Rompere l’europolo,
costruire l’Alba euro-afro-mediterranea del movimento internazionale
dei lavoratori. A proposito dei manifesti europeo e spagnolo del maggio
2013.
1. La crisi del capitalismo, lungi dall'essere esaurita, diventa sempre più acuta, a causa dell'incapacità del capitale di sviluppare un nuovo modello di accumulazione fattibile, evidenziandone, così, in maniera sempre più decisa il suo carattere sistemico.
Va sottolineato che parliamo da tempo di crisi sistemica poiché già
nella sua strutturalità e globalità, questa crisi rende evidente la
tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi più sviluppati, o
meglio da noi sempre definiti paesi a capitalismo maturo. E’ chiara
l’evidenza in questo caso dell’enorme distruzione di “forze produttive
in esubero”, siano esse forza lavoro o capitale come esplicitazione di
forma di lavoro anticipato, e quindi non vi sono più le condizioni per
ripristinare un nuovo modello di valorizzazione del capitale che sappia
dare la “giusta” redditività agli investimenti; diventa così pressocchè
impossibile, e non conveniente in termini di profittabilità, creare
possibilità per un nuovo processo di accumulazione capitalista, anche
attraverso il cambiamento del modello di produzione.
Ciò significa che la costante sovrapproduzione di merci e capitali
nei paesi a capitalismo maturo non trova più soluzione né nelle varie
forme di presentarsi e di fuoriuscire dalle crisi congiunturali né di
quelle di natura più strutturale, ma si va configurando sempre più un
carattere di crisi globale accompagnata da crisi sistemica. Ciò perché
le stesse relazioni di produzione entrano in conflitto con carattere
endemico, distruggendo per la prima volta anche la stessa forzata
convivenza padrone –lavoratore.
La crisi è sistemica perché sempre più ampia è la divaricazione fra
sviluppo delle forze produttive e modernizzazione e socializzazione
dei rapporti di produzione, al punto che sono ormai intaccati non solo
questi ultimi ma le stesse relazioni sociali in tutti i paesi a
capitalismo maturo; al punto che i nuovi soggetti del lavoro , del non
lavoro e del lavoro negato, cioè quel soggetto che si fa classe
proletaria sfruttata nonostante la modernità delle forme, non accetta
più e non vede possibilità di emancipazione politica, culturale, sociale
ed economica nella società del capitale.
Si cerca così di sopravvivere alla meglio intensificando la
sostituzione della funzione del capitale produttivo con
finanziarizzazione, delocalizzazioni, esternalizzazioni, privatizzazioni
e riducendo drasticamente i costi di produzione con un attacco
violento al generale costo del lavoro, alle stesse garanzie e diritti
del lavoro, al salario diretto, indiretto e differito, provocando
disoccupazione strutturale, precarizzazione istituzionalizzata, uso
ricattatorio della forza lavoro immigrata per espellere manodopera
locale, più costosa e più esigente in termini di diritti e garanzie.
E’in questo senso che va interpretata l’azione dell’Unione Europea,
che non dotata di una autonoma capacità politica, impone ai paesi
deficitari le stesse regole dei piani di aggiustamento strutturale che
l’FMI ha applicato in tutti gli ultimi 30 anni per fare “strozzinaggio”
sui paesi dell’America Latina e condizionarne le modalità di sviluppo,
facendo così giocare ora in Europa come allora in America Latina, un
ruolo centrale alle regole della Banca Mondiale oltre a quelle del Fondo
Monetario Internazionale.
In Europa la strategia dell'austerità è un fallimento completo come
procedimento per stabilire nuove basi per l'accumulazione a lungo
termine. Nel 2010, anno in cui sono stati introdotti gli aggiustamenti
generalizzati, il debito estero pubblico e privato dei paesi
dell'eurozona era di 19,5 bilioni di euro. Alla fine del 2012, dopo tre
anni di tagli e deterioramento della qualità della vita e del lavoro, il
debito estero è aumentato fino a 20,8 bilioni. Nel 2010, il debito
estero dei paesi dell'eurozona era di 5,6 bilioni, mentre nel 2012 era
aumentato a 6,4 bilioni.
È evidente che le politiche di aggiustamento non sono servite a
ridurre l'indebitamento. L'ostinazione con cui la Troika mantiene le sue
politiche di aggiustamento, è dovuta al fatto che stanno avendo un gran
successo nell'indebolire la lotta dei lavoratori e nel portare avanti
la rapina del Tesoro, degli attivi pubblici e dei trasferimenti del
valore aggiunto dai lavoratori al capitale.
In pratica salvare l’Unione Europea e quindi salvare il modello di
export tedesco significa semplicemente distruggere le possibilità
autonome di sviluppo dei paesi europei dell’area mediterranea.
2. Diventa sempre più urgente la determinazione politica di un
programma alternativo che permetta di superare il marasma sociale ed
economico in cui si trovano i cittadini dei paesi europei e che deve
partire dalla comprensione profonda delle contraddizioni con cui devono
confrontarsi le classi subalterne nelle condizioni attuali del
capitalismo europeo. E’ quindi centrale e dirimente l'individuazione di
strumenti più adeguati per l'uscita dalla crisi; questa transizione deve
necessariamente andare verso una socializzazione crescente dei mezzi di
generazione della ricchezza sociale.
Senza una opportuna analisi della fase attuale del capitalismo in
Europa e nel mondo, il programma alternativo corre il rischio di perdere
la sua capacità di richiamo a causa delle incoerenze e delle
contraddizioni.
In questo mese sono state lanciate due azioni che cercano di
delineare i principi di una alternativa. La prima – intitolata “Qué
hacer con la deuda y el euro? Un manifiesto”[1],
promossa dalla rivista spagnola Viento Sur, dal “Comité pour
l'Annulation de la Dette du Tiers Monde” del Belgio e firmata anche, tra
gli altri, dal principale dirigente del “Blocco de Esquerda” del
Portogallo – si propone come una alternativa al neoliberismo e
all'aggiustamento in quanto strategia di gestione della crisi.
I firmatari ritengono che la forma della crisi corrisponda alla
“crisi del debito sovrano”. Però sfortunatamente non spiegano quale sia
il contenuto concreto, la sostanza, della crisi. Questo limite gli
permette di evitare di analizzare l'Europa vera, l'Unione Europea, e si
riducono ad un richiamo indefinito a “rifondare l'Europa” attraverso una
“strategia di rottura con l'euroliberismo”.
Pretendono di finanziare il deficit pubblico “al margine dei
mercati finanziari” mediante la monetizzazione del deficit “come avviene
negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Giappone, ecc.”. Quindi,
realizzare una gestione del deficit simile a quella di altre potenze
imperialiste (ma a differenza di queste, senza una moneta e una banca
centrale propria) significa per loro una prima “rottura con l'ordine
europeo”.
Per il debito accumulato prospettano una moratoria e una
cancellazione parziale del debito. Questa proposta, che già era stata
pensata dalla Troika per il caso della Grecia, è per loro una “seconda
rottura”.
Alla fine, propongono il controllo dei capitali e la
socializzazione della banca. Pur riconoscendo che si tratti di qualcosa
già intrapreso ad esempio dalla Svezia, per i firmatari costituisce
comunque una “terza rottura”.
Queste tre “rotture” vengono pensate dopo aver rifiutato l'uscita
dall'euro in quanto scelta senza senso né strategia. Dopo aver spiegato
le loro proposte di “rottura” argomentano perché a loro giudizio
“l'uscita dall'euro è una garanzia di rottura con l'euroliberismo”:
poiché si otterebbe una finanziarizzazione del deficit al margine dei
mercati finanziari, però si produrrebbe “una speculazione contro una
nuova moneta”; poiché “il governo si vedrebbe forzato a ridenominare il
debito pubblico nella nuova moneta nazionale, aspetto che equivarrebbe a
realizzare una cancellazione parziale del debito”; poiché bisognerebbe
“nazionalizzare la banca” il che “porterebbe all'aumento del debito
pubblico”; poiché “i tipi di interessi tenderebbe al rialzo” e perché
abbandonare l'euro equivale, secondo i firmatari, a promuovere una
strategia “isolazionista e nazionale”.
In molti studi del CESTES (centro studi dell’USB-Unione Sindacale
di Base-Italia , affiliata alla Federazione Sindacale Mondiale) abbiamo
sottolineato che indipendentemente dal fatto che la sua profondità si
sia evidenziata nelle Borse e nelle pratiche speculative dei grandi
sistemi bancari, non si trattava della classica crisi finanziaria,
poiché in tale “normale” situazione non si interrompono i processi
internazionali di accumulazione del capitale.
Si cerca così come soluzione della crisi di sopravvivere alla
meglio intensificando la sostituzione della funzione del capitale
produttivo con la finanziarizzazione, le delocalizzazioni,
esternalizzazioni, privatizzazioni e riducendo drasticamente i costi di
produzione, con un attacco violento al generale costo del lavoro, alle
stesse garanzie e diritti del lavoro, al salario diretto, indiretto e
differito, provocando disoccupazione strutturale, precarizzazione
istituzionalizzata, uso ricattatorio della forza lavoro immigrata per
espellere manodopera locale, più costosa e più esigente in termini di
diritti e garanzie.
Può anche avvenire che la crisi finanziaria si accompagni a un
radicale mutamento del modello di accumulazione capitalista e l’annesso
sistema produttivo; ciò è avvenuto probabilmente solo in un caso nel
1929, determinando radicali cambiamenti politico-istituzionali che si
associano alla definizione di un diverso modello di produzione e di
sviluppo. Ed ecco che in questo caso la crisi assume connotati di
strutturalità e può nascere un nuovo modello di accumulazione
capitalista, come è avvenuto nel dopo ’29 con la complessità del modello
keynesiano nelle sue diverse forme ed esplicitazioni.
In questo contesto,noi abbiamo più volte proposto che è
indispensabile un programma per superare la crisi della Eurozona a
beneficio dei lavoratori che può arrivare solo grazie ad una importante
accumulazione delle forze che doti di maggior potere il movimento di
classe dei lavoratori europei. Bisogna avere a disposizione una proposta
alternativa all’Unione Monetaria subordinata ad una globalizzazione
finanziaria imposta dal dominio mondiale del capitale statunitense. E
una proposta alternativa al mercato unico creato in funzione degli
interessi del capitale europeo. Per questa ragione, il dibattito
sull’euro sta discutendo la costruzione di una alternativa al caos
economico e sociale generato dalle politiche di gestione della crisi
dell’UE.
Invece, secondo gli autori di questo manifesto europeo, l'uscita
dall'euro è impossibile perché implica proprio l'attuazione delle
proposte che loro avanzano! (soppressione del debito e nazionalizzazione
bancaria). Per qualche misteriosa ragione che non viene menzionata, se
si prendono queste misure al di fuori dell'euro il paese verrebbe
sottomesso a rappresaglie da parte dei mercati finanziari, cosa che non
avverrebbe con la loro proposta, semplicemente perché hanno deciso di
non tenere presente i mercati finanziari.
A queste assurdità vanno aggiunte anche altre proposte deliranti:
“l'idea è estendere questa politica su scala europea” (ossia,
propongono di cacciare l'euroliberismo dagli uffici comunitari,
rimpiazzandolo con “coloro che rompono con l'Europa” senza dirci come);
le rappresaglie contro un governo di sinistra dovranno essere
neutralizzate con contromisure che includano “il ricorso effettivo a
misure protezioniste, se necessario” (questo lo dicono dopo aver
rifiutato l'uscita dall'euro perché secondo i firmatari le strategie
competitive implicano “l'abbandono della strategia di lotta comune
europea”). La loro alternativa si basa sulla rifondazione dell'Europa
anche se “la rifondazione dell'Europa non può essere condizione
necessaria per mettere in pratica una politica alternativa”.
Dicendo una cosa e il suo contrario, ci dimostrano che per loro
l'uscita dall'euro non è una necessità, né un risultato ineludibile
dell'evoluzione attuale delle cose; per loro “l'uscita dall'euro è una
minaccia o un'arma a cui ricorrere in ultima istanza”. Non sappiamo come
vogliano utilizzare in ultima istanza la suddetta arma, perché poi alla
fine finiscono per collassare nelle solite proposte del partito
socialista europeo: un bilancio europeo più grande, una fiscalità comune
e un fondo di investimenti europei. Non sembra proprio che queste
proposte di “rottura” abbiamo bisogno di armi, sia in prima che in
ultima istanza.
Se abbiamo dedicato tanto spazio alla spiegazione della proposta è
perché riflette una costante presente in quasi tutti gli sforzi per
unificare le lotte e i progetti, la mancanza di una analisi rigorosa da
parte della sinistra, anche di quella che si proclama radicale, della
vera natura delle istituzioni comunitarie e della crisi stessa. Se non
ci fossero prestigiosi economisti di sinistra tra i firmatari
bisognerebbe pensare che questa proposta sia una favoletta, un racconto
per bambini applicato a una politica di fantasia: l'orco – il mercato
finanziario – esiste, però non ci fa paura perché noi non lasceremo che
entri nelle nostre case.
3. Un altro spirito politico e sociale è nella la proposta firmata
da Pedro Montes, da Julio Anguita e da altri compagni della sinistra
spagnola. Nonostante la proposta dei compagni spagnoli abbia gravi
limiti e contraddizioni, in questa però troviamo un punto di incontro
per portare avanti un programma di rottura con il progetto imperiale
europeo. Il “Manifiesto por la recuperación de la soberanía económica,
monetaria y ciudadana: SALIR DEL EURO”[2]
non si fa illusioni sulla vera natura dell'Unione Europea; infatti
riconosce che “lo Stato sociale non è compatibile con l'Europa di
Maastricht” e “il carattere irriformabile dell'Europa nata soprattutto
dopo l'apertura della zona euro all'Est” e quindi “l'imprescindibile e
urgente necessità di rompere con le forzature dei Trattati europei non
può essere paralizzata o occultata da progetti di altra natura”.
La nostra discrepanza con i firmatari di questo manifesto non si
fonda sulla caratterizzazione dei trattati e delle istituzioni
comunitarie, poiché sembra chiaro che sia per loro che per noi, le
politiche neoliberali di aggiustamento non sono solo un aspetto
congiunturale vincolato alla specifica condizione attuale in cui si
trovano i rapporti di forza fra le classi, ma sono le stesse strutture
comunitarie, la loro legislazione e le regole di funzionamento che
costituiscono una proposta capitalista e imperialista irriformabile, che
non lascia nessuno spazio per un progetto di socializzazione dei mezzi
di generazione della ricchezza.
Il problema è che il loro manifesto vuole “creare le condizioni
per uscire dalla crisi” con un anacronistico “recupero della sovranità
nazionale”, in questo caso attraverso le politiche monetarie. Così,
dicono che l'incorporazione [della Spagna] nella moneta unica è la
ragione principale della situazione di destabilizzazione attuale,
dimenticando che sin dalla sua entrata nella UE nel 1986, la Spagna ha
cominciato a partecipare ad una divisione europea del lavoro che
spingeva per la deindustrializzazione della periferia del Sud per
ricostruire (attraverso le delocalizzazioni) una base di componenti
industriali prodotti a basso costo salariale nella periferia dell'Est.
E’ in termini di centro-periferia che si è formato uno spazio
imperiale in Europa, sulla base delle stesse strutture comunitarie che
precedono di decenni la messa in pratica della moneta unica; anche
questa è stata una decisione politica europea che aveva il fine di
generare una certa autonomia per il progetto comunitario di fronte
svolgendo un ruolo centrale nella competizione globale contro l'egemonia
dell'imperialismo statunitense sul sistema finanziario internazionale,
decisione che ha avuto scarso successo a questo proposito.
I firmatari del manifesto spagnolo condividono l'illusione per
cui uscire dall'euro significherebbe recuperare spazio per realizzare
politiche simili a quelle degli anni '60 e '70: una politica del tasso
di cambio per fare svalutazioni competitive (che comporterebbe anche
“l'uscita” dal mercato finanziario globale che fissa attualmente i tassi
di cambio: salvo gli Stati Uniti, solo le altre potenze con importanti
riserve possono intervenire nei mercati delle divise per modificare il
tasso di cambio delle loro monete nazionali); una monetizzazione del
deficit per “fornire liquidità al sistema e stimolare una domande
ragionevole” (come se la quantità di denaro fosse una variabile
indipendente che determina la circolazione di una maggiore quantità di
valori di scambio, o meglio di ricchezza reale prodotta! Vale la frase
che la leggenda attribuisce al grande rivoluzionario , ma non certo
esperto di questioni finanziarie-monetarie, Pancho Villa : “Manca
denaro? Allora stampatelo!”).
Somiglia in parte decisiva, questa del manifesto spagnolo, a quella
proposta lanciata da tempo dalla fazione del capitale internazionale
più a guida britannica e di settori di una parte dei potentati della
cosiddetta sinistra euroscettica, che auspicano la creazione di un
“secondo euro”, puntando a svalutare e a ristrutturare il debito
pubblico complessivo, cercando di attuare anche politiche di
nazionalizzazione di alcune imprese e politiche industriali di
miglioramento della produttività. Questa strategia radicale di
fuoriuscita dall’”euro 1”, prevedendo al limite anche il ritorno alle
vecchie monete nazionali, richiamandosi ad una improponibile, e allo
stato dei processi di globalizzazione ormai incompatibile, sovranità
monetaria ed economica nazionale. Si tratta in pratica oggi di una
proposta insostenibile economicamente e finanziariamente nell’ambito
dell’attuale fase della mondializzazione finanziaria del capitale.
E’ in pratica priva di reali possibilità attuative sia per le
forti pressioni protezionistiche sia per una sicura connessa fuga dei
capitali e quindi condizioni che abbasserebbero le capacità di
investimento interno al sistema europeo.
4. Se il manifesto europeo coordina i mercati finanziari affinché
questi non ostacolino le loro immacolate proposte di gestione della
crisi finanziaria, il manifesto spagnolo, non preoccupandosi dei
problemi, li sopprime per decreto; “bisogna smettere di preoccuparsi
transitoriamente del deficit”, affermano. Però questo è possibile solo
se lo Stato dispone di strumenti non monetari per pianificare
l'assegnazione delle risorse: l'alternativa non è quindi preoccuparsi o
non preoccuparsi del deficit; l'alternativa è disporre di uno Stato che
assegni le risorse primarie , cioè le forze produttive (capitale e
lavoro) attraverso la pianificazione o di uno Stato che ridistribuisca
le risorse mediante il bilancio e il deficit. L'alternativa non passa
tra l'aggiustamento perenne e la sovranità nazionale, ma tra la
continuità del capitalismo in stagnazione e la bancarotta, e la
socializzazione di massa dei mezzi della ricchezza sociale.
Per questo non serve solo, come dice il manifesto spagnolo,
l'uscita dall'euro in quanto condizione necessaria per risolvere la
crisi. È una condizione necessaria, ma non sufficiente.
Non basta volere la rottura con la zona euro: bisogna proporre una
riconfigurazione dello spazio produttivo e sociale europeo che non può
avvenire sulla base del contrastare lo Stato di fatto ormai storico
della scomparsa delle sovranità nazionali, ossia sulla base di un morto
che per quanto lo si invochi, non resusciterà mai.
Da parte nostra come CESTES, in tutti i nostri studi e ricerche
si dichiara la necessità di un cambiamento radicale socioculturale
(quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che
modifichi il senso comune), che inverta le relazioni causali tra
l’economia e la politica ; percorso questo che è già sperimentato, ad
esempio nei paesi dell’area dell’ALBA, e in particolare in Bolivia dove i
movimenti sociali, di indios, i contadini, i minatori hanno determinato
nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento
politico della democrazia partecipativa.
Su questa strada sembra incamminarsi il nuovo movimento antieuro e
anticapitalista nato in questi giorni in Italia, (Ross@), attraverso lo
sviluppo dell’esperienza di riflessione e lotte del “Comitato NO
debito” che unisce organizzazioni sindacali conflittuali di classe come
USB, Rete 28 Aprile, e organizzazioni politiche come la Rete dei
Comunisti, Rifondazione Comunista e molte altre strutture dei movimenti
sociali anticapitalisti italiani.
L’errore dei compagni spagnoli firmatari del manifesto è quella di
muoversi da keynesiani di sinistra, e quindi non solo
nell’identificare questa crisi come da sottoconsumo, senza intenderne il
carattere sistemico, ma la loro ipotesi dell’”Europa sociale buona” si
scontra con la loro stessa impostazione di crescita nella compatibilità
capitalista. Infatti ecco che da ormai due anni si moltiplicano in
questo senso proposte per alzare il denominatore del rapporto debito
pubblico-PIL per ridurre l’impatto di tale indice attraverso stravaganti
idee dei keynesiani di sinistra per stimoli alla crescita: green
economy e progetti ambientali, e progetti infrastrutturali tanto
fantascientifici quanto inutili. E per tutto ciò le soluzioni di
finanziamento potrebbero derivare da l’emissione di nuovi strumenti
finanziari, come gli eurobond per attrarre liquidità dal resto del mondo
e sostenere tale modalità di investimenti, in una nuova crescita che
porterebbe come conseguenza anche alla messa a privatizzazione della
stessa spesa sociale (ospedali privati , università private, fondi
pensione, ecc.).
A quelli che vogliono “difendere” lo Stato sociale e la sovranità
nazionale in Europa, li aspetta lo stesso destino degli artigiani che
lottavano per mantenere un certo tipo di corporazioni del XIX secolo e
dei preti rurali britannici che volevano re-instaurare le leggi dei
poveri. Il capitalismo è cambiato, e in Europa, di fronte alle
difficoltà nel combattere l'egemonia dell'impero statunitense, il
capitale ha rafforzato i modelli di divisione imperiale del lavoro, di
modo che l'interconnessione tra le economie locali impedisca l'uscita
“nazionale” che non si fonda sull'isolazionismo estremo, una possibilità
alla portata solo di chi dispone di risorse naturali importanti.
5.Da subito è possibile contrapporsi ai i meccanismi di potere dei
centri-polo, delle aree del sistema di dominio del modo di produzione
capitalista, come sta tenacemente realizzando l’alleanza del socialismo
per il XXI secolo dell’ALBA. E per le organizzazioni antimperialiste e
anticapitaliste socialiste che agiscono in Europa si tratta di
acutizzare le contraddizioni contrapponendosi direttamente alle regole
dei potentati dell’Europolo, a partire dalle grandi lotte dei sindacati
di classe, dei movimenti conflittuali sociali di massa, uniti nella
battaglia contro il pagamento del debito al sistema bancario e
finanziario e contro l’Europolo della Troika.
I paesi della periferia europea necessitano di un sistema monetario
e finanziario alternativo all’euro e alla globalizzazione. Però non si
può concepire un sistema di questo tipo nell’ambito del mercato unico
neoliberista tale come è stato costruito nei Trattati europei. Le regole
di funzionamento di questo mercato impediscono una soluzione che
apporti stabilità al processo di accumulazione, almeno nel senso che
s’intende per “stabilità” sotto il sistema capitalista, cioè un periodo
relativamente lungo di crescita nel quale si susseguono cicli
successivi di espansione e di contrazione economica.
Per tutto questo l’alternativa monetaria e finanziaria deve
inserirsi in una proposta di integrazione economica e sociale del tutto
differente da quella perseguita dall’Unione Economica e Monetaria e dal
mercato unico.
Nelle tendenze attuali non rimane da scoprire nessuna forza interna
al sistema che permetta di pensare alla possibilità di una
ricomposizione delle condizioni del “patto sociale” del periodo
post-guerra, che ha dato origine al cosiddetto Stato sociale keynesiano
dei paesi centrali, ancor meno per un’eventuale estensione dello stesso
verso la maggioranza espropriata e impoverita del pianeta.
L’alternativa possibile e necessaria richiede una maggiore
qualificazione e sofisticazione nelle richieste e nelle analisi dei
lavoratori e dei loro rappresentanti, dei cittadini e delle loro
organizzazioni. Richieste di miglioramento sociale, ma anche di
ampliamento degli spazi di decisione democratica partecipativa, per
inaugurare la fase della trasformazione tecnologica, le decisioni di
produrre e distribuire sotto il controllo di tutti i lavoratori;
decisioni subordinate ad un processo politico e sociale di discussione
sul ruolo che devono occupare le macchine e la scienza nelle nostre
vite. E’ inaccettabile che l’avanzamento tecnologico, invece che
liberare l’umanità dal lavoro pesante, provochi la disoccupazione;
invece di migliorare la qualità di vita, provochi nuove forme di
inquinamento, invece di incrementare il sapere globale, sequestri la
conoscenza nascondendola tra il muro dei brevetti e i diritti di
proprietà.
E’ altresì importante che il cambiamento del sistema monetario e
finanziario sia una risposta congiunta, poiché il peso della periferia
europea mediterranea è molto superiore a quello dei singoli paesi presi
separatamente, e la sua capacità di resistenza e negoziazione è molto
maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è
rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei
settori strategici. La nazionalizzazione di tali settori dovrebbe
permettere di realizzare utili da indirizzare verso investimenti per usi
sociali.
La nazionalizzazione delle banche è la parte più importante del
processo generale per uscire dalla finanziarizzazione dell’economia
globale, e finché non si sarà realizzato questo obiettivo continuerà il
deterioramento della qualità della vita e del lavoro al sol fine di
aumentare il tasso di profitto. Rompere la logica del capitale
finanziario significa nazionalizzare le decisioni d’investimento per
favorire le attività socialmente utili, sottoposte a un criterio di
rendimento sociale ed ecologico, che sono criteri di medio e lungo
termine.
Il controllo sociale degli investimenti è imprescindibile per
dinamicizzare l’attività produttiva, e per orientare il credito in
funzione di ottenere il massimo sviluppo dell’occupazione e dell’utilità
sociale, e tali funzioni sono fortemente differenti da quelle che
applica la banca privata che è orientata al criterio del massimo
profitto a breve termine.
La nazionalizzazione delle banche in una situazione di insolvenza e
di dipendenza dall’aiuto pubblico è anche un requisito per evitare la
fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione
capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni,
energia e trasporti potrà portare le risorse per realizzare una
strategia di rilancio produttivo a breve termine che permetta di creare
le condizioni affinché milioni di disoccupati nei paesi della periferia
europea mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor
tempo possibile.
Per queste ragioni, l'uscita dall'euro deve essere un momento che
rientra all'interno di un processo di unificazione e rafforzamento delle
forze di rottura nell'insieme della periferia dell'eurozona; ha senso
solo all'interno di un nuovo progetto geostrategico e geopolitico di
riconfigurazione dello spazio euro-mediterraneo che faccia da
contrappeso alle forze reazionarie dei paesi periferici e da fronte
comune di difesa all'offensiva del centro (geografico)
politico-economico capitalista dell'Unione Europea.
Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per paesi con
strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa
realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere, tatticamente
inizialmente per evitare profondi attacchi speculativi, un margine di
negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale
Europea e al contempo sia di creare un nuovo blocco politico
istituzionale capace di realizzare un modello di pianificazione a
compatibilità socio-economica con forme di investimento sociale e di
accumulazione favorevole ai lavoratori.
L’uscita dall’euro dovrebbe realizzarsi in forma concertata, in
primo luogo tra i paesi della periferia mediterranea con quattro momenti
intimamente relazionati senza i quali tale processo potrebbe risultare
un disastro per tutti.
I quattro momenti sono: a) La determinazione di una nuova moneta
comune all’Europa mediterranea (a titolo esemplificativo potremmo
chiamare questa moneta “LIBERA”, cioè una moneta appunto libera dai
vincoli monetari imposti nella costruzione dell’euro); b) La
rideterminazione del debito nella nuova moneta dell’area periferica (a
titolo esemplificativo tale area la potremmo chiamare ALIAS – Area
Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale) relazionata al cambio
ufficiale che si stabilisce; c) Il rifiuto e azzeramento almeno di una
parte consistente del debito, a partire da quello con le banche e le
istituzioni finanziarie, e l’imposizione di una rinegoziazione dello
stesso residuo; d) La nazionalizzazione delle banche e la stretta
regolazione (incluso la proibizione momentanea) della fuoriuscita dei
capitali dall’area stessa.
Tutti questi elementi si devono però realizzare simultaneamente,
per evitare la decapitalizzazione dell’intera regione periferica e per
assumere un controllo adeguato sulle risorse disponibili per gli
investimenti.
6. Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di una nuova
area, quella che abbiamo chiamato ALIAS , cioè di una nuova ALBA
euro-afro-mediterranea, con nuova moneta e di una politica orientata in
favore dei lavoratori, contare su uno spazio produttivo nel quale si
possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di
una pianificazione economica per uno sviluppo sociale collettivo
solidale, complementare, e un benessere qualitativo per l’insieme della
popolazione della nuova area economico-commerciale e monetaria, ma che
si fondi su una comune strategia politica a carattere socialista.
Per questo, una alternativa globale ridefinisce il discorso
politico nel terreno del sociale e subordina a questo discorso politico
sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia.
Costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi
da subito nella piena autonomia da qualsiasi modello consociativo,
concertativo e di cogestione della crisi per riaffermare, attraverso la
pianificazione socio-economica della solidarietà e complementarietà, la
volontà di autodeterminazione dei popoli nella democrazia politica
partecipativa. Solo così l’autonomia di classe assume il vero connotato
di indipendenza dai diversi modelli di sviluppo voluti e imposti dalle
varie forme di capitalismo, ma soprattutto da sempre lo stesso sistema
di sfruttamento imposto dall’unico modo di produzione capitalistico.
Subordinare l’economia alla politica sarebbe una alternativa alla
mondializzazione capitalista realmente esistente. Qualsiasi alternativa
fattibile deve portare avanti la creazione di un polo di controegemonia
sociale e politica che dovrà rispondere alla nuova dimensione
territoriale dei mercati e dei processi produttivi. E quindi in tal
senso il movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento
cogestore della crisi ma trovare anche nella crisi gli elementi del
rafforzamento della sua soggettività tutta politica.
Se le nuove richieste si dirigono verso lo spazio di produzione e
distribuzione della ricchezza sociale, prima o poi si concretizzeranno
in una strategia complessiva di rottura con lo stesso capitalismo.
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