Bruno Ferrante, Enrico Bondi e Giuseppe De Iure
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La notizia è davvero drammatica: dopo il sequestro di 8,1
miliardi si è dimesso il CdA dell’ILVA mettendo a rischio, prima di tutto, oltre
40.000 posti di lavoro (ben oltre, in verità, perché c’è da calcolare l’indotto)
ma anche, ed essenzialmente, la presenza nel nostro Paese di un settore
produttivo strategico come quello della siderurgia.
Una storiaccia di corruzione:
dalla distruzione del
territorio, come a Taranto, all’evasione fiscale.
Ne titolano questa mattina, 26 Maggio, “Repubblica” e “Il
Corriere della Sera”: mentre non lo fa, a dimostrazione di un declino
inarrestabile dal punto di vista della capacità di comprendere la vera qualità
delle contraddizioni sociali, “Il Manifesto” fermo ai funerali di Don Gallo e
alle frasi di Moni Ovadia (un segnale preoccupante davvero, questo che il “Manifesto”
lancia a ciò che rimane della sinistra di classe in Italia).
Ma non è questione di titoli di giornale: è questione concreta,
vera, fondamentale rispetto ai temi del lavoro, della produzione dell’ambiente.
E’ questione dell’evidenza del fallimento del processo di
privatizzazione di un comparto industriale decisivo, regalato attraverso un’inaccettabile
logica mercantile a una vorace “borghesia compradora”, voracemente
distruttrice, colonizzatrice nel suo stesso Paese.
Un fenomeno che, in Italia, è accaduto in tanti altri
settori a partire dall’agro-alimentare:
si pensi alle vicende Parmalat e
Cragnotti.
Tra l’altro non si può non notare che l’avvoltoio che, a fallimento
avvenuto, si è aggirato sia sulla carogna di Parmalat, sia adesso su quella di
ILVA sia lo stesso Bondi, già ministro con Monti, grande tagliatore di posti di
lavoro e personaggio evidentemente insensibile, anche dal punto di vista etico,
alla disperazione di migliaia di lavoratori oltreché perfettamente indifferente
alla realtà di una finanziariazzazione dell’economia realizzata davvero in
maniera “delinquenziale”.
Il disastro della siderurgia italiana arriva, però, da
lontano: da scelte sbagliate assunte al riguardo dell’intero comparto fin dall’inizio
degli anni ’80, allorquando Romano Prodi, presidente dell’IRI (nominato in quel
ruolo dal governo Craxi) realizzò un tragico mix di dismissioni e
privatizzazioni.
Nel frattempo abbiamo perso know-how, capacità tecnologiche,
rapporti all’interno della divisione internazionale del lavoro nel comparto
(quando si pensa, ad esempio che proprio l’Italia avrebbe potuto contribuire,
fattivamente, all’enorme crescita del settore in un paese come la Cina, per
condizioni favorevoli che proprio un certo tipo di produzione poteva creare nel
tempo).
“Gli operai sperano nella nazionalizzazione”, titolano i
giornali.
Ma in queste condizioni di quale nazionalizzazione (pur,
probabilmente, ineluttabile, a questo punto) potrebbe trattarsi?:
ancora un caso
di scuola di “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite”
(così fu definita la politica economica del governo fascista dopo il 1926)?
Una privatizzazione dei profitti che, nel nostro caso odierno, comprende anche un’enorme
“zona grigia” di evasione fiscale. Evasione fiscale che, come recitano sentenze
di tribunale, ha avuto come protagonista uno stesso pluri- Presidente del Consiglio.
Al fondo è il sistema che non funziona, è la gestione
criminale della crisi che deve essere affrontata: si capisce benissimo che non
ci sono le forze, sociali e politiche, adeguate per operare davvero in questa
direzione.
Ma non dobbiamo stancarci di affermarlo e di cercare di
disvelare la realtà agli occhi dell’opinione pubblica: facendolo senza
ricercare la facilità degli slogan populistici, ma operando nel definire la
concretezza degli elementi fondativi della modernità di una contraddizione di
classe, ma così attuale come oggi.
Un’ultima annotazione, apparentemente fuori tema: il
segretario del PD, ed ex-segretario generale della CGIL. Epifani definisce oggi
“stupido” il patto di stabilità europeo.
Una dichiarazione che arriva dopo anni di vero e proprio “terrorismo
ideologico” condotto contro chi aveva tentato, proprio sul terreno della
costruzione europea, di ragionare in termini diversi dal “pensiero unico" dei
banchieri, dei monetaristi, dei liberisti allievi di Friedman e dei “Chicago
Boys”.
E’ il caso di rammentare, non tanto e non solo in ragione
dell’affermare “avevamo ragione”, che alla vigilia del trattato di Maastricht,
nel 1989, in contemporanea delle elezioni europee, si svolse un referendum
consultivo proprio sulla questione europea e soltanto l’11,5% dell’elettorato
si pronunciò per il “no” (naturalmente, all’epoca, i sostenitori del “no”
furono tacciati di passatismo, miopia, ecc..): un caso di vera e propria
mistificazione di massa, simile a quella che quattro anni dopo segnò, sempre
attraverso lo strumento del referendum, la fine del sistema elettorale
proporzionale.
Tanto per dire, insomma che i populisti non si aggirano
sempre tra i pericolosi agitatori di piazza, ma si trovano (anche e soprattutto)
tra distinti professori di economica, con incarichi ministeriali, provenienti
da celebri università e da rinomati centri studi.
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