Partiamo di qui, l'unico dato incontestabile: il 25 maggio abbiamo
raggiunto la famigerata soglia del 4%. Per 8.333 voti (tre centesimi di
punto percentuale) siamo entrati tra le realtà politiche che
"esistono". Sarebbe un grave errore sottovalutare l'importanza di questo
dato.
Intanto perché nell'universo mediatico e politico (che ormai tendono a
coincidere) non c'era quasi nessuno disposto a scommettere nemmeno un
centesimo bucato su quella "esistenza", tanto abituati erano ai nostri
naufragi. E poi perché la differenza tra l'esser sopra o sotto
quell'asticella (ricordiamolo, incostituzionale), anche di un solo pelo
in più o in meno, è enorme. Un fallimento avrebbe significato la
liquidazione di ogni possibilità anche solo di immaginare una sinistra
alternativa in Italia per lungo tempo. Certo anni. Forse decenni, in un
momento in cui l'approfondimento e la cronicizzazione della crisi
economica e sociale pongono la questione del destino della democrazia in
termini drammatici. L'essere invece tra i "salvati" anziché tra i
"sommersi", se di per sé non ci garantisce con sicurezza, lascia però
aperto il discorso sul futuro.
Certo, il nostro 4,03% può apparire poca cosa se confrontato con il
peso delle altre sinistre europee a noi simili, quasi tutte comprese
nella fascia tra il 10 e il 20 per cento che costituisce oggi il campo
di oscillazione delle nostre potenzialità: non parliamo di Syriza, che
con il suo 26,6% (1.516.699 voti, in un Paese con una popolazione di
quasi sei volte inferiore all'Italia!) ha costituito la vera notizia di
queste elezioni, ma di Podemos in Spagna (il cui straordinario 8% si
somma al quasi 10% di Izquierda Plural, sfiorando il 18%), del Sinn Féin
in Irlanda, con il suo 19,5%, della stessa Linke che sfiora l'8% nelle
condizioni proibitive per la sinistra in Germania oggi... Nel valutarlo
nella sua giusta misura però non dobbiamo dimenticare lo stato comatoso
in cui si trovava la sinistra di alternativa italiana alla vigilia della
scadenza elettorale, delegittimata dalle sue sconfitte e dalle sue
divisioni. Minacciata e svuotata in larga parte del proprio elettorato
da due, simmetriche e devastanti, innovazioni del sistema politico
italiano come il "grillismo" (prima) e il "renzismo" (poi), entrambi
determinati a impiegare spregiudicatamente, su opposti versanti,
l'appello in chiave populista alla "discontinuità" di sistema. Né
possiamo trascurare le condizioni, per certi versi improbe, in cui si è
dovuta combattere la battaglia elettorale, anomale pur in un quadro
europeo plumbeo per l'inedita compattezza con cui il sistema mediatico
nel suo complesso (pressoché tutta la stampa di diffusione di massa,
l'universo televisivo al completo) ha cancellato ogni forma di vita al
di fuori del duopolio personale Renzi-Grillo. E la confraternita dei
sondaggisti al gran completo (esclusa la Demos di Ilvo Diamanti)
impegnata a sfornare profezie che si auto-adempiono accreditandoci su
percentuali ridicole.
Per questo è giusto considerare quel milione centotremila duecentotre
voti come un "piccolo miracolo". Ed è di lì, dalla sua dimensione ma
soprattutto dalla sua composizione, che dobbiamo partire per ragionare
su come andare avanti. Ma ragionando sul serio. In modo spregiudicato.
Cioè sforzandoci di non raccontarcela. Di guardare le cose per come sono
e non per come vorremmo che fossero. E allora, diciamocelo subito, quel
"piccolo esercito" non è un insieme omogeneo. Non è nemmeno un campione
rappresentativo della popolazione. Non è un "esercito popolare". Il
voto ha selezionato un settore molto particolare di elettorato: i
"refrattari", potremmo dire, di un po' tutte le famiglie politiche
dell'articolata sinistra. Gli eretici per vocazione o per convinzione.
Quelli che "non ci stanno".
Intanto è un voto differenziato geograficamente. Non è vero quanto
affermato da molti commentatori politici, secondo cui i nostri elettori
sarebbero distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale. Siamo
andati bene al Centro – nell'Italia in fondo socialmente e politicamente
più stabile -, dove abbiamo fatto il 4,70, in particolare in Toscana
(5,12), nel Lazio (4,78, con Roma provincia al 5,29 e Roma comune al
6,16!); e dove abbiamo preso quasi 270.000 voti (80.000 in più del Nuovo
Centro Destra, 150.000 in più della Lega di Salvini in versione
populista nazionale), più di un quarto del nostro elettorato. Bene anche
al Sud (con 239.000 voti e il 4,15%): la sola altra circoscrizione dove
abbiamo superato la soglia, con un risultato eccezionale in Basilicata
(5,67%), quasi incredibile in Molise (4,54), onorevole in Calabria
(4,21) e in Puglia (4,27), un po' meno in Campania (3,80, con
l'eccezione della provincia di Avellino – 4,80 – dove Franco Arminio ha
evidentemente lasciato il segno). In una circoscrizione "difficile",
solitamente considerata esposta al voto di scambio e alla presenza della
destra, siamo praticamente alla pari con gli eredi di AN e di soli
40.000 voti sotto il partito di Alfano. Siamo invece andati male nel
terremotato (socialmente) Nord-Est, dove Renzi ha sfondato su tutti i
fronti, svuotando Grillo, Lega e Berlusconi (i vincitori di ieri e
l'altro ieri), e dove invece noi abbiamo registrato il quoziente più
basso (3,66), con il buco nero del Veneto (2,74), e in particolare della
provincia di Rovigo, il capoluogo in assoluto più basso col 2,44%. Nord
Ovest e Isole stanno di poco più sopra rispettivamente col 3,81 e 3,70
(con però un'insperata Valle d'Aosta al 7,68%, merito di Rosa Rinaldi e
della sua task force). Il che significa che siamo sotto in tutto il
Nord, in Sicilia e in Sardegna.
E' un voto, d'altra parte, prevalentemente urbano. Siamo andati
generalmente bene nelle città, in quelle grandi e grandissime: Roma,
come si è detto, ma anche a Milano (6,48) e Torino (6,57), mentre nei
capoluoghi di Regione ci si è tenuti mediamente intorno al 6% (con i
picchi di Firenze 8,91 e Bologna 8,89) e in quelli di provincia
difficilmente si è scesi sotto il 4-4,5%. Molto meno, o addirittura male
in molti piccoli centri (è significativo che sia a Milano che a Torino
si abbia un dislivello di 1,5-2 punti tra il risultato relativo al
comune e quello della provincia, che sale a 3 punti per Bologna e
Firenze).
E' un voto "informato", come si suol dire (e come avrebbe potuto
essere diverso?). Concentrato nelle fasce di scolarizzazione alta, tra
chi si informa con la carta stampata o con la rete, chi legge fuori dal
mainstream, chi discute di politica: secondo l' Ipsos il 27% dei nostri
elettori sono laureati (è la percentuale più alta in assoluto, contro
l'11% della media generale, il 14% del PD, l'11% del M5S, l'8% di FI e
Lega). Il 38% sono diplomati, e appena l'11% ha solo la licenza
elementare o è senza nessun titolo, contro una media generale del 26%
(un 23% del PD, un 31% di FI...). D'altra parte abbiamo fatto registrare
la percentuale di voti più elevata (il 7,8% - quasi 4 punti percentuali
in più rispetto al nostro risultato complessivo) tra "chi si informa
prevalentemente con Internet", e siamo comunque sovrastimati tra chi "si
informa prevalentemente sui giornali" (5,2%), mentre crolliamo tra chi
"si informa solo con la Tv" (un miserabilissimo 1,6%!).
Siamo anche, potremmo dire, un partito di giovani – anche se non il
"partito dei giovani" . Sempre secondo l'indagine Ipsos il 18% dei
nostri elettori avrebbe tra i 18 e i 24 anni: è la percentuale più alta
in assoluto, contro il 9% del totale generale, l'8% dell'elettorato PD,
il 7% di quello leghista. Nemmeno i 5 stelle ci stanno alla pari,
all'11%, indietro di 7 punti percentuali. Se si considera anche la
fascia d'età successiva si scopre che quasi il 40% dei nostri elettori
ha meno di 34 anni, mentre siamo debolissimi nella fascia tra i 35 e i
44 anni (solo l'8% del nostro corpo elettorale sta qui) e tra gli
ultra-sessantacinquenni (nonostante l'età avanzata dei "garanti") dove
siamo al penultimo posto (22%), superati verso il basso solo dei 5
Stelle (tra i cui elettori solo il 7% sta in questa fascia d'età mentre,
per fare un esempio, nel Pd sono il 30%, in FI il 32, per Alfano il
28...).
Questo dei giovani – e quindi dell'area variegata del "precariato" – è
forse l'unico insediamento sociale visibile e corposo a cui possiamo
riferirci. Perché per il resto il nostro profilo sociale è molto
sfumato, difficile da identificare con precisi "soggetti". Potremmo dire
tipico di un "voto di opinione", per fastidioso che questo ci possa
apparire. La categoria nella quale avremmo raccolto la più alta adesione
(per quanto può valere questo tipo di analisi, credibile allo stesso
modo dei sondaggi) è quella degli studenti (l'8,2%, esattamente il
doppio della percentuale complessiva), seguita a ruota dagli
insegnanti/impiegati (5,7%). La più bassa è quella degli operai (sic!),
solo al 2,2%. Seguita dalla casalinghe (2,5%) e dai lavoratori autonomi
(2,8%). In media invece i disoccupati (4,1%). Forte la presenza tra i
"dipendenti pubblici", tra i quali si calcola che abbiamo raccolto il
7,1% mentre tra i privati ci saremmo fermati al 3,5%.
Più complessa, infine, la composizione per "genere", perché qui i
dati sono tra loro contraddittori. Secondo Ipr, infatti, il nostro
sarebbe stato un voto prevalentemente femminile con una percentuale di
consenso tra le donne del 5,7%, più che doppia rispetto a quella degli
uomini (2,5%); situazione esattamente rovesciata – lo dico per curiosità
– rispetto al M5S dove gli uomini sarebbero quasi il doppio delle donne
(26,3 contro 15,5%). Secondo l'IPSOS, invece, ci sarebbe un sostanziale
equilibrio, con una leggera prevalenza del voto maschile (4,1%) su
quello femminile (3,9%). A dimostrazione della precarietà degli
strumenti utilizzati dai sondaggisti.
Questo per quanto riguarda la composizione del nostro elettorato. E'
però l'analisi dei flussi ("da dove provengono i nostri elettori")
quella che più ci interessa per tentare di rispondere alle domande che
oggi più ci riguardano urgentemente: "chi siamo?" (da dove veniamo,
appunto). E soprattutto quella fatidica: "che fare?". Ne abbiamo un
paio, di analisi, fatte immediatamente a ridosso del voto, entrambi da
prendere con le pinze per il grado di incertezza di questi strumenti, ma
comunque utili per darci un quadro indicativo di massima.
La prima, della SWG, direbbe che circa 440.000 dei nostri elettori
provengono dal bacino di chi nelle politiche del 2013 aveva votato Sel;
altri 200.000 da quello di Rivoluzione civile (ci starebbero dunque
dentro i voti del Prc e di Azione civile) e 230.000 dal Pd (di Bersani);
120.000 provengono dal precedente elettorato 5 Stelle mentre 80.000 li
avremmo ricuperati tra gli astenuti (il resto da frammenti di elettorato
poco rilevanti).
La seconda, dell'IPSOS, indica in 586.000 i voti provenienti da Sel e
da Rivoluzione civile (che qui sono conteggiati insieme), in 248.000
quelli provenienti dal PD, e in 95.000 gli ex voto M5S (il resto diviso
tra ex astenuti e piccoli frammenti). In compenso ci dice che del resto
di quei quasi due milioni di voti che nel 2013 erano andati a Sel e
Rivoluzione civile la parte più grossa è andata il Pd (485.000 voti) e
all'astensione (409.000), mentre Grillo se ne sarebbe preso solo una
parte minore (150.000).
Che cosa ci dicono questi dati, da assumere – non lo ripeterò mai
abbastanza - con beneficio di inventario? In primo luogo una cosa che
sappiamo benissimo e che ci siamo ripetuti un'infinità di volte: che il
nostro risultato è il prodotto di una molteplicità di tasselli, nessuno
dei quali può essere assunto come decisivo, e senza nessuno dei quali
avremmo potuto stare sopra la soglia. E che nessuna delle formazioni
politiche della tradizionale "sinistra a sinistra del Pd" avrebbe potuto
affrontare e sopravvivere da sola alla prova elettorale. Probabilmente
di più: che sono tutte, in maggiore o minore misura, in via di
logoramento o in preda a emorragie tendenzialmente irreversibili. Le
fallimentari esperienze prima della Sinistra arcobaleno, poi di
Rivoluzione civile hanno tracciato una linea di non ritorno.
Organizzarsi separatamente o praticare frettolose alleanze elettorali di
cartello significa votarsi all'irrilevanza elettorale e politica. Può
forse illudere della possibilità di mantenersi le mani libere per
spregiudicate alleanze, o al contrario permettere forme di purezza
testimoniale, ma non porta da nessuna parte. A voler essere più radicali
e impertinenti, si potrebbe dire anche che la forma organizzativa
plasmata sul modello di partito novecentesco, riprodotta in sedicesimo
in una democrazia stravolta dalla logica del maggioritario e ferita
(forse a morte) dalla mediatizzazione dello spazio pubblico, è messa
brutalmente fuori gioco. Non serve nemmeno più come contenitore dei
lasciti ereditari.
Dall'altra parte tuttavia bisogna subito aggiungere – e fa parte
dell'ossimoro in cui ci dibattiamo – che senza quei pezzi di
organizzazione sopravvissuti a diversi tzunami, non si sarebbe non dico
potuto sopravvivere, ma neppure esistere. Difficilmente si sarebbe
potuto raccogliere quelle 220.000 firme benedette che ci hanno fatto da
trampolino di lancio e la cui raccolta ci ha permesso di prendere
contatto con territori da cui eravamo assenti, oltre che di presentare
il nostro simbolo fino ad allora del tutto sconosciuto. E ancor più
difficilmente, per usare un eufemismo, si sarebbe potuto doppiare il
capo di buona speranza del milione e centomila voti, dal momento che
almeno la metà di esso arrivava da dentro le mura della vecchia "nuova
sinistra" organizzata, e l'altra metà da fuori di quelle mura ma da una
terra incognita, la cui dimensione e reale aspettativa ci erano
sconosciute.
Ora qualcuno potrà dire – e sicuramente lo dirà, anche qui, nella
nostra discussione – che se fossimo stati più fermi sui nostri contenuti
e sui nostri simboli tradizionali, le nostre bandiere rosse, la parola
"sinistra" nel simbolo, un linguaggio più rude, meno da "salotto
intellettuale", magari un rifiuto esplicito dell'Europa in quanto
creatura del capitale – insomma se ci fossimo mostrati "più identitari"
avremmo fatto meglio. Magari riportando a casa tutti quelli che
l'avevano abitata un tempo e che ora sono sparsi chissà dove. Così come
nello stesso modo, e specularmente, altri potranno dire all'opposto che
se fossimo stati più radicali nella critica delle forme politiche del
passato, dei partiti politici in quanto tali, delle vecchie sinistre,
tutte, senza pietà, dei loro leader e delle loro forme di militanza,
saremmo decollati, dando voce allo scontento (che, indubbiamente, è
enorme), alla domanda di radicalità (che è persino inflazionata, a
trecentossessanta gradi), al bisogno spasmodico di discontinuità. L'ha
appena detto, nell'editoriale della sua rivista, Paolo Flores d'Arcais,
parlando di "una Lista Tsipras che avrebbe potuto partorire un elefante
(politico) e che invece – pur di tenere in vita le nomenklature dei
partitini – ha prodotto un topolino". E Paolo è uno dei "padri" della
Lista, tra i proponenti dell'Appello iniziale e tra i "garanti" della
prima ora.
Sono tutte opinioni rispettabili. Ed è bene che nella discussione di
questi giorni vengano espresse, se qualcuno davvero le condivide, perché
quello in corso deve essere un confronto franco, senza reticenze o non
detti. Val la pena tuttavia, per quanto riguarda la seconda, tener
presente la realistica considerazione di chi ritiene che quasi sempre,
come la natura, anche la politica "non facit saltus", soprattutto quando
si tratta di fenomeni elettorali. Forse una rivolta di piazza può
esplodere senza preavviso, istantaneamente. Ma un'esplosione elettorale
dal nulla non si è vista quasi mai. Nemmeno quando è apparsa tale, come
nel caso del quasi 26% del M5S nel febbraio scorso, o della comparsa di
Forza Italia partito vincente nel 1994. Perché a ben guadare il successo
grillino era stato preceduto da più di un quinquennio di lavoro sotto
traccia, tramite un sito web che figura da anni al vertice delle
graduatorie mondiali per frequenza, nei meet up ramificati sul
territorio, in una lunga serie di prove intermedie e di tentativi
locali. E l'epifania berlusconiana del '94 era il prodotto di una
macchina da guerra come Publitalia, del lavorio sommerso della mafia, di
una potenza economica e finanziaria senza precedenti messa in campo da
un padre padrone già potente prima di "scendere in politica". Il
"partito istantaneo" descritto dai politologi in realtà non esiste,
presuppone spesso un "decennio di preparazione" magari invisibile e un
lavoro magari sommerso ma capillare. Il voto d'opinione non si
materializza in milioni senza un sopporto di radicamento e di
organizzazione, forse informale, ma non semplicemente spontanea, solo
per la "magia di un appello". D'altra parte Syriza ce lo insegna: non è
esplosa nelle attuali dimensione da forza di governo al suo primo
apparire. Ha impiegato 7 anni, i primi dei quali stentati, con
percentuali elettorali inferiori alla nostra, prima di arrivare dove è
arrivata.
Quanto alla prima opinione, di chi vorrebbe coltivare le proprie
eredità "dentro le mura" nel timore di, per voler troppo, rischiare di
perdere anche il poco che si ha – che non ha trovato finora un'esplicita
dichiarazione pubblica, un Flores d'Arcais alla rovescia che la
esprimesse platealmente, ma che forse è più condivisa, sotto traccia, di
quanto non sembri in particolare tra i quadri di partito-, può sembrare
orientata a una realistica prudenza, se ci trovassimo in un quadro di
ordinaria stabilità politico-elettorale. Con i pezzi ben definiti, su
una scacchiera ben delimitata e ferma. In realtà non è così. Siamo
nell'occhio di un ciclone politico che rende instabili e mobili tutte le
variabili del gioco, al centro di una rosa dei venti che scompagina e
rende fluide tutte le identità e le posizioni facendo prevalere, come
d'altra parte in economia e negli assetti sociali, le logiche dinamiche
di flusso su quelle radicate di luogo. Rendendo liquida non solo la
società, come dice Baumann, ma anche il panorama politico. Sradicando
pezzi di elettorato fino a ieri "fidelizzati", insediamenti politici
fino a ieri non intaccati né intaccabili... Basta dare, anche qui,
un'occhiata alle analisi dei flussi elettorali del 25 maggio...
Può sembrare che molto sia ritornato al proprio posto, col Pd che
espande la propria base elettorale (il proprio zoccolo duro) ridotta da
Bersani al 25% nel 2013, conquistando nuovi consensi "renziani" fino al
fatidico 40,8%. Che il M5S ridimensioni un po' il proprio peso
rientrando in un più "normale" 21-22% (quello che sarebbe il suo
elettorato più congruo). Che Berlusconi paghi l'inevitabile declino
biologico e giudiziario, mantenendo comunque per il futuro una capacità
di attrazione coalittiva forte (con Lega e NCD potrebbe ritornare verso
il 30%). E che per noi rimanga uno spazio residuale di opposizione
testimoniale nell'angolo in basso a sinistra del campo. C'è persino chi
si è lasciato andare all'affermazione, spericolata, che si sia avviato
un processo di ri-normalizzazione in direzione di un nuovo bipolarismo
(la solita, sciagurata opzione maggioritaria bipolare che da Veltroni in
poi ci ha portati al disastro mentale, oggi innestata sul programma di
scasso costituzionale, perché a questo servirebbero le cosiddette
"riforme"). Altri hanno parlato, un po' affrettatamente, del Pd di Renzi
come nuova Balena bianca, partito "pigliatutto" del nuovo secolo,
paragonabile per stazza e corposità a quella che fu nella prima
Repubblica la Democrazia cristiana. Qualcuno si è lasciato andare
prevedendo addirittura un nuovo ciclo ventennale di egemonia... Per la
verità i numeri ci parlano di un'altra realtà. Suggeriscono che sotto la
superficie visibile c'è stato un gran movimento, in tutte le direzioni,
con veri e propri esodi biblici di sciami di elettori in transumanza.
Intanto il Pd di Renzi: non si è limitato a espandersi oltre i suoi
vecchi confini; ad attrarre nuovi elettori da sommare a quelli di prima.
I suoi 11 milioni e 913mila voti (che sono in valori assoluti più di
quanto preso da Bersani quando ha perso contro Grillo nel 2013 ma meno
di quelli presi da Veltroni nel 2008 quando perse contro Berlusconi)
sono il prodotto di entrate e di uscite complesse. Di un gran via vai
attraverso un'infinità di porte girevoli. Per esempio della fuoriuscita
di altri 2 milioni di elettori, un po' verso di noi, come si è visto, un
po' verso Grillo, ma con il grosso, 1.700.000, verso l'astensione. E
dell'ingresso di più di 5 milioni dai quattro angoli del mondo
(politico): da Scelta civica e dall'Udc in primo luogo, da cui
provengono quasi un milione e 200mila voti e che sono stati
letteralmente cancellati dal quadro con una vera e propria annessione.
Quasi 900mila dal M5S (che potrebbero essere considerati elettori
piddini in libera uscita nel '13 e ora ritornati a casa, ma non ne sarei
del tutto sicuro, nel quadro mobile attuale potrebbero essere anche ex
berlusconiani convertiti provvisoriamente al grillismo e poi sedotti dal
più simpatico Renzi). D'altra parte più o meno un altro mezzo milione
di neoconvertiti al renzismo provengono direttamente da Forza Italia. E
addirittura 2 milioni ritornano dall'astensione dove si erano rifugiati
alle politiche.
Nonostante questo ritorno, comunque, l'esercito dell'astensione è
ulteriormente cresciuto rispetto al livello, già considerato record,
delle politiche ed anche rispetto alle europee del 2009: ha superato la
soglia impressionante dei 20 milioni (sono 20.348.000 per la precisione,
quasi il doppio del trionfante PD, a una dimensione ormai molto vicina
alla metà dell'intero corpo elettorale: il vero "partito della
nazione"). Rispetto alle politiche, quando gli astenuti furono
12.899.000, si contano dunque 10.400.000 nuovi fuoriusciti, solo
parzialmente compensati dai quasi 3 milioni di ritornanti. Più di dieci
milioni di elettori che hanno deciso di "uscire", perché evidentemente
non si sentono rappresentati da nessuno! Provengono un po' da tutti, dal
M5S massicciamente (2.550.000), dal PD come si è visto, da Scelta
civica e dall'UDC (tanti viste le loro piccole dimensione: 1.270.000),
da Rivoluzione civile (357.000), da Sel (225.000), dalle diverse destre
più o meno radicali (Fratelli d'Italia, Destra-Mpa: 350.000), dalla Lega
(129.000)... Ma soprattutto provengono dal defunto Pdl, che ha perso
verso l'astensione quasi 3 milioni di elettori nell'ultimo anno
(2.700.000) dopo che già alle politiche aveva subito un salasso
spaventoso: il 24 e 25 febbraio del 2013 Berlusconi aveva preso infatti
7.332.134 voti, 6.297.330 in meno rispetto al 2008 (13.629.464). Ora
Forza Italia si è ridotta a 4.605.331, meno della metà di quello che
aveva preso alle europee del 2009 (10.767.965), meno di un terzo
rispetto ai tempi d'oro prima dell'inizio della crisi e prima di Ruby...
Per questo non si può ragionare sul quadro politico con i parametri
di prima. Non solo con quelli dell'altro ieri, ma con quelli di ieri.
Non solo con quelli del Novecento, ma neppure con quelli del 2013.
Perché ci troviamo in un panorama politico che definire "allo stato
liquido" è dir poco. Dovremmo dire "allo stato gassoso".
Il che ci conduce al secondo nodo che dovremo incominciare ad
affrontare ora. E cioè alla questione del rapporto tra l'esperienza
della lista L'Altra Europa con Tsipras e il suo prolungamento futuro,
con la stessa ambizione di lavorare a un processo di costruzione di una
soggettività politica nuova, nazionale questa volta anche se concepita
come parte integrante di un progetto europeo.
Lo dico subito: credo che sarebbe un grosso sbaglio pensare che
questo percorso possa essere una semplice continuazione di quello già
fatto. Una proiezione sul piano nazionale dell'esperienza elettorale
europea. Sbaglieremmo se non considerassimo la discontinuità che c'è tra
quel modello di iniziativa, di organizzazione (se così si può dire), di
pratica e di progetto, e quello che ci attende nei prossimi mesi. Così
come sbaglieremmo se considerassimo quel 1.103.203 di elettori una
"proprietà" acquisita, un "patrimonio" stabile: dire che è da quello che
bisogna partire non significa non pensare che, così come si è
materializzato dietro quel simbolo nuovo, alla stessa velocità non possa
anche disperdersi, se non manterremo fede alla responsabilità che ci
siamo assunti quando li abbiamo chiamati a raccolta. Tanto più che il
percorso che abbiamo di fronte non sarà simile a quello che abbiamo
appena percorso. Per varie ragioni.
Intanto perché l'"avventura" della lista Tsipras è iniziata sotto il
segno di una emergenza e di una circostanza d'eccezione (potremmo dire
nel quadro di uno "stato d'eccezione"): nell'imminenza di una campagna
elettorale anomala com'è in generale quella delle europee, nella quale
c'era, quest'anno, il concreto rischio (il paradosso ha detto ieri
Alexis) che, unica in Europa, la sinistra italiana non avesse neppure un
rappresentante. E in cui, d'altra parte, c'era l'occasione (insperata,
da non lasciarsi sfuggire!) di un leader vincente della sinistra di un
Paese esemplare come la Grecia che poneva la propria candidatura alla
guida della Commissione e svolgeva, per così dire, un ruolo di supplenza
ai tanti deficit locali oltre ad offrire la possibilità di ridare un
senso al termine rappresentanza. Si spiegano così, con quello "stato
d'eccezione", le tante anomalie che hanno caratterizzato la "Lista
Tsipras". A cominciare dall'anomalia della nascita: non è quasi mai
accaduto che una lista elettorale sia nata da un appello. Non dalla
negoziazione tra soggetti politici, non da accordi tra gruppi dirigenti o
da decisioni di organismi, ma da un'aggregazione di qualche decina di
migliaia di persone intorno a un testo, a cui è seguita poi la
convergenza di forze via via più ampia. E poi l'anomalia della
composizione delle liste, con l'esclusione programmatica di candidati
già eletti nell'ultimo decennio (che era il modo più semplice per
limitare al minimo il "professionismo politico" e lanciare un chiaro
messaggio di discontinuità all'elettorato). L'anomalia di una lista,
dunque, come si è detto e ripetuto, "di cittadinanza" appoggiata e
sostenuta da una rete di associazioni e anche da partiti che tuttavia si
mantenevano uno o due passi indietro: condizione che non era riuscita
nella precedente esperienza di "Cambiare si può" e di "Rivoluzione
civile", e che come sappiamo ha richiesto un certo braccio di ferro non
del tutto irenico. L'anomalia, infine, di una campagna esplicitamente
combattuta in condizioni di povertà assoluta, affidandoci molto
all'iniziativa dal basso, dei candidati, dei loro "ambienti" di
riferimento, delle loro risorse relazionali, con pochissimi e
fragilissimi strumenti "centrali".
Proprio per l'importanza di quella condizione da "stato d'eccezione"
tenderei a paragonare i due mesi di battaglia elettorale al "comunismo
di guerra", nel quale appunto si dovevano per necessità praticare e
accettare forme che in condizioni normali non sarebbero praticabili, a
cominciare dal tipo di "governance" (senza dubbio oligarchica, affidata
com'era alla verticalità dell'organismo dei "garanti"), e dallo spazio
limitato per la discussione collettiva (affidata all'eterogeneità delle
forme di aggregazione locale, al funzionamento a macchia di leopardo dei
Comitati), oltre alla formazione in qualche misura "per cooptazione"
del Gruppo operativo, rappresentativo più per delega fiduciaria che per
effettiva elettività. Tutte condizioni che, fuori dalla situazione
"d'eccezione" (finita appunto "la guerra") non si possono più riproporre
tali e quali, e richiedono meccanismi di realizzazione della
condivisione stabili.
La seconda ragione di discontinuità riguarda il quadro politico. Lo
stesso esito della tornata elettorale europea ha infatti prodotto una
"frattura di teatro" – come si direbbe in gergo bellico -; una
modificazione strutturale dell'ambiente stesso nel quale si svolge la
lotta politica, che non è più paragonabile a quello nel quale la
campagna elettorale era iniziata, e un mutamento genetico dei suoi
protagonisti principali. Ci illuderemmo se pensassimo di applicare alla
situazione attuale gli stessi codici con cui ragionavamo prima, e le
stesse "forme" della politica: centrodestra, centrosinistra,
maggioranza, opposizione, alleanze, il Partito democratico come
possibile avversario o interlocutore, le sue componenti interne, più o
meno orientate a destra o a sinistra... Stiamoci attenti a questo cambio
di scenario, perché corriamo il rischio concreto che la discussione che
si sta avviando sulle prossime elezioni regionali, sul rapporto con il
PD, sulle alleanza, ripercorra vecchi schemi, da una parte o dall'altra,
riducendo i termini della questione a un si o un no sulla base di
presupposti a priori senza cogliere il disordine nuovo del contesto
tutt'intero e la dinamicità vertiginosa dei tempi politici.
Il renzismo – come già in buona parte a suo tempo il grillismo – ha
modificato la logica (e la geografia) profonda del sistema politico
italiano, con un potenziale distruttivo estremo. Per la verità aveva
incominciato già prima, il proprio sistematico lavoro di decostruzione,
fin dalla conquista, dopo breve assedio da fuori delle mura, del vertice
del Pd con l'arma non convenzionale delle primarie, e poi dalla
successiva occupazione mediante una classica congiura di palazzo del
governo. Ma il 40,8% delle europee ha sanzionato con l'unico segno ormai
riconoscibile nella logorata antropologia politico-istituzionale - il
successo - quel "cambiamento di verso" che è un vero e proprio mutamento
di natura del nostro estenuato sistema politico. Che da pluralistico e
collegiale si è trasformato in sistema tendenzialmente e potenzialmente
monocratico, in cui la tirannia dell'urgenza travolge qualunque
progettualità non allineata, qualunque alterità non subalterna, e la
retorica dell'ultima spiaggia impone senza residui la logica dell'uomo
solo al comando.
Con Renzi – e col patto del Nazzareno, che costituisce l'anima
subliminare della sua visione politica – è cancellata (non a parole, ma
nella pratica) ogni distinzione tra destra e sinistra, così come ogni
sia pur umbratile riflesso etico nella politica, per affermare
l'assoluta sovranità della pratica del potere in quanto tale. Funzione
salvifica a prescindere, energia virtuale di cui non importa il
contenuto né il fine, ma la pura rappresentazione di sé. L'esserci, e il
vincere. E', con un abile gioco di prestigio, la drammaticità della
crisi che viviamo trasformata, con un colpo di bacchetta magica, in
instrumentum regni. In mezzo (potentissimo) di potere e della sua
legittimazione extra-democratica. Che cancella, non tanto e non solo
come progetto, ma con il suo solo apparire, l'essenza stessa del
parlamentarismo, della democrazia parlamentare e rappresentativa basata
al contrario sul confronto tra opzioni diverse e sulla deliberazione. E
che ci sbalza, di colpo, in una terra sconosciuta dove nessuna delle
vecchie tavole vale più. L'unanimismo con cui l'intero sistema mediatico
ne canta il Te Deum e ne tesse le lodi, indifferente all'immagine di
servilismo che offre, è indicativo di questo "mutamento di stato"
(nemmeno con Berlusconi si era arrivati a un tale conformismo servile).
C'è davvero qualcosa di mefistofelico in questa determinazione, in sé
profondamente nichilistica, di mettere al lavoro, sistematicamente,
tutte le linee di crisi che ci stanno affliggendo per alimentare il
proprio personale ruolo di comando, rovesciandone in qualche modo le
polarità: l'apparente irrisolvibilità della crisi economica per
giustificare la delega al buio alla sua mal assortita squadra di yes
men; lo sfacelo della società e del mondo del lavoro per farne la platea
privilegiata delle proprie elargizioni liberali; l'impresentabilità
della fauna parlamentare selezionatasi in questi anni (della "casta")
per accreditare il suo progetto (intrinsecamente populista) di
delegittimazione e di liquidazione delle istituzioni rappresentative.
Renzi non è uno dei tanti capi di governo che si sono cimentati nella
missione impossibile di mettere una toppa o di rallentare i numerosi
processi di crisi che ci assediano: impresa che avrebbe richiesto un
salto di scala nella capacità di progettazione e di pensiero, oltre che
una esplicita rottura con le dogmatiche dominanti. E' invece il primo ad
aver deciso, cinicamente e spregiudicatamente, di quotarli – quei
processi di crisi - alla propria borsa. Di metterli al lavoro tutti, a
proprio vantaggio, compresa la crisi del proprio partito. Anzi, a
cominciare dalla crisi del proprio partito.
Non se ne sono accorti, e hanno creduto che quel 40,8% del 25 maggio
fosse anche una vittoria loro, del loro partito, del Partito
democratico, ma in realtà quella è stata una vittoria di Matteo Renzi
più che del suo partito. Anzi, per molti aspetti, una vittoria di Renzi
contro il suo partito. E' stato incoronato, con quel suffragio
trasversale, più in quanto rottamatore del Pd che non come suo leader e
rappresentate. Come liquidatore di quel ceto politico assemblato, con
gli strumenti del Porcellum, da Bersani, e rivelatosi nella sua miseria
prima in occasione dell'elezione del Presidente della Repubblica, poi
nelle pieghe del passaggio da Bersani a Letta, infine datosi senza
nemmeno trattare sul prezzo, alla velocità della luce, al nuovo
conquistatore. Buona parte del successo elettorale alle europee Renzi lo
deve proprio all'ostilità ostentata per mesi nei confronti non solo del
gruppo dirigente, ma anche del corpo militante del Pd. E fa di tutto
per dimostrare di meritare quella simpatia liquidandolo giorno dopo
giorno in quanto "partito", da buon populista quale è (se per
"populista" si intende chi tende a saltare ogni mediazione tra leader e
"popolo" eliminando tutti i corpi intermedi e i diversi livelli di
rappresentanza sia politica che sociale). In questo senso Renzi non
costituisce l'inversione di tendenza nella crisi storica del Partito
democratico (iniziata praticamente dalla sua nascita, col fallimento di
Veltroni), ma ne rappresenta il compimento. L'estremo punto di arrivo.
In un certo senso la fase terminale. A ben guardare, infatti, il Pd
renziano non è più un partito. Non dico un "partito" nel senso
novecentesco del termine: quello aveva già cessato di esserlo da tempo,
per lo meno da quando, tra gli anni Novanta e il primo decennio del
nuovo secolo, si era consumato il passaggio tra la "democrazia dei
partiti" e quella che Bernard Manin chiama la "democrazia del pubblico":
un modello di democrazia rappresentativa in cui l'elettorato cessava di
essere un partecipante e si trasformava in spettatore, mentre la
rappresentanza sfumava in rappresentazione, e gli attori politici si
affidavano sempre più al marketing per attrarre il voto di quel pubblico
volubile e distratto. Ma il Pd cessa oggi di essere "partito" anche
nella sua versione post-novecentesca, quando pure la personalizzazione
aveva fatto strada, e il partito politico si specializzava sempre più
come "macchina" finalizzata a scegliere il leader e a sostenerne
l'azione, un po' come la compagnia teatrale supporta il proprio
capocomico.
Il partito renziano va oltre quel modello. Si direbbe che incarni in
senso proprio quella che Ilvo Diamanti indica come la fase
immediatamente successiva all'esaurimento della stessa "democrazia del
pubblico", caratterizzata da "partiti senza società" e da "leader senza
partiti", in cui "il legame [che pur era sopravvissuto prima] tra
leader, partiti e società si è consumato" sotto la pressione di una
sfiducia pervasiva e dissolvente di tutte le forme collettive, e
sopravvive appunto solo il modello dell'"uomo solo al comando", connesso
al proprio "pubblico" esclusivamente attraverso il filo potente ma
fragile della comunicazione in tutte le sue fantasmagoriche forme.
Impegnato non più a tentare di produrre un fiducia sempre più
impossibile, ma piuttosto determinato a "lavorare" sulla sfiducia
dilagante piegandola a proprio favore, impiegandola come arma contro
amici e concorrenti. Per questa via il partito si viene trasformando da
supporto che era, in estroflessione del capo (quando ne segue docilmente
la volontà) o, alla peggio, in zavorra. Da strigliare o mollare, a
seconda dei casi. Comunque da guidare dall'esterno e dall'alto (dal
Governo, appunto). E destinato a dissolversi nell'aria nel caso in cui
il Capo dovesse fallire (è questa in fondo la ragione per cui seguaci e
avversari interni finiranno, volenti o nolenti, per sostenerlo
all'estremo, nella consapevolezza che "dopo di lui il diluvio").
Siamo ormai direttamente, bisogna ammetterlo, in una "democrazia
ibrida" come la chiama Diamanti, o in una "post-democrazia" come sempre
più sussurrano i politologi. Comunque fuori dal quadro di una normale
democrazia rappresentativa. E lo dico non certo per essere disfattista, o
per sostenere che ormai tutto è perduto e che sarebbero inutili le
battaglie di difesa della democrazia e della rappresentanza che si
stanno combattendo o preparando. Al contrario. Per sottolineare la
maggiore responsabilità che ci incombe. E la necessità, appunto, di
rendere più forte e più ampia la nostra azione. Più al livello delle
sfide che ci toccheranno nei prossimi mesi.
Ma proprio per questo, perché stiamo dentro a una mutazione genetica
radicale del nostro contesto politico e sociale, e perché per uscirne in
avanti sono indispensabili una credibilità e un radicamento enormemente
più ampi di quanto abbiamo raccolto finora, è necessaria una nuova
verifica delle ragioni che ci tengono insieme. E un processo di
innovazione delle nostre categorie di analisi, della nostra lettura
delle trasformazioni sociali, e della nostra concezione
dell'organizzazione e della soggettività politica, radicale. Senza
trascurare quelli che sono stati i nostri punti di forza nella campagna
elettorale, le "virtù" che ci hanno permesso di restare sopra il pelo
dell'acqua: il traino europeo, in primo luogo – perché senza uno
scardinamento delle politiche europee attuali, senza far saltare la
cerniera neoliberista che domina a Bruxelles e a Francoforte, non solo
non c'è salvezza qui, ma neanche politica; i dieci punti del nostro
programma elettorale, che sono e restano quanto mai attuali come
programma d'azione nel corso del semestre italiano, in primo luogo, e
oltre, come cemento per una sempre più stretta rete di relazioni
continentali; il riferimento a una figura potentemente unificante come
Alexis Tsipras; la natura polifonica della Lista, intreccio di identità e
ambienti differenti, capace di intrecciare la dimensione
dell'iniziativa "di cittadinanza" con quella "d'organizzazione", nuovi
protagonismi e consolidate militanze, non in un assemblaggio estrinseco
per giustapposizione ma in un rapporto di contaminazione reciproca e di
pedagogia della cooperazione... Sapendo, tuttavia, che bisogna andare
molto al di là: nel radicamento sociale, in primo luogo. Nella ricerca
di un "nostro popolo", che finora ci è mancato e che si conquista solo
frequentandolo. Standogli dentro, e insieme. Facendoci "vedere" (dal 25
maggio siamo scomparsi da quasi tutti i luoghi che avevamo frequentato).
Ma anche nell'interlocuzione politica, che dovrà essere ad ampio
raggio, attraversare molte delle culture politiche che hanno
caratterizzato la vita civile di ieri e che stentano oggi a
riposizionarsi o riconfigurarsi, non per stemperare i nostri contenuti –
inevitabilmente radicali – o per aprire il serraglio degli incroci
ibridi, ma per guardare finalmente fuori dagli steccati, e allargare
l'orizzonte del nostro pubblico potenziale. Nello spazio esploso della
"post-democrazia", non ci sono più "soggetti politici" con cui
intavolare trattative, gruppi o correnti da selezionare come alleati o
concorrenti. Il "Partito unico della Nazione" se avrà successo (e per un
po' lo avrà) emulsiona tutto come una gigantesca turbina, fagocita le
forze marginali, scioglie le aggregazioni interne, cancella
l'eterogeneità politica nel vettore verticale della decisione dall'alto.
E quando collasserà non lascerà molto di strutturato dietro di sé. Ma
in quello spazio non possiamo pensare di essere i soli ad muoverci in
direzione ostinata e contraria. Ci saranno frammenti di rappresentanza
politica in sofferenza, e anche di rappresentanza sociale alla deriva.
Settori che si staccheranno dal corpo dell'iceberg e cercheranno
connessioni. Movimenti bisognosi di sponde politiche su cui non
appoggiarsi ma con cui interloquire. Dovremo proporci come
catalizzatori, se vogliamo davvero seguire le tracce di Syriza, che ha
sempre operato come fattore aggregante, mai escludente, senza
presunzione né primogeniture. Dovremo imparare a parlare con tanti,
senza negarci pregiudizialmente ma anche senza concederci
opportunisticamente a nessuno.
Abbiamo bisogno di "manifestare" – di prendere l'iniziativa e la
piazza, contro la rassegnazione e l'isolamento -, ma anche, e tanto, di
pensare. Di mobilitare quel potenziale culturale che ha fatto la
differenza nella campagna elettorale, e che non deve restare nel ruolo
passivo del testimonial. Che è indispensabile per "cercare ancora". E
questo dovremo fare, testardamente: Cercare ancora. Perché quello che
abbiamo, e sappiamo, non basta. Ci vuole di più: in termini di idee, di
comprensione di quanto ci accade sotto gli occhi, e un po' ci sconvolge
un po' non lo vediamo nemmeno, di lettura delle trasformazioni
antropologiche che maturano sempre più rapide dentro il tritacarne della
crisi: come si viene configurando il rapporto tra le generazioni? Tra i
generi? Tra le aree geografiche? Tra lavoro e ambiente? Tra compagni?
Dobbiamo inventare una modalità di decisione collettiva che non ci
schiacci nella routine burocratica o all'opposto nella conflittualità
permanente, che sappia tenere insieme le differenze in un rispetto che
non sia indifferenza, che riesca a produrre una capacità di parola
collettiva in tempi di individualismo devastante. Vi pare poco?
Ce n'è abbastanza per lasciare da parte i dettagli, su cui spesso ci
dividiamo, e concentrarci sulle cose importanti, su cui è indispensabile
che ci uniamo.
Marco Revelli
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