Disegualianze folli, e in rapida crescita, tra i
redditi da lavoro dipendente (precario e non) e le tribuzioni dei
dirigenti; che spesso siedono ai vertici di più aziende.
Una forbice che cresce, allargando senza freni le diseguaglianze, producendo un rapporto di 1 a 163 tra la retribuzione media di un lavoratore dipendente (pari a 26 mila euro lordi) e il compenso medio degli amministratori delegati e dei top manager (pari a 4 milioni e 326 mila euro)”. Molto più di Obama e Draghi, per fare giusto un "modesto" confronto". In Italia si discute ormai soltanto del epso abnorme dei "costi della poltica", che vanno certo abbattuti salvaguardando però la possibilità di "far politica" anche a quei ceti sociali che di soldi per fare lobby non ne hanno. Ma quanto pesa, sull'economia del paese, l'arraffa-arraffa del management aziendale?
Un aggiornamento del rapporto sui salari 2012, presentato ieri dalla Fisac Cgil (i bancari, che nei dati possono mettere le mani) dà una fotografia della crescita delle disegualianze tra chi un lavoro ce l'ha. Resta in questo caso fuori dal conto chi lo cerca o ha smesso ersino di cercarlo.
Per la Cgil, che certo non osa mettere in discussione il modello di produzione e distribuzione del reddito, si tratta di “un distacco enorme che richiede subito una legge che imponga un tetto alle retribuzioni dei top manager”. Un modo per parlar d'altro, visto che nella gestione aziendale – anche e soprattutto ai livelli più bassi dell'imprenditoria all'italiana, vige la regola dello “scaricare” sui conti sociale una serie di spese personali dei “padroni” (dall'auto alla casa). In questi sei anni di crisi il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni si è più che dimezzato mentre non hanno subito alcuna flessione i compensi dei top manager, così come nessuna incidenza ha subito quel 10% di famiglie più ricche, determinando e incrementando la vera forbice delle diseguaglianze. Infatti dallo studio emerge che “il rapporto tra retribuzione lorda di un lavoratore dipendente e compenso medio di un top manager è attualmente di 1 a 163 mentre era nel 1970 di 1 a 20”.
Questo spaventoso trasferimento di reddito, avvenuto in presenza di una contemporanea caduta di “competitività” delle imprese italiche, dovrebbe sollevare domande serie sia sul “merito” - alla prova dei fatti piuttosto “scarsino” degli imprenditori nostrani, sia e soprattutto sulla politica sindacale sviluppata negli ultimi 40 anni (“sacrifici”, “responsabilità nazionale”, “concertazione”, ecc). E invece niente. La Cgil “fotografa” il fenomeno come se riguardassse qualcun altro; e infatti non si propone di far qualcosa, ma di “chiedere una legge” (sollecita infatti “la presentazione da parte del centro-sinistra della legge di iniziativa parlamentare per porre un tetto alle retribuzioni nel rapporto uno a venti, immaginando che in tempi di difficoltà come questo le quote eccedenti di compensi dei top manager possano essere versate in un fondo di solidarietà per favorire un piano di occupazione per i giovani”). Poi, se nessuno la farà, seguirà una battuta polemica in qualche talk show. E basta lì.
Il salario cumulato nei passati quattro anni da un lavoratore dipendente è pari a 104 mila euro lordi mentre per i top manager è pari a 17 milioni e 304 mila euro, pari cioè ad una differenza di 17 milioni e 200 mila euro.
In dettaglio:
I sette amministratoridelegati delle maggiori aziende operanti sul territorio romano (Eni, Enel, Finmeccanica, Telecom Italia, Acea, Bnl, Caltagirone) hanno percepito nel 2012 quanto 864 lavoratori dipendenti e quanto 1.728 lavoratori in collaborazione. E infatti la “classe dirigente”, dal padronato alla politica (Grillo compreso), giocano a mettere gli uni contro gli altri – per l'oggettiva differenza di salario, che arriva quasi al doppio – i precari con gli “stabili” (sorvolando ampiamente sul fatto che i secondi appaiono ormai una categoria in via di estinzione; nessuno viene più asunto con un contratto a tempo indeterminato, ormai). Mentre la “piccola” differenza tra lavoratori dipendenti in genere – precari e non – viene accuratamente nascosta o giustificata con varie argomentazioni retoriche sul “merito”. De che?
Negli anni che vanno dal 2009 al 2012 anche gli A.d. delle municipalizzate e controllate di Roma capitale (Atac, Roma Metropolitane, Ama, Risorse per Roma, Roma servizi per la mobilità, Eur S.p.a., Zetema Srl, Roma Entrate) hanno accumulato compensi milionari: otto persone hanno percepito ben 8 milioni 7mila euro. Tutto ciò a fronte di un quadro economico e sociale drammatico con una disoccupazione giovanile (15-24 anni) che a Roma arriva al 40,1%, con il 52,2% dei pensionati che percepisce una pensione inferiore a mille euro; con circa 170 mila famiglie ridotte in stato di povertà.
Non sembra che nel resto d'Italia le cose vadano diversamente. E ci sembra proprio il caso di scatenare un po' di conflitto sociale: contro i padroni.
Una forbice che cresce, allargando senza freni le diseguaglianze, producendo un rapporto di 1 a 163 tra la retribuzione media di un lavoratore dipendente (pari a 26 mila euro lordi) e il compenso medio degli amministratori delegati e dei top manager (pari a 4 milioni e 326 mila euro)”. Molto più di Obama e Draghi, per fare giusto un "modesto" confronto". In Italia si discute ormai soltanto del epso abnorme dei "costi della poltica", che vanno certo abbattuti salvaguardando però la possibilità di "far politica" anche a quei ceti sociali che di soldi per fare lobby non ne hanno. Ma quanto pesa, sull'economia del paese, l'arraffa-arraffa del management aziendale?
Un aggiornamento del rapporto sui salari 2012, presentato ieri dalla Fisac Cgil (i bancari, che nei dati possono mettere le mani) dà una fotografia della crescita delle disegualianze tra chi un lavoro ce l'ha. Resta in questo caso fuori dal conto chi lo cerca o ha smesso ersino di cercarlo.
Per la Cgil, che certo non osa mettere in discussione il modello di produzione e distribuzione del reddito, si tratta di “un distacco enorme che richiede subito una legge che imponga un tetto alle retribuzioni dei top manager”. Un modo per parlar d'altro, visto che nella gestione aziendale – anche e soprattutto ai livelli più bassi dell'imprenditoria all'italiana, vige la regola dello “scaricare” sui conti sociale una serie di spese personali dei “padroni” (dall'auto alla casa). In questi sei anni di crisi il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni si è più che dimezzato mentre non hanno subito alcuna flessione i compensi dei top manager, così come nessuna incidenza ha subito quel 10% di famiglie più ricche, determinando e incrementando la vera forbice delle diseguaglianze. Infatti dallo studio emerge che “il rapporto tra retribuzione lorda di un lavoratore dipendente e compenso medio di un top manager è attualmente di 1 a 163 mentre era nel 1970 di 1 a 20”.
Questo spaventoso trasferimento di reddito, avvenuto in presenza di una contemporanea caduta di “competitività” delle imprese italiche, dovrebbe sollevare domande serie sia sul “merito” - alla prova dei fatti piuttosto “scarsino” degli imprenditori nostrani, sia e soprattutto sulla politica sindacale sviluppata negli ultimi 40 anni (“sacrifici”, “responsabilità nazionale”, “concertazione”, ecc). E invece niente. La Cgil “fotografa” il fenomeno come se riguardassse qualcun altro; e infatti non si propone di far qualcosa, ma di “chiedere una legge” (sollecita infatti “la presentazione da parte del centro-sinistra della legge di iniziativa parlamentare per porre un tetto alle retribuzioni nel rapporto uno a venti, immaginando che in tempi di difficoltà come questo le quote eccedenti di compensi dei top manager possano essere versate in un fondo di solidarietà per favorire un piano di occupazione per i giovani”). Poi, se nessuno la farà, seguirà una battuta polemica in qualche talk show. E basta lì.
Il salario cumulato nei passati quattro anni da un lavoratore dipendente è pari a 104 mila euro lordi mentre per i top manager è pari a 17 milioni e 304 mila euro, pari cioè ad una differenza di 17 milioni e 200 mila euro.
In dettaglio:
I sette amministratoridelegati delle maggiori aziende operanti sul territorio romano (Eni, Enel, Finmeccanica, Telecom Italia, Acea, Bnl, Caltagirone) hanno percepito nel 2012 quanto 864 lavoratori dipendenti e quanto 1.728 lavoratori in collaborazione. E infatti la “classe dirigente”, dal padronato alla politica (Grillo compreso), giocano a mettere gli uni contro gli altri – per l'oggettiva differenza di salario, che arriva quasi al doppio – i precari con gli “stabili” (sorvolando ampiamente sul fatto che i secondi appaiono ormai una categoria in via di estinzione; nessuno viene più asunto con un contratto a tempo indeterminato, ormai). Mentre la “piccola” differenza tra lavoratori dipendenti in genere – precari e non – viene accuratamente nascosta o giustificata con varie argomentazioni retoriche sul “merito”. De che?
Negli anni che vanno dal 2009 al 2012 anche gli A.d. delle municipalizzate e controllate di Roma capitale (Atac, Roma Metropolitane, Ama, Risorse per Roma, Roma servizi per la mobilità, Eur S.p.a., Zetema Srl, Roma Entrate) hanno accumulato compensi milionari: otto persone hanno percepito ben 8 milioni 7mila euro. Tutto ciò a fronte di un quadro economico e sociale drammatico con una disoccupazione giovanile (15-24 anni) che a Roma arriva al 40,1%, con il 52,2% dei pensionati che percepisce una pensione inferiore a mille euro; con circa 170 mila famiglie ridotte in stato di povertà.
Non sembra che nel resto d'Italia le cose vadano diversamente. E ci sembra proprio il caso di scatenare un po' di conflitto sociale: contro i padroni.
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