C’è
qualcosa di stupefacente (e di spudoratamente ipocrita) nei commenti
entusiastici con cui in queste ore viene accolta la decisione
dell’Unione europea di chiudere la “procedura d’inflazione per deficit
eccessivo” contro l’Italia. Perché, contemporaneamente, resta inchiodato
al palo quel vincolo a mantenere il deficit, anche per il 2013, entro
quella soglia, di origine “metafisica”, del 3 per cento.
Persino
un commentatore in genere attento come Massimo Riva (la Repubblica)
ammonisce a “non interpretare la sentenza di proscioglimento come una
licenza al bengodi fiscale”, perché in tal caso “la pur sempre precaria
costruzione del bilancio pubblico ci crollerebbe addosso. E il tanto
temuto ed odiato spread tornerebbe pane quotidiano sulle mense degli
italiani”. Come a dire: l’austerity continuerà ad essere l’idolo sacro a
cui genuflettersi, per cui non soltanto le “mense”, ma la vita intera
degli italiani resterà sotto il giogo imposto dalla dittatura
monetarista dell’Unione europea.
Dunque, nessuno si faccia
illusioni: il blocco delle retribuzioni pubbliche prorogato da D’Alia,
l’aumento dell’Iva deciso da Saccomanni, l’inasprimento del già
miserabile regime pensionistico annunciato da Giovannini continueranno a
fare il proprio micidiale corso.
Non solo. L’Ocse – ne abbiamo
dato ieri dettagliata informazione – ha rivisto, in discesa, le
previsioni economiche per l’Italia, con un calo del pil dell’1,8 per
cento per quest’anno e un ulteriore aumento della disoccupazione, fino
al 12,5 per cento per l’anno prossimo. La cosa non avrebbe dovuto
sorprendere nessuno che non porti spesse bende sugli occhi: la
quotidiana chiusura di imprese manufatturiere e commerciali di ogni
dimensione, la crescita esponenziale dei fallimenti aziendali,
l’imperversare della cassaintegrazione, il crollo dei consumi alimentari
di massa sono dati così empiricamente evidenti da rendere persino
superflue ulteriori e più sofisticate indagini. Eppure, sempre gli
eccelsi commentatori di cui sopra accolgono le previsioni dell’Ocse come
una “doccia fredda”, come “rivelazioni” di una realtà nuova, se non
addirittura inaspettata.
Così, da quei santuari da cui, per
nostra sciagura, si reggono le redini del potere, si affacciano ancor
più dure ipotesi di misure deflazionistiche, di ancor più dolorosi tagli
alla spesa pubblica di natura sociale. E proprio sul lavoro costoro
meditano un ulteriore giro di vite, in ragione dell’ideologia
fraudolenta secondo cui un’azienda sottocapitalizzata, povera di
creatività e di investimenti potrà tornare a vendere i propri prodotti
fuori mercato se saprà massacrare di più i suoi lavoratori e se sarà
messa in condizione di disporne della prestazione a costi sempre più
bassi.
L’altra strada – la denuncia e la violazione unilaterale
dei patti iugulatori, l’adozione di radicali politiche redistributive
della ricchezza tali da rilanciare la domanda aggregata e colpire la
capitalizzazione patrimoniale improduttiva, l’adozione di misure che
mettano in moto ingenti risorse per investimenti pubblici nelle
fondamentali infrastrutture civili, l’intervento dello stato negli asset
strategici dell’economia (dalle banche alla siderurgia) – sono, per chi
sta governando il paese, ipotesi da fantascienza, in un’Italia che per
trent’anni ha dissipato con metodo le proprie migliori risorse
intellettuali per affidarsi agli istinti ciechi del mercato e alle
peggiori perversioni speculative delle sue classi dominanti.
Ma
queste cose, alla gente, chi glie le dice? Nessuno. Tranne noi, quando
ne siamo capaci, dove ancora ci siamo e con i modesti mezzi di cui
disponiamo. Per cui la possibile transizione dalla realtà data alla
prospettiva dell’alternativa che noi indichiamo appare ai più come una
vaga predicazione, priva di concretezza e di reale fattibilità.
Tuttavia,
continuiamo a non fare tutto quello che potremmo. Non utilizziamo
efficacemente i nostri saperi, non sempre così claudicanti come
ingenerosamente si pensa, anche nelle nostre file.
Occorre
scrollarsi di dosso quel perniciosissimo fatalismo depressivo che induce
una parte dei nostri compagni e delle nostre compagne, provati da tante
diaspore e sconfitte, a ritirarsi nella “riserva indiana”, in una
mugugnante introflessione, o a muoversi con la psicosi claustrofobica
del clandestino.
Non è vero che non c’è più niente da fare e che
la politica appartiene ormai soltanto alla camarilla affaristica o ai
demagoghi che cialtroneggiano a buon mercato.
C’è spazio per altro. E ce n’è un bisogno estremo.
Dobbiamo re-imparare a lavorare meglio, con più intelligenza, inventiva, continuità. E con più fiducia in noi stessi.
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