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E’ stata definita disaffezione alle urne e in mille altri
modi, viene “spiegata” , di volta in volta come protesta contro i disonesti,
incomprensione delle alleanze spurie parlamentari imposte dal “paese” e via
cantando. Qualcuno finge di allarmarsi, qualcun altro strizza l’occhiolino
sperando nel ripensamento, premiante per lui, di qualcuno.
Da questo balletto emergono gli unici dati che contano
davvero per la nomenclatura: Ho vinto, ho perso, ma…
Non sarebbe giusto dare al momento elettorale locale,
sebbene importante, una valenza onnicomprensiva che non può avere, ma trarne
qualche insegnamento si.
La crisi della democrazia sancita dalla disaffezione al voto
è davvero tale? Se fosse così bisognerebbe dire che quando il voto veniva espresso
dal 93% degli aventi diritto la democrazia era in piena forma, ma così non è.
La democrazia è, sul piano elettorale, la possibilità reale
di scegliere fra varie alternative. C’è mai stata, in Italia questa
possibilità? Per guardare avanti occorre guardarsi indietro e bisogna farlo
senza il condizionamento sentimentale del ricordo degli anni “verdi”, senza
scambiare i sogni, che pure hanno attraversato buona parte della società
italiana dal dopoguerra, per qualcosa di diverso da ciò che erano, sogni,
appunto.
Milioni di uomini hanno votato PCI convinti che questo
partito rappresentasse interessi diversi da quelli degli altri partiti. Era il
partito uscito dalla resistenza, quello in cui tanti giovani avevano riposto le
loro speranze di riscatto combattendo contro l’espressione della borghesia
costituita dal nazifascismo.
Mettersi ora a valutare quanto fossero ben riposte quelle
speranze non ha molto senso, se non per l’aspetto relativo alla degenerazione
del PCI e alle modalità percepite da parte delle masse che vi si riconoscevano.
Per anni il PCI, abbondantemente “in
mezzo al guado”, ha continuato ad essere percepito come l’alternativa, per anni
fior di combattenti, perfettamente in buona fede, hanno continuato a sostenere
il partito, senza rendersi conto che nelle segrete stanze, l’obiettivo del
potere a chi lavora, lasciava il posto ad un prosaico gestire il potere,
comunque.
Erano tempi in cui ancora il corpo elettorale votava in
massa, senza rendersi conto che il termine democrazia aveva già perso gran
parte del suo significato originale, riducendosi ad una semplice lotteria
truccata. Allora come oggi l’alternativa di sistema, quella che contrapponeva
gli interessi della classe dominante a quelli della classe lavoratrice,
elettoralmente parlando non c’era più, sostituita dalla scelta fra l’una o
l’altra cordata politica, tutte depositarie della ricetta migliore per gestire
gli interessi della borghesia.
Quando la cosa, nel PCI, è stata formalizzata ufficialmente,
si ebbe una levata di scudi di tanti compagni e nacque Rifondazione Comunista.
Il mancato chiarimento sul passato del PCI fece sì che si affermassero, da un
lato una rivendicazione generica degli ideali comunisti e dall’altro una
pratica politica che, si inseriva nel filone collaborazionista del vecchio PCI.
L’alleanza di centro sinistra non è mai stata un’alternativa
agli interessi della classe dominante, in quanto propugnava cambiamenti sul
modo di gestire, ma non sul “per conto di chi”. E’ ovvio che ciò implicava
programmi politici profondamente diversi.
Se oggi è evidente a tutti la crisi di credibilità dello
strumento elettorale, pochi ancora hanno avuto il coraggio di por mano alla
propria esperienza soggettiva. Non si tratta di dar vita ad autoflagellazioni,
bensì di affrontare le proprie responsabilità anche in questo settore. La
sinistra comunista ha iniziato a perdere credibilità elettorale, nel momento in
cui il suo elettorato ha cessato di votare il simbolo e ha iniziato a votare le
scelte politiche, scelte che, in molti casi, avallavano le misure prese da
governi tutt’altro che alternativi agli interessi della borghesia.
Purtroppo quello appena ricordato non è l’unico danno
ascrivibile anche alla sinistra comunista. Occorre domandarsi sempre, come mai
una parte consistente della sinistra non riesca più a concepire altro che una
gestione “di sinistra” dello Stato borghese. Questo sentire, comune a molti
elettori, lo si deve all’incapacità, indotta da decenni di collaborazione di
classe, di concepire un’alternativa reale a questo sistema sociale.
Di qui, dalla mancanza di capacità, da parte dei comunisti,
di tenere viva l’idea dell’alternativa, divenuta tutt’uno con l’inganno
culturale perseguito da sempre dalla borghesia attraverso i suoi strumenti, ha
portato all’affermazione di un’idea di cambiamento basata sugli elementi
sovrastrutturali. A questo si deve la “fortuna” elettorale del m5s e a questo
si deve la volatilità elettorale.
La politica di allargamento dei mercati perseguita dalla
borghesia e l’elemento Europa, intesa come un mondo libero per gli affari, di
cui è conseguenza, unitamente agli altri elementi politico economici, al corpo
elettorale hanno reso evidente l’inconsistenza delle “alternative” offerte dal
momento democratico. Di qui l’identificazione, del tutto confusa e
contraddittoria, nelle proposte che più appaiono dirompenti rispetto a quella
parte della gestione dello Stato più visivamente banditesca. E’ ovvio che al
primo contatto con la realtà, ben diversa e profondamente corrotta di quel che
appare, anche le stesse parole d’ordine apparse più dirompenti sono
inconsistenti.
Il dibattito, in questi ultimi anni in particolare, si è
focalizzato su alcuni elementi della sovrastruttura a tutto discapito degli
elementi strutturali. Ha tenuto banco, ad esempio, la questione dell’onestà
individuale e collettiva dei politici e questo, da solo, ha determinato lo
spostamento di flussi elettorali consistenti. La questione di fondo, nella
questione di un concetto di onestà condiviso, cioè la spogliazione delle masse
lavoratrici da parte della borghesia imprenditoriale e finanziaria, è rimasta
relegata alla sensibilità, anche operativa, di nicchie d’alternativa incapaci
di darsi un programma coerente e un’organizzazione comune.
Alcuni, di fronte alla ripresina elettorale di Sel, si
sentono legittimati nel perseverare
sulla strada tracciata senza porsi il problema di come avvengono questi
spostamenti. Sel alle politiche era il centro sinistra, oggi, senza merito
alcuno è all’opposizione. L’elettorato ha premiato quest’ultima collocazione
pur sapendo che è contingente, in attesa del grande abbraccio col PD. E’
questo, più di altro, a dare l’idea del vuoto siderale dovuto alla mancanza di
un’alternativa reale. Se anche un elettorato che non può certo considerarsi
“istintivo” si riduce a scegliere sulla base di elementi transitori come
l’”opposizione” di Sel, si rafforza l’idea che le elezioni abbiano
ulteriormente accresciuto la componente di sterilità insita da tempo.
La fine del momento elettorale come elemento di democrazia,
non può essere considerato come fatto a se stante, è il coronamento di un
lavoro partito da lontano che aveva e ha lo scopo di eliminare quella parte
della Costituzione scomoda per gli affari e la politica che li rappresenta.
L’elezione e la rielezione di Napolitano, con quello che
comporta in termini di scavalcamento della Costituzione, i governi delle
“larghe” intese, l’obiettivo di stravolgere anche formalmente la Carta costituzionale,
conducono tutti nella direzione di un annullamento dei residui di democrazia
presenti nel paese. Non è un problema se non si vota, l’importante è poter dire
che le elezioni sono l”libere” e contare su qualche milione di voti per
dimostrarlo. Ancora, come sempre, sta prima di tutto ai comunisti avere la
capacità di travolgere tutto questo.
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