I capitalisti e gli economisti mainstream, soprattutto quelli di scuola keynesiana, sostengono che il calo dei prezzi può portare a una prolungata stagnazione economica, com’è avvenuto ad esempio in Giappone dalla seconda metà degli anni Novanta fino a qualche anno fa. Ora, non solo questo non è vero in termini assoluti, ma qui assistiamo a un vero e proprio capovolgimento dei termini della questione: l’effetto della crisi (la caduta del livello dei prezzi) viene posto come sua causa. Dal punto di vista marxiano questo rovesciamento è tipico dell’«economia borghese volgare», la quale rimane impigliata alla superficie dei fenomeni economici e sociali.
Anche Keynes fu un severo critico della deflazione, e ai fini di un armonioso processo di accumulazione (cosa che presupponeva la presenza discrezionale dello Stato nella sfera economica) egli riteneva adeguata una moderata e costante inflazione. Nella sua infinita filantropia, il celebre economista inglese sosteneva la necessità di un’inflazione tesa a salvaguardare il livello dei profitti perché «i vantaggi che ne traggono il progresso economico e l’accumulazione di ricchezza sopravanzano gli elementi di ingiustizia sociale» (Trattato sulla moneta).
Ciò che più lo preoccupava era tuttavia l’instabilità nel livello dei prezzi, il loro continuo oscillare in alto e in basso, cosa che non permette agli investitori e ai risparmiatori di compiere quelle scelte razionali di lungo periodo che secondo Keynes costituiscono la premessa di una sana e consapevole economia capitalistica.
Se la caduta dei prezzi è considerata da gran parte degli economisti un fattore decisivo nella genesi delle crisi, il fenomeno opposto, ossia l’ascesa dei prezzi, è visto come il segnale più evidente dell’ottimo stato di salute dell’economia, o comunque di una sua ripresa dopo una fase regressiva. Peccato che la famosa evidenza dei fatti smentisca questo luogo comune economico. Infatti, la realtà del ciclo economico mostra periodi espansivi e inversioni di tendenza dalla crisi al boom economico tanto in presenza di prezzi calanti quanto nel caso opposto. Insomma, di per sé il livello dei prezzi non ci dice nulla di veramente essenziale sulle condizioni dell’economia genericamente intesa, salvo quando esso si impenna o va in picchiata in un modo che si possa definire parossistico. Ma in ogni caso il livello “patologico” dei prezzi non è mai la causa della crisi o della ripresa, quanto piuttosto un loro effetto, uno dei sintomi dello stato di salute (pessima o ottima) dell’economia. È evidente che poi l’effetto interagisce con la causa in modo che sul terreno dell’analisi si possa parlare del primo nei termini di una concausa. Analogamente, la crisi tipicamente capitalistica non ha come sua causa scatenante il sottoconsumo* (privato e produttivo), ma ovviamente la caduta della domanda generata dalla crisi (soprattutto attraverso lo “sciopero” degli investimenti produttivi, ma anche attraverso la riduzione dei salari, la precarizzazione del lavoro e i licenziamenti) retroagisce a sua volta sulla causa fondamentale alimentando un circolo vizioso che rende praticamente impossibile distinguere tra cause ed effetti.
Non è che la crisi viene superata perché i prezzi delle merci iniziano a salire, sorridendo ai profitti degli investitori; diciamo piuttosto che i prezzi possono salire perché è iniziata la ripresa, cosa che presuppone la ritrovata profittabilità degli investimenti produttivi. Di più: normalmente la virtuosa condizione di profittabilità incrocia un basso livello dei prezzi delle merci (si chiama concorrenza capitalistica), e ciò si connette direttamente all’aumentata produttività del lavoro (o, in termini meno “neutri”, intensificazione dello sfruttamento), ottenuta quasi sempre attraverso processi di ristrutturazione, riorganizzazione e razionalizzazione dei processi produttivi.
Quando l’accumulazione procede a pieno regime, e la domanda generata dall’espansione economica supera l’offerta, o quantomeno la porta a un apprezzabile grado di tensione, i prezzi cominciano a salire. Ma questo può anche non verificarsi. Su questo punto non esistono regole ferree. D’altra parte, se l’alto livello dei prezzi fosse il presupposto della ripresa economica, quest’ultima non avrebbe mai luogo, perché il momento di partenza di una nuova fase espansiva è quasi sempre caratterizzato da un basso livello dei prezzi, il quale cela una realtà fatta di fallimenti, di bancarotte, di fusioni, di concentrazione e di centralizzazione dei capitali, il tutto in armonia con il mondo hobbesiano e con la darwiniana sopravvivenza degli organismi più forti.
Tra l’altro, nella misura in cui molte merci di largo consumo vanno a costituire il “paniere salariale” dei lavoratori, il loro deprezzamento sortisce l’effetto di svalorizzare l’esistenza dei lavoratori**, e dunque la loro capacità lavorativa, cosa che ha un impatto tonificante sul saggio del profitto. La formazione di un numeroso «esercito di riserva», che indebolisce la capacità di iniziativa dei lavoratori mentre accentua la loro reciproca concorrenza, sortisce lo stesso benefico effetto sulla redditività dell’investimento. Sotto questo duplice aspetto, l’ascesa nell’agone capitalistico mondiale di Paesi come la Cina e l’India, produttori di merci di largo consumo e di bassissimo prezzo e ricchi di un enorme giacimento “umano” a bassissimo costo, ha avuto sul salario dei lavoratori attivi nelle metropoli capitalistiche di vecchia tradizione un impatto davvero notevole, sicuramente tale da cambiare la struttura del mercato internazionale del lavoro e la stessa divisione internazionale del lavoro.
Scriveva Paul Mattick nel 1934: «L’inflazione come strumento di generale taglio dei salari e di eliminazione non solo della classe media, ma anche dell’azione di corrosione del profitto esercitata dalle banche, può in certi limiti stimolare la produzione potenziandone, nel breve periodo, la capacità di realizzo. Ma il profitto così realizzato è il risultato di un processo di impoverimento a carattere non solo relativo, ma assoluto» (La crisi permanente, in Capitalismo e fascismo verso la guerra, p. 21, La Nuova Italia, 1976). Mutatis mutandis, anche negli anni Settanta del secolo scorso il profitto “drogato” dall’inflazione alla lunga presentò un conto assai salato al Capitalismo internazionale, e comunque non impedì che alla fine le imprese imboccassero la via maestra delle ristrutturazioni tecniche e organizzative. Si passò così da una politica monetaria «espansiva» che favoriva l’inflazione tesa a salvaguardare i margini di profitto, a una politica monetaria di segno opposto, «restrittiva», in grado di portare a un livello più alto la capacità competitiva di un intero Sistema-Paese.
Negli anni Settanta economisti e politici concordavano nell’attribuire il rapido aumento dei prezzi alle seguenti cause principali:
1. l’impennata del prezzo delle materie prime, del petrolio in primis (si parlò di «inflazione importata», e per combatterla si fece anche appello al sentimento patriottico dei lavoratori, ai quali fu richiesta la solita «moderazione salariale»);
2. l’aumentata massa monetaria (soprattutto espressa in dollari) in circolazione a livello mondiale;
3. la crisi terminale del sistema monetario internazionale definito alla conferenza di Bretton Wood del 1944.
Questo schema “causale” non riusciva tuttavia a spiegare adeguatamente la ragion d’essere delle tre cause qui elencate, ossia che cosa le avesse “in ultima analisi” determinate. La risposta probabilmente andava individuata nel lungo ciclo espansivo seguito alla (e reso possibile dalla) Seconda carneficina mondiale, che 1. aveva spinto in alto il prezzo delle materie prime, richieste come mai era avvenuto prima da un apparato produttivo in eccezionale espansione; che 2. aveva espanso il credito e tutte le funzioni finanziarie in un modo prima mai conosciuto; che 3. aveva messo in crisi il sistema dei cambi fissi, diventato obsoleto alla luce della gigantesca circolazione mondiale dei capitali e delle merci generata dallo sviluppo capitalistico; che 4. aveva esacerbato la competizione capitalistica internazionale (nonché la lotta per la spartizione del plusvalore mondiale: vedi la richiesta di una maggiore rendita da parte dei Paesi produttori di materie prime), combattuta anche sul fronte delle politiche monetarie; e che 5. aveva profondamente modificato i rapporti di forza all’interno dell’area capitalisticamente più forte del pianeta, ossia quella egemonizzata dagli Stati Uniti.
Soprattutto in Italia l’inflazione giocò in quel periodo un ruolo molto importante, nel bene come nel male (dal punto di vista degli interessi capitalistici, beninteso), a causa della bassa produttività media del suo sistema capitalistico, e della presenza nella società italiana di un forte e diffuso parassitismo, molto coccolato dai partiti politici – soprattutto da quelli “di massa”: DC e PCI.
Scriveva Francesco Farina nel 1976: «A partire dal 1972, il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli perseguì l’obiettivo di permettere alle imprese il più largo recupero dei margini di profitto attraverso l’inflazione, eliminando di fatto il vincolo della competitività sui mercati internazionali attraverso la svalutazione “nascosta” della lire» (L’accumulazione in Italia, 1959-1972, p. 177, De Donato, 1976). Si conseguì l’obiettivo attraverso una politica creditizia più permissiva che in passato, «utilizzando sia lo strumento della più larga creazione di moneta, sia quello di un diretto e costante controllo dei tassi d’interesse». All’aumento dei salari monetari faceva riscontro una riduzione dei salari reali, ossia un declino del loro potere d’acquisto. Come ricorderà Augusto Graziani nel 1985, «Negli anni ‘70 la grande industria italiana non si opponeva mai ad aumenti del salario monetario. Il famoso accordo sul punto unico di contingenza, nel ‘75, fu raggiunto con la benedizione della grande industria, proprio perché in termini monetari, data la continua spirale salari-prezzi-cambi esteri, tutto era diventato soltanto una questione di registrazioni» (Sulla politica economica e l’occupazione, Azimut n. 19 1985).
Solo alla fine degli anni Settanta, quando alla classe dirigente del Paese apparve chiaro che bisognava reagire al progressivo deperimento dell’apparato produttivo italiano, sempre meno in grado di tenere il passo di apparati produttivi più dinamici e tecnologicamente avanzati dei Paesi concorrenti (Germania e Giappone, in primis), si voltò pagina sul piano della politica monetaria «Quello che si voleva», continua Graziani, «era costringere gli imprenditori italiani in una sorta di morsa fra un cambio estero tendenzialmente stabile e un’inflazione interna minore di quella del decennio precedente, tale da obbligare gli imprenditori a una profonda, veloce e radicale manovra di ristrutturazione per aumentare la produttività del lavoro e riguadagnare, in termini di produttività, quello che gradualmente avrebbero perso in termini di competitività di prezzo». La ricerca di un «vincolo esterno» in grado di eliminare la facile tentazione offerta dalla svalutazione competitiva troverà nell’adesione alla moneta unica europea dell’Italia il suo momento conclusivo. Almeno in questa fase.
I famigerati «compiti a casa» troppo a lungo rinviati oggi devono fare i conti con gli interessi del Capitale più forte dell’Unione Europea: quello tedesco, ed è per questo che appare patetico, oltre che comico, un Renato Brunetta che, dall’alto della sua scienza economica, intima alla Germania di procedere rapidamente a una decisa «reflazione»: «La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni ricevute dall’Europa a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti, ossia di una netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni» (Libero, 7 luglio 2014). Ascoltato il “diktat” dello statista italiano, pare che la Cancelliera di Ferro, reduce peraltro dai successi economici e politici mietuti in Cina, gli abbia risposto: «Vai avanti tu, che a me scappa da ridere». Poi la virile Angela ha preparato i bagagli per il viaggio in Brasile, dove l’attendeva l’agognata coppa del mondo di calcio: che ingorda!
Tuttavia, il gigante della Scienza Economica di osservanza berlusconiana non è il solo a lamentare l’eccesso di potenza del Capitalismo tedesco; egli gode anzi di numerosa e rognosa compagnia.
A proposito del Giappone, menzionato in apertura di questo articolo, c’è da dire che hanno suscitato scalpore i dati sulla crescita del Pil giapponese nel primo trimestre di quest’anno, un risultato di proporzioni cinesi: 5,9 per cento su base annua. «L’economia giapponese supera ampiamente le aspettative e torna a cresce a un ritmo robusto in tandem con il ritorno dell’inflazione, proprio mentre una Europa anemica sente avvicinarsi lo spettro della deflazione che ha attanagliato per vent’anni il Sol levante» (Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2014). Ma aspettate prima di innalzare monumenti alla Abe Economic (basata su un assai generoso «quantitative and qualitative easing»)! Infatti, la sorprendente performance giapponese «cela però un paradosso: il balzo del Pil nipponico si è verificato soprattutto per un’impennata dei consumi, a causa di una corsa agli acquisti di beni durevoli in anticipazione dell’aumento dell’Iva dal 5 all’8% scattato poi il primo aprile. Dopo una politica monetaria ultraespansiva e una serie di stimoli pubblici all’economia, insomma, è stato proprio il primo provvedimento di irrigidimento fiscale varato dal governo ad abbellire il Pil trimestrale. Il problema è che nel trimestre in corso i consumi sicuramente diminuiranno e l’economia è destinata quindi a una contrazione che vari economisti si attendono in un ordine tra il -4% e il -6% annualizzato. Per questo la Borsa non ha festeggiato e continua piuttosto ad attendere di vedere quanto incisivo sarà il piano di riforme di sistema che il premier Shinzo Abe annuncerà il mese prossimo». Insomma, i «compiti a casa» non finiscono mai anche nel pur competitivo (sempre nel periodo considerato le esportazioni hanno fatto registrare un più che decoroso +6 per cento) e produttivo (+4,9 per cento negli investimenti di capitale delle imprese) Capitalismo Made in Japan, a ulteriore conferma della natura altamente dinamica e aggressiva (ai danni degli individui e della natura) del modo di produzione fondato sulla ricerca del massimo profitto.
Quando, per concludere il ragionamento iniziato prima, agli inizi degli anni Ottanta, apparirà chiaro agli investitori internazionali che il basso livello del saggio del profitto (riflesso anche nel basso tasso di accumulazione) nelle imprese delle metropoli capitalistiche era diventato un dato strutturale del ciclo economico, qualcosa di permanente con cui fare i conti, l’ascesa della speculazione finanziaria e delle istituzioni finanziarie chiamate a supportarla non avrà più fine, tra alti e bassi, spettacolari successi e dolorose esplosioni di bolle***. La deregulation dei mercati finanziari, ancor prima di essere stata il frutto avvelenato della famigerata ideologia liberista (e della «controrivoluzione liberista»), fu in primo luogo la presa d’atto di un fatto non più gestibile con le vecchie regole pensate e applicate nel mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale.
L’estensione del credito a fini speculativi, con la creazione di miracolosi prodotti finanziari cosiddetti derivati, e la progressiva espansione del debito pubblico e privato volto a rendere più appetibile l’investimento produttivo hanno caratterizzato l’economia dei capitalismi “maturi” (o “decotti”) negli ultimi venticinque anni. Senza con ciò voler sminuire l’importanza delle innovazioni tecnologiche che pure hanno segnato questo lungo periodo e che, detto en passant, sono alla base del falso paradosso cui stiamo assistendo in quei Paesi che sembrano essere usciti dal “tunnel” della crisi: la crescita economica senza incremento dell’occupazione. Già si parla in ambito accademico – e non solo – dell’alto livello di disoccupazione come di un dato anch’esso strutturale, con ciò che ne segue in termini di sostenibilità complessiva del sistema (basti pensare al welfare e al sistema pensionistico).
Dopo averla invocata per anni, maledicendo ogni santo giorno che il Capitale manda in terra l’«ottuso rigorismo» della Bundesbank, oggi economisti e politici di casa nostra scoprono con un certo sgomento che un’ondata di liquidità non è in grado, da sola, di rimettere in movimento la nave chiamata crescita economica. Infatti, ciò che consente a questa nave di galleggiare non è la liquidità declinata in termini monetari, ma, come già detto, la ritrovata profittabilità dell’investimento produttivo. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’iniezione di liquidità pari a circa 3.700 miliardi di dollari (circa il doppio del Pil italiano) non ha avuto che un modestissimo impatto sull’«economia reale».
In effetti, se non vengono ripristinate le condizioni di questa profittabilità, il credito offerto dalle banche a un tasso d’interesse mai così basso e financo negativo alimenta in gran parte il risparmio, la tesaurizzazione e, soprattutto nel Capitalismo altamente “maturo” del XXI secolo, la speculazione. «Quando il tasso d’interesse nominale è zero l’aumento dello stock di moneta fa precipitare l’economia in una trappola della liquidità», scrisse Keynes. Al celebre economista inglese sfuggiva una trappola assai più decisiva, quella che teneva sequestrata in una indigente condizione il saggio di profitto. Per non precipitare in questa trappola il capitale fugge nella più attraente sfera della finanza, nella quale si ha l’impressione di poter miracolosamente moltiplicare la ricchezza come fece una volta Quello con i pani e i pesci.
Allargare il credito, quando non ve ne sia una domanda a fini produttivi, non produce altro effetto sostanziale che incoraggiare le avventure speculative. Come dicevano i keynesiani, «È possibile portare un cammello all’abbeveratoio, ma non lo si può costringere a bere». Se il rendimento dell’investimento non è adeguatamente alto non c’è modo di costringere il cammello capitalistico a bere un liquido che lungi dal dissetarlo promette piuttosto di avvelenarlo. Per rimanere sempre in tema, è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che il capitale entri in una sfera economica che dà bassi profitti.
* «Il fatto che le merci siano invendibili vuol dire solo che per esse non sono stati trovati acquirenti in grado di pagare, ovvero consumatori. Ma se a questa tautologia si vuol dare un’apparenza di maggiore attendibilità affermando che la classe operaia riceve una porzione troppo piccola del proprio prodotto, e che quindi si rimedierebbe al male qualora essa ne ottenesse una porzione maggiore, e perciò crescesse il suo salario, si deve notare solo che le crisi vengono sempre preparate proprio da un periodo in cui il salario in genere aumenta e la classe operaia “realiter” [effettivamente] riceve una porzione più grande della parte del prodotto annuo destinato al consumo. Quel periodo invece – secondo questi cavalieri del sano e “semplice” (!) buon senso –dovrebbe allontanare la crisi» (K. Marx, Il Capitale, III, p. 837, Newton, 2005).
** Con il salario il capitale non remunera il lavoro, come ci suggerisce l’apparenza dello scambio capitale-lavoro, ma compra l’esistenza del lavoratore, assicurandosi così il diritto di poterne usare la capacità lavorativa per un certo tempo. Ciò è stato storicamente possibile perché i produttori sono stati allontanati violentemente (anche con l’ausilio del diritto borghese) dai loro mezzi di produzione e dal loro prodotto.
La forza-lavoro è merce solo perché l’intera esistenza del lavoratore è precipitata nella maligna dimensione mercantile, la quale decide della sua vita e della sua morte. Con la capillare espansione del Capitalismo in ogni aspetto della prassi sociale questo destino di alienazione-reificazione ha finito per estendersi all’intero genere umano.
*** «L’ammontare di capitale di investimento in cerca di alti rendimenti è cresciuto enormemente: alla metà degli anni Novanta, fondi comuni di investimento, fondi pensione e simili ammontavano a 20.000 miliardi di dollari, dieci volte più che nel 1980. […] Le transazioni finanziarie internazionali, valutate nel 1997 a 360.000 miliardi di dollari(molto più dell’intera economia globale), hanno aumentato la complessità finanziaria e, come molti ritengono, anche l’instabilità finanziaria internazionale» (Robert, Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, pp. 133-134, Ed. Bocconi, 2001)
****«La circolazione [monetaria] non ci permette di comprendere da dove provenga questa stasi [economica]: essa ci fa vedere solo il fenomeno. Alla intuizione popolare, che vede il denaro apparire e sparire, appare ovvio interpretare il fenomeno come insufficienza della quantità dei mezzi di circolazione» (K. Marx,Il Capitale, I, p. 108, Newton). Com’è noto, l’ovvietà è nemica della scienza intesa come analisi del profondo, per civettare indegnamente (anche) con la psicoanalisi
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