nel dogma della libera circolazione dei capitali e del ‘meno Stato più mercato’, oppure dal disinteresse più totale per la vita degli altri uomini e dall’egoismo più bieco, tanto più criminale quanto più si sale nella piramide del potere e dunque nella responsabilità, è purtroppo un conto che ognuno di loro farà solo con se stesso. Se e quando il tribunale della Storia li chiamerà in qualità di imputati, essi saranno già belle che morti, placidamente nei loro letti, dopo una vita vissuta nell’agio e un funerale con tutti gli onori.
Di certo, dando credito all’ipotesi della buonafede, occorre domandarsi quanto sia viva la loro capacità di analisi del reale, in termini di cause e conseguenze.
Il neoliberismo poggia sul concetto di libero mercato, ossia l’egoismo assunto a dogma, sulle orme di Adam Smith, nella convinzione che ogni individuo, perseguendo il proprio particolare interesse, aiuti automaticamente la società a progredire; un mercato (che è anche mercato del lavoro) visto come un sistema in grado di autoregolarsi creando un equilibrio spontaneo; ne consegue che nulla deve intervenire a indirizzare, limitare, coordinare le azioni economiche, né lo Stato né i confini nazionali. Capisaldi della ricetta salvifica sono la totale fuoriuscita dello Stato dall’economia, con la privatizzazione di tutti i beni e servizi pubblici e la riduzione delle spese sociali, l’abbassamento delle imposte e l’eliminazione di ogni barriera nella circolazione delle merci e dei capitali (quella libera circolazione che da una parte ha portato alla finanziarizzazione globale dell’economia, e dall’altra alla delocalizzazione della produzione manifatturiera nei Paesi con bassi salari).
Nata negli anni Sessanta con Milton Friedman e il suo Capitalismo e libertà (1962), i primi ad applicare la nuova teoria economica sono gli Stati Uniti di Reagan, nel decennio successivo, poi l’Inghilterra della Thatcher, e infine i Paesi dell’Unione europea, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.
I dati Ocse(2) evidenziano come l’aumento della disuguaglianza nelle varie nazioni sia andato di pari passo con l’applicazione della ricetta neoliberista. “Il coefficiente di Gini, una misura standard di disuguaglianza di reddito che va da zero (quando tutti hanno redditi identici) a uno (quando tutto il reddito va a una sola persona), era pari a una media di 0,29 nei Paesi Ocse a metà degli anni Ottanta. Alla metà degli anni Duemila era aumentato di quasi il 10%, arrivando a quota 0,316. [...] Nel corso del tempo, la disuguaglianza di reddito ha seguito diversi schemi nei vari Paesi dell’Ocse: per prima è iniziata ad aumentare alla fine degli anni Settanta e inizio anni Ottanta in alcuni Paesi di lingua inglese, in particolare il Regno Unito e gli Stati Uniti, ma anche Israele. Dalla fine degli anni Ottanta, l’aumento delle disparità di reddito è diventato più diffuso. Le ultime tendenze degli anni Duemila hanno mostrato un divario crescente tra ricchi e poveri non solo nei Paesi che già mostravano una forte disuguaglianza, come Israele e Stati Uniti, ma anche – per la prima volta – in Paesi tradizionalmente a bassa disuguaglianza, come Germania, Danimarca e Svezia (e altri Paesi nordici), dove negli anni Duemila la disuguaglianza è cresciuta più che altrove” (vedi tabella 1, colonna A).
Davanti all’evidenza dei dati, i sostenitori del neoliberismo affermano che il tuttora esistente divario tra ricchi e poveri è dovuto alla mancata attuazione della ricetta neoliberista nella sua completezza (lo Stato è ancora troppo presente nell’economia, e la circolazione di beni, servizi e lavoro non è del tutto libera, dicono); tuttavia non hanno una ragione plausibile che spieghi perché in trent’anni di applicazione, sia pur parziale, della teoria economica, questo divario abbia avuto una tendenza in aumento invece che in diminuzione. Una mancata replica che non sorprende, perché la risposta non riguarda il neoliberismo in sé, ma il sistema di produzione su cui il neoliberismo si inserisce, ossia il capitalismo.
Ammessa e non concessa l’incapacità di analisi del reale di politici e maître à penser, infatti, non depone a favore della loro onestà intellettuale la radicale censura del pensiero economico marxiano che entrambe le categorie operano con zelante impegno da tre decenni. Marx è morto. Questo sostiene il pensiero dominante – e “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti” (3) – in una sorta di mantra esorcizzante che si prefigge lo scopo di consegnare il pensiero marxiano al regno dei defunti, ben consapevole di quanto esso sia in realtà vivo e destabilizzante per lo status quo: finché il sistema economico sarà quello capitalistico, infatti, lo spettro di Marx continuerà ad aggirarsi per il mondo, perché nessuno come lui ne ha mostrato la dinamica, i meccanismi, le inevitabili crisi cicliche e strutturali ed evidenziato la libertà solo apparente che genera.
Tralasciando i concetti di pluslavoro e plusvalore, con i quali Marx evidenzia come il capitalismo poggi sullo sfruttamento dell’uomo generando disuguaglianza, i nuclei teorici del complesso e articolato pensiero marxiano che qui ci interessa evidenziare, in una sintesi estremamente parziale e semplificata, sono due: il ‘materialismo storico’ e la ‘doppia cittadinanza’ dell’uomo moderno.
“Là
dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l’uomo
conduce, non solo nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà,
nella vita, una duplice esistenza, una celeste e una terrena,
l’esistenza nella comunità politica in cui egli si afferma come ente
comunitario, e l’esistenza nella società civile, nella quale agisce come
uomo privato, il quale intende gli altri uomini come strumenti”(4).
Nell’esistenza celeste, nei cieli astratti della politica, lo Stato riconosce uguaglianza e libertà a ogni cittadino, soggetto di eguali diritti (umani, civili, politici ecc.); nell’esistenza terrena, nella vita concreta della società, lo Stato promuove la disuguaglianza reale sostenendo un sistema economico capitalista che ha nello sfruttamento dell’uomo (“l’uomo come strumento”, ossia merce) la sua colonna portante. L’uomo è dunque giuridicamente libero ma economicamente costretto, all’interno di un rapporto di lavoro che non è più coercitivo, come un tempo gli schiavi e i servi della gleba, ma è ancora schiavistico: una “schiavitù mascherata”.
Ed è proprio in virtù dell’uguaglianza politica che esiste la disuguaglianza economica: un’affermazione che appare paradossale, ma non lo è affatto, come mostra la storia dell’umanità analizzata con la chiave di lettura del materialismo storico.
“Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza”(5): secondo il materialismo storico, fermo restando il rapporto dialettico tra le due realtà, non sono i princìpi e i valori astratti (sovrastruttura-ideologica) che producono mutamenti nelle condizioni materiali dell’esistenza, ma al contrario è il sistema di produzione e di scambio (struttura-economica) che genera le forme giuridiche e politiche. Nel mondo antico (caratterizzato dalla divisione uomini liberi/schiavi) e feudale (signori/servi della gleba), la forma di produzione mirava alla conservazione della società nel suo complesso; quando si sviluppa il mercato e tutto diviene commercio, la produzione non è più orientata alla soddisfazione dei bisogni ma diventa un’attività fine a se stessa, che mira alla valorizzazione del capitale e all’accrescimento illimitato della ricchezza, in una sete di guadagno inesauribile. Questo nuovo sistema economico, il capitalismo, necessita di una produzione allargata e, soprattutto, ‘produttiva’. Una produttività che non poteva certo essere soddisfatta da servi della gleba e ancora meno da schiavi, che non avevano alcun interesse a essere ‘produttivi’ in quanto ricevevano dal padrone il necessario per il proprio sostentamento, ossia cibo e un tetto, a prescindere dalla quantità di lavoro svolto. Per svilupparsi il capitalismo ha bisogno che l’uomo sia libero, perché solo in tal modo il lavoratore può essere sfruttato pienamente: non essendo proprietà di alcuno, è infatti costretto a essere ‘produttivo’ per non rischiare di venire licenziato e ritrovarsi impossibilitato a provvedere alla propria sussistenza. È il capitalismo (struttura-economica) che produce la figura dell’uomo giuridicamente libero (sovrastruttura-ideologica): un uomo che deve essere libero nell’esistenza celeste, per poter essere ‘schiavo produttivo’ nell’esistenza terrena.
Ogni forma di produzione genera il proprio diritto, inteso come insieme complessivo delle leggi e dei rapporti giuridici, la forma di governo, la morale ecc., afferma Marx. Non è l’afflato delle idee (liberté, égalité, fraternité) a muovere il mondo.
“Gli
uomini hanno dimenticato che il loro diritto deriva dalle condizioni
della loro vita economica, così come essi medesimi derivano dal mondo
animale. [...] E questa giustizia non è altro che l’espressione
ideologizzata, incielata nei rapporti economici, che si ottiene
seguendo ora la tendenza conservatrice, ora quella rivoluzionaria. La
giustizia dei Greci e dei Romani riteneva giusta la schiavitù: la
giustizia dei borghesi del 1789 postulava l’abolizione del feudalesimo
ritenendolo ingiusto” (6).
Quei borghesi, imprenditori e commercianti, portatori della nuova forma di produzione capitalistica che per divenire dominante necessitava della propria sovrastruttura giuridica, politica e morale.
Il neoliberismo non è altro che una ‘tendenza conservatrice’ del capitalismo: lo libera dalle influenze di quello Stato che, costretto dalle lotte operaie e dallo spettro dell’Urss, era divenuto anche stato sociale, e lo riporta a una fase pura. Sanità pubblica, pensioni pubbliche, scuola pubblica, sussidi di disoccupazione, cassa integrazione, regolamentazione del mercato del lavoro tramite i contratti collettivi nazionali ecc., hanno rivestito, seppur marginalmente, il ruolo del padrone rispetto allo schiavo e del signore feudale rispetto al servo della gleba, assicurando al cittadino una forma di sussistenza indipendentemente dalla quantità di lavoro svolto. Lo stato sociale ha reso l’uomo meno ‘produttivo’. Il capitalismo non può permetterselo, ancora meno in una fase di crisi di profitti come quella attuale (7).
Come mostrano i dati Ocse riportati in tabella, tramite gli ammortizzatori sociali e un sistema fiscale progressivo (a redditi più alti, imposte più alte), lo Stato opera una forma di redistribuzione del reddito; la misura della disuguaglianza economica, prodotta dal sistema capitalistico, calcolata prima delle imposte e dei trasferimenti sociali è infatti ben maggiore rispetto a quella calcolata dopo (vedi tabella 1, colonna B). A metà anni Duemila, la media Ocse non è più 0,316, bensì 0,467. Il divario tra i due valori riflette quanto l’uomo neoliberista, restando giuridicamente libero, può ancora essere ‘produttivo’.
La situazione italiana è tra le peggiori. Scrive l’Ocse che nel Belpaese, imposte e stato sociale “hanno un ruolo importante nella redistribuzione del reddito, riducendo la disuguaglianza di circa il 30%”: a metà anni Duemila il coefficiente di Gini calcolato dopo è pari a 0,352 (maggiore rispetto alla media Ocse di 0,316) contro lo 0,557 del prima. Il dato più alto in assoluto, quest’ultimo, tra tutti i Paesi Ocse. In Italia il margine di ulteriore possibile sfruttamento del lavoratore, è altissimo. Lo sa bene Mario Monti.
Dopo un anno di politiche economiche neoliberiste propagandante come ‘scelte tecniche’ ineludibili, nella sua ‘salita’ in campo – anch’egli per il bene del Paese, così come chi prima di lui in campo era ‘sceso’ – Monti presenta un’Agenda che è l’ideale sintesi del neoliberismo: libero mercato di merci e capitali, privatizzazione dello stato sociale e del patrimonio pubblico, deregolamentazione del lavoro. Il Vaticano plaude e dà il proprio sostegno al ‘professore’ fattosi politico (8), Alesina e Giavazzi, puristi del neoliberismo alla Milton Friedman, lamentano che “di ridurre lo spazio che occupa lo Stato non si parla abbastanza nel programma che Mario Monti ha proposto agli italiani” (9), dimenticando che ora l’uomo deve fare i conti con il consenso elettorale e dunque con la propaganda di cui la propria proposta deve, in qualche misura, essere infarcita: per cambiare quelle poche carte messe in tavola che debolmente odorano di intervento statale nell’economia e di redistribuzione (un’imposta sui “grandi patrimoni”, che si farà “non appena le condizioni generali lo consentiranno” [10]), ci sarà tempo (vedi box in fondo per il dettaglio dell’Agenda Monti).
Tuttavia non ha poi così importanza chi spunterà le elezioni di fine febbraio: che vincano Monti-Casini-Montezemolo o Berlusconi o Bersani, non solo la politica economica sarà comunque neoliberista, ma non cambierà affatto l’esistenza terrena dell’uomo moderno. Nel sistema produttivo capitalistico, segnare una crocetta su una scheda elettorale rappresenta nulla più che la farsa dell’esistenza celeste.
(1) Cfr. G. Cracco, Europa: le menzogne sul debito pubblico e la costruzione di un nuovo modello di Stato, in Paginauno n. 29/2012, e G. Cracco, Il welfare ai tempi della sussidiarietà neoliberista: privato e clericale, in Paginauno n. 30/2012.
(2) Il virgolettato contenuto nell’articolo relativo ai dati Ocse è tratto da Divided we stand. Why inequality keeps rising (Divisi restiamo. Perché la disuguaglianza continua a salire), Rapporto Ocse 2011.
(3) K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, 1845-46.
(4) K. Marx, Sulla questione ebraica, 1844.
(5) K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, 1845-46.
(6) F. Engels, La questione delle abitazioni, 1873.
(7) Cfr. F. Damen, Con Marx, alle radici della crisi: la caduta del saggio medio di profitto e la conseguente finanziarizzazione dell’economia, in Paginauno n. 28/2012.
(8) Cfr. M. Bellizi, La salita in politica del senatore Monti, in L’Osservatore romano, 28 dicembre 2012.
(9) A. Alesina – F. Giavazzi, Troppo Stato in quell’Agenda, in Corriere della sera, 27 dicembre 2012.
(10) Cambiare l’Italia, riformare l’Europa. Un’Agenda per un impegno comune, Mario Monti, 23 dicembre 2012.
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L’AGENDA ECONOMICA DI MARIO MONTI
“Per avere buoni risultati bisogna mettere ordine nei processi e nei modi della decisione pubblica” (1). Mario Monti relega nella parte finale della sua Agenda quella che è una premessa di metodo, dove così definisce quelli che chiama “i riti della concertazione”: “Un processo di formazione delle politiche che segue canoni datati o che segue un non metodo. [...] L’esperienza di questo governo ha portato novità importanti. Ai processi di concertazione, che in altre fasi storiche hanno prodotto passi importanti, si è sostituito un processo di consultazione, con le quali le parti sociali hanno l’opportunità di esprimere la loro opinione sulle iniziative progettate dal governo, ferma restando la responsabilità dei poteri pubblici, governo e Parlamento, per la decisione finale”.
Cgil e Fiom sono avvisate: in caso di un secondo governo Monti, non avranno alcuna voce in capitolo quando questi punti, contenuti nell’Agenda, saranno attuati:
“Per avere buoni risultati bisogna mettere ordine nei processi e nei modi della decisione pubblica” (1). Mario Monti relega nella parte finale della sua Agenda quella che è una premessa di metodo, dove così definisce quelli che chiama “i riti della concertazione”: “Un processo di formazione delle politiche che segue canoni datati o che segue un non metodo. [...] L’esperienza di questo governo ha portato novità importanti. Ai processi di concertazione, che in altre fasi storiche hanno prodotto passi importanti, si è sostituito un processo di consultazione, con le quali le parti sociali hanno l’opportunità di esprimere la loro opinione sulle iniziative progettate dal governo, ferma restando la responsabilità dei poteri pubblici, governo e Parlamento, per la decisione finale”.
Cgil e Fiom sono avvisate: in caso di un secondo governo Monti, non avranno alcuna voce in capitolo quando questi punti, contenuti nell’Agenda, saranno attuati:
• “Dismissione del patrimonio pubblico”;
• Privatizzazioni e liberalizzazioni: “È necessario impegnarsi a proseguire e intensificare la politica di apertura dei mercati di beni e servizi”;
• Libero mercato dei capitali: “Bisogna puntare a raggiungere un livello di investimenti diretti esteri vicino alla media europea”;
• Apertura al capitale privato nella gestione del patrimonio pubblico culturale e storico: “Intese con le fondazioni di origine non bancaria o forme calibrate di partnership pubblico-privato” per gestire “musei, aree archeologiche, archivi, biblioteche” ecc.;
• Deregolamentazione del lavoro: “Una drastica semplificazione normativa e amministrativa in materia di lavoro”; “Superamento del dualismo tra lavoratori sostanzialmente dipendenti protetti e non protetti”; “Spostare verso i luoghi di lavoro il baricentro della contrattazione collettiva, favorendo il collegamento di una parte maggiore delle retribuzione alla produttività o alla redditività delle aziende”;
• Riduzione dello stato sociale: “Il modello che abbiamo costruito si sta incrinando sotto il peso del cambiamento demografi co e della sempre più difficile sostenibilità fi nanziaria”. Occorre dunque attuare:
• Privatizzazioni e liberalizzazioni: “È necessario impegnarsi a proseguire e intensificare la politica di apertura dei mercati di beni e servizi”;
• Libero mercato dei capitali: “Bisogna puntare a raggiungere un livello di investimenti diretti esteri vicino alla media europea”;
• Apertura al capitale privato nella gestione del patrimonio pubblico culturale e storico: “Intese con le fondazioni di origine non bancaria o forme calibrate di partnership pubblico-privato” per gestire “musei, aree archeologiche, archivi, biblioteche” ecc.;
• Deregolamentazione del lavoro: “Una drastica semplificazione normativa e amministrativa in materia di lavoro”; “Superamento del dualismo tra lavoratori sostanzialmente dipendenti protetti e non protetti”; “Spostare verso i luoghi di lavoro il baricentro della contrattazione collettiva, favorendo il collegamento di una parte maggiore delle retribuzione alla produttività o alla redditività delle aziende”;
• Riduzione dello stato sociale: “Il modello che abbiamo costruito si sta incrinando sotto il peso del cambiamento demografi co e della sempre più difficile sostenibilità fi nanziaria”. Occorre dunque attuare:
••
Incentivi alle pensioni private: “A ormai quasi vent’anni dalla loro
introduzione nel nostro sistema i fondi pensione integrativi non sono
decollati. Va quindi dato un nuovo impulso alla previdenza
complementare”; •• “Garantire il diritto alla tutela della salute in un
nuovo contesto” (??);
•• “Valorizzare il ruolo del volontariato” e dell’“impresa sociale” (ossia attuazione del welfare privato e clericale [2]);
•• “Promuovere l’invecchiamento attivo” incentivando “l’assunzione di persone anziane” e offrendo “agli over 55 disoccupati e non ancora in possesso dei requisiti per la pensione un sostegno del reddito collegato alla loro disponibilità al lavoro” (ossia solo se tu sessantenne accetti ogni genere di impiego e di ammazzarti di lavoro per un misero salario, lo Stato ti sostiene dandoti un ammortizzatore sociale); •• “Creare un reddito di sostentamento minimo condizionato alla partecipazione a misure di formazione e di inserimento professionale” (idem come punto precedente: solo se accetti di ‘formarti’ o lavorare per due lire, avrai un ammortizzatore sociale).
•• “Valorizzare il ruolo del volontariato” e dell’“impresa sociale” (ossia attuazione del welfare privato e clericale [2]);
•• “Promuovere l’invecchiamento attivo” incentivando “l’assunzione di persone anziane” e offrendo “agli over 55 disoccupati e non ancora in possesso dei requisiti per la pensione un sostegno del reddito collegato alla loro disponibilità al lavoro” (ossia solo se tu sessantenne accetti ogni genere di impiego e di ammazzarti di lavoro per un misero salario, lo Stato ti sostiene dandoti un ammortizzatore sociale); •• “Creare un reddito di sostentamento minimo condizionato alla partecipazione a misure di formazione e di inserimento professionale” (idem come punto precedente: solo se accetti di ‘formarti’ o lavorare per due lire, avrai un ammortizzatore sociale).
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