colloquio con Sandro Medici di Pierfranco Pellizzetti e Giacomo Russo Spena. Micromega.
Sandro Medici è l’outsider di questa corsa al Campidoglio, da amministratore del municipio di Cinecittà alla sfida per la poltrona di primocittadino di Roma. Profilo di sinistra indipendente, la priorità del suo programma è risolvere l’emergenza abitativa e poi più diritti, cultura, autogoverno, partecipazione e servizi: “Sono l’alternativa possibile tra il Pd e Grillo”.
Nel suo programma avanza proposte shock: “Trasporti pubblici gratis e azzeramento del debito di Roma”. Boutade elettorali? Lui è convinto di no: “Bisogna ripristinare a Roma la funzione pubblica contro i poteri forti e puntare su beni comuni, servizi e cultura”. Sandro Medici, giornalista e presidente del Municipio di Cinecittà, è l’outsider delle elezioni per il Campidoglio. Candidato con un profilo di “sinistra indipendente”, corre sostenuto dalla lista civica Repubblica Romana, Sinistra per Roma e il partito Pirata.
In contemporaneo all’impegno amministrativo romano, analoghe liste a Pisa, Siena, Brescia, Messina promuovono l'idea di “Città solidali”. Si direbbe l’inizio di un diverso modo per intendere e approcciare l’appuntamento amministrativo rispetto a quello tradizionale e riduttivo, che oscilla tra una dimensione parrocchiale ed una strumentale. Parrocchiale nel senso di proporre una sorta di municipalismo povero; strumentale perché le amministrative rinunciano a una valenza propria e vengono svilite a tappa “secondaria” rispetto alle dinamiche politiche nazionali. In una tua intervista si parlava di un nuovo “laboratorio”. Oggi in Europa le città sono il principale motore del cambiamento e il centro regolatore delle dinamiche politiche globali a patto di sapersi trasformare in un soggetto politico capace di innescare un processo di sviluppo endogeno: ossia pianificare e progettare il contesto urbano quale riappropriazione di un futuro da cui i cittadini si sentono espropriati. Questa avviene in Europa valorizzando le specificità culturali, i saperi, le tradizioni, le vocazioni, le opportunità, il capitale economico e il capitale sociale. Ora le chiedo: quali sono le mosse necessarie per rendere Roma attore significativo del proprio destino?
Sicuramente agire da volano sperimentatore delle dinamiche più nuove e originali, anche in occasione di questa scadenza elettorale. Le grandi forze politiche, i grandi schieramenti danno l’impressione di aver esaurito la loro capacità di aggregazione, così come di immaginare alternative, strategie di cambiamento: si riducono sempre più a opachi involucri in cui agiscono piccole oligarchie e famiglie politiche. Quel che si vede è che soprattutto nelle città le persone cercano di scavalcare il sistema della rappresentanza, spesso percepito come ostacolo. E’ infatti il complesso dei poteri che decide cosa si possa o non fare nelle città. Porto un esempio evidente: il debito. Non è affatto solo una questione contabile, anzi è il senso stesso della municipalità, come ben sapeva Ernesto Nathan, che all'inizio del Novecento studiava i rendiconti voce per voce e allo stesso tempo ottenne dal governo Giolitti la cancellazione integrale del debito. E' così che poté costruire, ad esempio, le scuole dove i bambini romani tuttora vanno. Allora il debito, oltre ad amputare servizi sociali e spese per la cultura e per la manutenzione della città, serve come ricatto. Bisogna vendere, anzi svendere, i beni pubblici. Perciò faccio - tutto solo - una proposta radicale: facciamo un audit, analizziamo questo debito, e intanto sospendiamo ogni pagamento. Lo fece l'Argentina, anni fa, e ne sono usciti più sani di prima.
Riprendo l'invito a “sperimentare politiche”, partendo dal principio che tante volte copiare è il modo più intelligente per innovare. Ciò per dire che in Europa da tempo si sono sperimentati strumenti utili a creare questo laboratorio che hai in mente. Penso alla Barcellona degli anni ’80, che fu la prima città a realizzare il Piano Strategico urbano; poi largamente imitata: un progetto organico per individuare le specializzazioni del territorio, per migliorarne la qualità della vita all’interno e la competitività all’esterno. Alla luce di tali esperienze di successo, c’è la possibilità di importare a Roma una simile idea di piano strategico, evitando i sistematici fallimenti in termini di pianificazione urbanistica che hanno caratterizzato la vita amministrative delle città italiane da decenni?
La risposta è duplice. Da un lato riguarda proprio gli strumenti dell’attività amministrativa, che ormai raramente mostrano la capacità di avere una visione politica più o meno condivisa della città. L’altro è: qual è la fonte di questa strategia di pianificazione? Credo non possa più essere la politica dei partiti appesantiti che tradizionalmente hanno retto le città italiane, ma le realtà che vivono quotidianamente il territorio e formano già nel loro piccolo un laboratorio per il cambiamento dal basso. Una persona seria come Salvatore Settis ha calcolato che in Italia esistono migliaia di associazioni di ogni tipo, che coinvolgono cinque o sei milioni di persone, e questo vale anche per Roma. Come il Teatro Valle che nasce come un’occupazione e subito dopo si pone il problema di come si possa programmare attività culturali e gestire un’offerta culturale, coinvolgendo intellettuali e studiosi. Così oggi a Roma ripensare le politiche culturali significa fare i conti con queste realtà, aiutarle a mettersi in rete, se e come vogliono, fare da supporto. Lo stesso vale per le forme di welfare autogestito che in diversi municipi già si stanno sperimentando. Ed è così che l’autogoverno e l’autogestione sono la prospettiva di un nuovo modello amministrativo in cui la pianificazione sia partecipata e democratica.
Un conoscitore profondo di Roma come Walter Tocci in un suo libro di qualche anno fa - “Avanti c’è posto” - sostiene che il primo potere forte nella Capitale è rappresentato dai “palazzinari”. Chiedo allora: come pensa di poter non soccombere a questo potere forte?
Ci troviamo di fronte a una categoria in evoluzione. Queste figure di imprenditori sono anche tenute al laccio dai poteri finanziari: quelli che ottengono concessioni edilizie non possono operare senza coperture garantite dalle banche. Questo potere “forte” ha quindi assunto una natura diversa per il suo legame con la finanza. A Roma sarebbe necessario un patto con il mondo immobiliare – come quello concretizzato da Petroselli negli anni ’70 – basato su un blocco dell’espansione edilizia e su un grande lavoro di riuso e manutenzione dell’esistente, una forza centripeta e non più centrifuga. Anche questo mondo è in difficoltà, come tutti i settori economici colpiti dalla crisi: credo siano disponibili a ragionare in questo senso. Riqualificazione degli spazi e rigenerazione dei tessuti edilizi. Poi per risolvere il dramma dell’emergenza abitativa bisognerebbe recuperare i 150mila appartamenti vuoti. Per quelli sfitti da lungo tempo e in mano ai grandi proprietari esiste uno strumento amministrativo a disposizione di sindaci e prefetti che è la requisizione. A Roma c'è un enorme patrimonio dismesso che potrebbe essere riutilizzato anziché venduto. Inoltre, i 50mila appartamenti che risultano a oggi invenduti dovrebbero essere acquistati al prezzo di costo di costruzione dall'amministrazione pubblica e poi affittati a un canone sociale.
A proposito di poteri forti, nel suo curriculum da amministratore “vanta” un duro scontro con Ruini, nel lontano 2004…
Il municipio di Cinecittà aveva appena inaugurato il Registro delle unioni civili, il primo a Roma. Il cardinal Ruini parlò di gesto deprecabile e l’allora sindaco Veltroni si schierò con l’ecclesiastico. Fu un episodio che rivelò quanto culturalmente arretrato fosse il centrosinistra e quanto subordinato ai catechismi vaticani. E temo che ancor oggi sia così. Siamo comunque andati avanti con le nostre politiche sui diritti civili e nel tempo è stato istituito anche il Registro per i testamenti biologici e la civil card, una sorta di cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia.
Diventa sindaco, qual è il primo provvedimento che compie?
Domanda ingannevole, lo dico con un sorriso. Indicare una sola cosa vuol dire trascurarne altre. Diciamo che qualche gesto fortemente simbolico aiuterebbe. Per esempio, trasferire a livello comunale quei servizi anagrafici che riconoscono i diritti civili già operanti nel Municipio che ho governato per tanti anni. Unioni civili, testamento biologico, cittadinanza a quei minori nati a Roma da genitori stranieri. Una riforma a costo zero, ma di grandissimo valore per l’impatto sociale e culturale che susciterebbe in città e nel paese.
Nel suo programma c'è la proposta dei mezzi pubblici gratuiti. Non le pare una promessa elettorale impossibile da mantenere?
Quanto è costata fin qui la seconda linea della metropolitana? Quanti scassi ha provocato nel sottosuolo della città, che, come sappiamo, è il più ricco del mondo, dal punto di vista archeologico? Quanti scandali? E ancora: quanto costa alla città, ai suoi spazi e ai polmoni dei suoi abitanti, questa giungla di automobili incolonnate, parcheggiate ovunque e puzzolenti? Una misura radicale per spingere la gente a usare i mezzi pubblici e una scelta radicale su quali mezzi, le linee tranviarie, sarebbe un gigantesco risparmio per tutti noi. L'incidenza del costo del biglietto, sul bilancio dell'Atac, è stato aggredito dalla Parentopoli "nera". Invece bisognerebbe rendere gratuito il servizio di trasporti affinché sia finalmente competitivo con quello privato. Avviene tra l’altro in altre importanti città europee. Aumentando le prestazioni in velocità ed efficienza dei mezzi si riducono così i costi di esercizio e si compensa la mancata bigliettazione. E’ comprovato da studi di settore che i vettori più vanno lenti e più costano per spese di usura, personale e manutenzione.
Nel suo programma avanza proposte shock: “Trasporti pubblici gratis e azzeramento del debito di Roma”. Boutade elettorali? Lui è convinto di no: “Bisogna ripristinare a Roma la funzione pubblica contro i poteri forti e puntare su beni comuni, servizi e cultura”. Sandro Medici, giornalista e presidente del Municipio di Cinecittà, è l’outsider delle elezioni per il Campidoglio. Candidato con un profilo di “sinistra indipendente”, corre sostenuto dalla lista civica Repubblica Romana, Sinistra per Roma e il partito Pirata.
In contemporaneo all’impegno amministrativo romano, analoghe liste a Pisa, Siena, Brescia, Messina promuovono l'idea di “Città solidali”. Si direbbe l’inizio di un diverso modo per intendere e approcciare l’appuntamento amministrativo rispetto a quello tradizionale e riduttivo, che oscilla tra una dimensione parrocchiale ed una strumentale. Parrocchiale nel senso di proporre una sorta di municipalismo povero; strumentale perché le amministrative rinunciano a una valenza propria e vengono svilite a tappa “secondaria” rispetto alle dinamiche politiche nazionali. In una tua intervista si parlava di un nuovo “laboratorio”. Oggi in Europa le città sono il principale motore del cambiamento e il centro regolatore delle dinamiche politiche globali a patto di sapersi trasformare in un soggetto politico capace di innescare un processo di sviluppo endogeno: ossia pianificare e progettare il contesto urbano quale riappropriazione di un futuro da cui i cittadini si sentono espropriati. Questa avviene in Europa valorizzando le specificità culturali, i saperi, le tradizioni, le vocazioni, le opportunità, il capitale economico e il capitale sociale. Ora le chiedo: quali sono le mosse necessarie per rendere Roma attore significativo del proprio destino?
Sicuramente agire da volano sperimentatore delle dinamiche più nuove e originali, anche in occasione di questa scadenza elettorale. Le grandi forze politiche, i grandi schieramenti danno l’impressione di aver esaurito la loro capacità di aggregazione, così come di immaginare alternative, strategie di cambiamento: si riducono sempre più a opachi involucri in cui agiscono piccole oligarchie e famiglie politiche. Quel che si vede è che soprattutto nelle città le persone cercano di scavalcare il sistema della rappresentanza, spesso percepito come ostacolo. E’ infatti il complesso dei poteri che decide cosa si possa o non fare nelle città. Porto un esempio evidente: il debito. Non è affatto solo una questione contabile, anzi è il senso stesso della municipalità, come ben sapeva Ernesto Nathan, che all'inizio del Novecento studiava i rendiconti voce per voce e allo stesso tempo ottenne dal governo Giolitti la cancellazione integrale del debito. E' così che poté costruire, ad esempio, le scuole dove i bambini romani tuttora vanno. Allora il debito, oltre ad amputare servizi sociali e spese per la cultura e per la manutenzione della città, serve come ricatto. Bisogna vendere, anzi svendere, i beni pubblici. Perciò faccio - tutto solo - una proposta radicale: facciamo un audit, analizziamo questo debito, e intanto sospendiamo ogni pagamento. Lo fece l'Argentina, anni fa, e ne sono usciti più sani di prima.
Riprendo l'invito a “sperimentare politiche”, partendo dal principio che tante volte copiare è il modo più intelligente per innovare. Ciò per dire che in Europa da tempo si sono sperimentati strumenti utili a creare questo laboratorio che hai in mente. Penso alla Barcellona degli anni ’80, che fu la prima città a realizzare il Piano Strategico urbano; poi largamente imitata: un progetto organico per individuare le specializzazioni del territorio, per migliorarne la qualità della vita all’interno e la competitività all’esterno. Alla luce di tali esperienze di successo, c’è la possibilità di importare a Roma una simile idea di piano strategico, evitando i sistematici fallimenti in termini di pianificazione urbanistica che hanno caratterizzato la vita amministrative delle città italiane da decenni?
La risposta è duplice. Da un lato riguarda proprio gli strumenti dell’attività amministrativa, che ormai raramente mostrano la capacità di avere una visione politica più o meno condivisa della città. L’altro è: qual è la fonte di questa strategia di pianificazione? Credo non possa più essere la politica dei partiti appesantiti che tradizionalmente hanno retto le città italiane, ma le realtà che vivono quotidianamente il territorio e formano già nel loro piccolo un laboratorio per il cambiamento dal basso. Una persona seria come Salvatore Settis ha calcolato che in Italia esistono migliaia di associazioni di ogni tipo, che coinvolgono cinque o sei milioni di persone, e questo vale anche per Roma. Come il Teatro Valle che nasce come un’occupazione e subito dopo si pone il problema di come si possa programmare attività culturali e gestire un’offerta culturale, coinvolgendo intellettuali e studiosi. Così oggi a Roma ripensare le politiche culturali significa fare i conti con queste realtà, aiutarle a mettersi in rete, se e come vogliono, fare da supporto. Lo stesso vale per le forme di welfare autogestito che in diversi municipi già si stanno sperimentando. Ed è così che l’autogoverno e l’autogestione sono la prospettiva di un nuovo modello amministrativo in cui la pianificazione sia partecipata e democratica.
Un conoscitore profondo di Roma come Walter Tocci in un suo libro di qualche anno fa - “Avanti c’è posto” - sostiene che il primo potere forte nella Capitale è rappresentato dai “palazzinari”. Chiedo allora: come pensa di poter non soccombere a questo potere forte?
Ci troviamo di fronte a una categoria in evoluzione. Queste figure di imprenditori sono anche tenute al laccio dai poteri finanziari: quelli che ottengono concessioni edilizie non possono operare senza coperture garantite dalle banche. Questo potere “forte” ha quindi assunto una natura diversa per il suo legame con la finanza. A Roma sarebbe necessario un patto con il mondo immobiliare – come quello concretizzato da Petroselli negli anni ’70 – basato su un blocco dell’espansione edilizia e su un grande lavoro di riuso e manutenzione dell’esistente, una forza centripeta e non più centrifuga. Anche questo mondo è in difficoltà, come tutti i settori economici colpiti dalla crisi: credo siano disponibili a ragionare in questo senso. Riqualificazione degli spazi e rigenerazione dei tessuti edilizi. Poi per risolvere il dramma dell’emergenza abitativa bisognerebbe recuperare i 150mila appartamenti vuoti. Per quelli sfitti da lungo tempo e in mano ai grandi proprietari esiste uno strumento amministrativo a disposizione di sindaci e prefetti che è la requisizione. A Roma c'è un enorme patrimonio dismesso che potrebbe essere riutilizzato anziché venduto. Inoltre, i 50mila appartamenti che risultano a oggi invenduti dovrebbero essere acquistati al prezzo di costo di costruzione dall'amministrazione pubblica e poi affittati a un canone sociale.
A proposito di poteri forti, nel suo curriculum da amministratore “vanta” un duro scontro con Ruini, nel lontano 2004…
Il municipio di Cinecittà aveva appena inaugurato il Registro delle unioni civili, il primo a Roma. Il cardinal Ruini parlò di gesto deprecabile e l’allora sindaco Veltroni si schierò con l’ecclesiastico. Fu un episodio che rivelò quanto culturalmente arretrato fosse il centrosinistra e quanto subordinato ai catechismi vaticani. E temo che ancor oggi sia così. Siamo comunque andati avanti con le nostre politiche sui diritti civili e nel tempo è stato istituito anche il Registro per i testamenti biologici e la civil card, una sorta di cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia.
Diventa sindaco, qual è il primo provvedimento che compie?
Domanda ingannevole, lo dico con un sorriso. Indicare una sola cosa vuol dire trascurarne altre. Diciamo che qualche gesto fortemente simbolico aiuterebbe. Per esempio, trasferire a livello comunale quei servizi anagrafici che riconoscono i diritti civili già operanti nel Municipio che ho governato per tanti anni. Unioni civili, testamento biologico, cittadinanza a quei minori nati a Roma da genitori stranieri. Una riforma a costo zero, ma di grandissimo valore per l’impatto sociale e culturale che susciterebbe in città e nel paese.
Nel suo programma c'è la proposta dei mezzi pubblici gratuiti. Non le pare una promessa elettorale impossibile da mantenere?
Quanto è costata fin qui la seconda linea della metropolitana? Quanti scassi ha provocato nel sottosuolo della città, che, come sappiamo, è il più ricco del mondo, dal punto di vista archeologico? Quanti scandali? E ancora: quanto costa alla città, ai suoi spazi e ai polmoni dei suoi abitanti, questa giungla di automobili incolonnate, parcheggiate ovunque e puzzolenti? Una misura radicale per spingere la gente a usare i mezzi pubblici e una scelta radicale su quali mezzi, le linee tranviarie, sarebbe un gigantesco risparmio per tutti noi. L'incidenza del costo del biglietto, sul bilancio dell'Atac, è stato aggredito dalla Parentopoli "nera". Invece bisognerebbe rendere gratuito il servizio di trasporti affinché sia finalmente competitivo con quello privato. Avviene tra l’altro in altre importanti città europee. Aumentando le prestazioni in velocità ed efficienza dei mezzi si riducono così i costi di esercizio e si compensa la mancata bigliettazione. E’ comprovato da studi di settore che i vettori più vanno lenti e più costano per spese di usura, personale e manutenzione.
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