giovedì 30 maggio 2013

MORTE DI UNA DEMOCRAZIA di G.Angelo Billia


Immagine dal sito: xn--identit-fwa.com
E’ stata definita disaffezione alle urne e in mille altri modi, viene “spiegata” , di volta in volta come protesta contro i disonesti, incomprensione delle alleanze spurie parlamentari imposte dal “paese” e via cantando. Qualcuno finge di allarmarsi, qualcun altro strizza l’occhiolino sperando nel ripensamento, premiante per lui, di qualcuno.

Da questo balletto emergono gli unici dati che contano davvero per la nomenclatura: Ho vinto, ho perso, ma…
Non sarebbe giusto dare al momento elettorale locale, sebbene importante, una valenza onnicomprensiva che non può avere, ma trarne qualche insegnamento si.
La crisi della democrazia sancita dalla disaffezione al voto è davvero tale? Se fosse così bisognerebbe dire che quando il voto veniva espresso dal 93% degli aventi diritto la democrazia era in piena forma, ma così non è.
La democrazia è, sul piano elettorale, la possibilità reale di scegliere fra varie alternative. C’è mai stata, in Italia questa possibilità? Per guardare avanti occorre guardarsi indietro e bisogna farlo senza il condizionamento sentimentale del ricordo degli anni “verdi”, senza scambiare i sogni, che pure hanno attraversato buona parte della società italiana dal dopoguerra, per qualcosa di diverso da ciò che erano, sogni, appunto.
Milioni di uomini hanno votato PCI convinti che questo partito rappresentasse interessi diversi da quelli degli altri partiti. Era il partito uscito dalla resistenza, quello in cui tanti giovani avevano riposto le loro speranze di riscatto combattendo contro l’espressione della borghesia costituita dal nazifascismo.
Mettersi ora a valutare quanto fossero ben riposte quelle speranze non ha molto senso, se non per l’aspetto relativo alla degenerazione del PCI e alle modalità percepite da parte delle masse che vi si riconoscevano. Per anni il PCI, abbondantemente  “in mezzo al guado”, ha continuato ad essere percepito come l’alternativa, per anni fior di combattenti, perfettamente in buona fede, hanno continuato a sostenere il partito, senza rendersi conto che nelle segrete stanze, l’obiettivo del potere a chi lavora, lasciava il posto ad un prosaico gestire il potere, comunque.
Erano tempi in cui ancora il corpo elettorale votava in massa, senza rendersi conto che il termine democrazia aveva già perso gran parte del suo significato originale, riducendosi ad una semplice lotteria truccata. Allora come oggi l’alternativa di sistema, quella che contrapponeva gli interessi della classe dominante a quelli della classe lavoratrice, elettoralmente parlando non c’era più, sostituita dalla scelta fra l’una o l’altra cordata politica, tutte depositarie della ricetta migliore per gestire gli interessi della borghesia.
Quando la cosa, nel PCI, è stata formalizzata ufficialmente, si ebbe una levata di scudi di tanti compagni e nacque Rifondazione Comunista. Il mancato chiarimento sul passato del PCI fece sì che si affermassero, da un lato una rivendicazione generica degli ideali comunisti e dall’altro una pratica politica che, si inseriva nel filone collaborazionista del vecchio PCI.
L’alleanza di centro sinistra non è mai stata un’alternativa agli interessi della classe dominante, in quanto propugnava cambiamenti sul modo di gestire, ma non sul “per conto di chi”. E’ ovvio che ciò implicava programmi politici profondamente diversi.
Se oggi è evidente a tutti la crisi di credibilità dello strumento elettorale, pochi ancora hanno avuto il coraggio di por mano alla propria esperienza soggettiva. Non si tratta di dar vita ad autoflagellazioni, bensì di affrontare le proprie responsabilità anche in questo settore. La sinistra comunista ha iniziato a perdere credibilità elettorale, nel momento in cui il suo elettorato ha cessato di votare il simbolo e ha iniziato a votare le scelte politiche, scelte che, in molti casi, avallavano le misure prese da governi tutt’altro che alternativi agli interessi della borghesia.
Purtroppo quello appena ricordato non è l’unico danno ascrivibile anche alla sinistra comunista. Occorre domandarsi sempre, come mai una parte consistente della sinistra non riesca più a concepire altro che una gestione “di sinistra” dello Stato borghese. Questo sentire, comune a molti elettori, lo si deve all’incapacità, indotta da decenni di collaborazione di classe, di concepire un’alternativa reale a questo sistema sociale.
Di qui, dalla mancanza di capacità, da parte dei comunisti, di tenere viva l’idea dell’alternativa, divenuta tutt’uno con l’inganno culturale perseguito da sempre dalla borghesia attraverso i suoi strumenti, ha portato all’affermazione di un’idea di cambiamento basata sugli elementi sovrastrutturali. A questo si deve la “fortuna” elettorale del m5s e a questo si deve la volatilità elettorale.
La politica di allargamento dei mercati perseguita dalla borghesia e l’elemento Europa, intesa come un mondo libero per gli affari, di cui è conseguenza, unitamente agli altri elementi politico economici, al corpo elettorale hanno reso evidente l’inconsistenza delle “alternative” offerte dal momento democratico. Di qui l’identificazione, del tutto confusa e contraddittoria, nelle proposte che più appaiono dirompenti rispetto a quella parte della gestione dello Stato più visivamente banditesca. E’ ovvio che al primo contatto con la realtà, ben diversa e profondamente corrotta di quel che appare, anche le stesse parole d’ordine apparse più dirompenti sono inconsistenti.
Il dibattito, in questi ultimi anni in particolare, si è focalizzato su alcuni elementi della sovrastruttura a tutto discapito degli elementi strutturali. Ha tenuto banco, ad esempio, la questione dell’onestà individuale e collettiva dei politici e questo, da solo, ha determinato lo spostamento di flussi elettorali consistenti. La questione di fondo, nella questione di un concetto di onestà condiviso, cioè la spogliazione delle masse lavoratrici da parte della borghesia imprenditoriale e finanziaria, è rimasta relegata alla sensibilità, anche operativa, di nicchie d’alternativa incapaci di darsi un programma coerente e un’organizzazione comune.
Alcuni, di fronte alla ripresina elettorale di Sel, si sentono legittimati nel perseverare  sulla strada tracciata senza porsi il problema di come avvengono questi spostamenti. Sel alle politiche era il centro sinistra, oggi, senza merito alcuno è all’opposizione. L’elettorato ha premiato quest’ultima collocazione pur sapendo che è contingente, in attesa del grande abbraccio col PD. E’ questo, più di altro, a dare l’idea del vuoto siderale dovuto alla mancanza di un’alternativa reale. Se anche un elettorato che non può certo considerarsi “istintivo” si riduce a scegliere sulla base di elementi transitori come l’”opposizione” di Sel, si rafforza l’idea che le elezioni abbiano ulteriormente accresciuto la componente di sterilità insita da tempo.
La fine del momento elettorale come elemento di democrazia, non può essere considerato come fatto a se stante, è il coronamento di un lavoro partito da lontano che aveva e ha lo scopo di eliminare quella parte della Costituzione scomoda per gli affari e la politica che li rappresenta.
L’elezione e la rielezione di Napolitano, con quello che comporta in termini di scavalcamento della Costituzione, i governi delle “larghe” intese, l’obiettivo di stravolgere anche formalmente la Carta costituzionale, conducono tutti nella direzione di un annullamento dei residui di democrazia presenti nel paese. Non è un problema se non si vota, l’importante è poter dire che le elezioni sono l”libere” e contare su qualche milione di voti per dimostrarlo. Ancora, come sempre, sta prima di tutto ai comunisti avere la capacità di travolgere tutto questo.

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