Obama e Cameron hanno deciso: ad abbattere l'aereo malese
sono stati i filorussi che vogliono sganciarsi dall'Ucraina consegnata
ai nazisti. L'inchiesta internazionale, di cui si continua a parlare,
servirebbe eventualmente solo a confermare – con tutti i crismi
dell'ufficialità diplomatica – una tesi che è eufemistico definire
preconfezionata.
Sia chiaro: in questo tipo di vicende la verità è un optional.
Nessuna delle parti ha il minimo interesse per come sono andate
realmente gli eventi, importa soltanto l'uso che se ne può fare. E per
l'Occidente l'occasione è di quelle lungamente cercate; per la Russia la
conferma definitiva di un assedio che le carte geografiche e storiche
dimostrano con disarmante evidenza.
Quindi escalation. Diplomatica, per ora. Con incremento e
indurimento delle sanzioni applicate alla Russia (ma in realtà
soprattutto all'Europa, che dal gas e dal petrolio russi dipende in
misura notevole, per obbligarla a recidere i legami con l'est),
l'estromissione di Mosca da tutta una serie di consessi internazionali
dove si mediano gli interessi globali.
Ma la via è tracciata. È identica a quelle già percorse negli ultimi
decenni, contro la Jugoslavia e la Libia, due volte contro l'Iraq,
diversi paesi africani in cui il colonialismo si è ripresentato tale e
quale. Con abiti francesi o inglesi o statunitensi, ma con identiche
modalità: via i regimi non in sintonia con gli interessi imperialisti,
dentro altri regimi – non certo “democratici” - totalmente allineati.
Il problema è che la Russia non è l'Iraq e Putin non è disarmato
come, in fondo, era Gheddafi. L'armamento nucleare strategico – non
certo le strutture militari convenzionali, complessivamente più
arretrate sul piano tecnologico – è di livello comparabile con quello
statunitense. Ogni incremento di tensione equivale qui a un passo verso
il baratro. Non è infatti pensabile che la nuova Russia, nazionalista e
capitalista, accetti di essere ulteriormente ridimensionata, assediata,
circondata, espropriata o inibita nel “libero commercio” delle proprie
risorse energetiche.
Di questo “problemino” gli analisti occidentali non fanno menzione.
Continuano a ragionare come se fossimo ancora nella fase aurorale della
“globalizzazione”, quando il modello del libero mercato sembrava
destinato a un successo inarrestabile, foriero di benessere generale e
quindi di pace duratura (pur se con qualche crisi regionale qui e là).
La retorica ufficiale continua a straparlare di democrazia e diritti
umani evitando accuratamente di soppesare lo stop radicale imposto alle
costituzioni democratiche, per esempio nei paesi che avevano fin qui
adottato il “modello sociale europeo” (quasi piena occupazione, welfare,
economia mista, istituzioni aperte ai risultati elettorali, ecc). Come
se l'Unione Europea non fosse una costruzione oligarchica la cui
“costituzione reale” è refrattaria a qualsiasi istanza popolare, con un
“parlamento” privato fin dall'inizio dell'unico potere che lo renderebbe
tale: quello legislativo. Come se i palestinesi, in fondo, non possano
essere considerati penamente "umani" e quindi agevolmente abbandonabili
alla volontà di sterminio israeliana.
Eppure gli analisti economici – più di quelli “geopolitici” - vanno
da tempo segnalando come la globalizzazione sia ormai un lontano ricordo
e il mercato globale sia diventato un teatro di battaglia per aggregati
continentali. Solo in campo economico si riconosce la realtà della
“guerra tra le monete”, in genere successiva all'empasse nella
spartizione dei mercati e anticipatrice di ben altre forme di
competizione dura. E solo qui – non certo nel campo degli ideali o dei
“valori morali” - va rintracciata la ragione della conflittualità
internazionale crescente, dell'irrigidimento del “confronto” imposto in
primo luogo dagli Stati Uniti.
Stiamo per entrare nell'ottavo anno di crisi globale. Nessuna
economia, per quanto grande sia, si è effettivamente rimessa sulla via
della “crescita”. L'unica eccezione è costituita dalla Cina, che
continua a macinare record (+7,5%, quest'anno) pur riorientando il
proprio modello soprattutto sulla crescita del mercato interno. Tutti
gli altri “continenti” (Stati Uniti, Giappone, Unione Europea e persino i
Brics) viaggiano nella stagnazione o nella recessione. Le banche
centrali hanno immesso nel sistema finanziario quantitativi di liquidità
inconcepibili, ma senza effetti sensibili sull'economia reale. Ne è
risultata potenziata di nuovo la speculazione finanziaria, sono
cresciute le borse e i titoli azionari, si sono stabilizzati i titoli di
Stato. Ma la disoccupazione è aumentata esponenzialmente dappertutto
(tranne che in Cina, ovviamente), perché l'innovazione tecnologica
distrugge posti di lavoro; e, se la “crescita” non compensa più questa
sostituzione “fisiologica” del lavoro umano con quello delle macchine,
si creano bacini immensi di umanità senza risorse, identità, dignità,
speranza, futuro.
In modo quasi incidentale, pochi giorni fa, IlSole24Ore accennava
alla falsità strutturale delle statitische sulla disoccupazione, che
tengono conto soltanto degli iscritti alle apposite liste, ma non
considerano affatto chi il lavoro ha smesso persino di cercarlo. Solo
negli Stati Uniti gli “scoraggiati”, quelli che nemmeno cercano più
un'occupazione qualsiasi, ha raggiunto la terribile cifra di 90 milioni
di unità.
«Quando un cittadino non trova lavoro viene rimosso dalla base di
calcolo dei disoccupati, in un certo senso diviene uno zombie nel senso
che non lavora, ma per le statistiche non conta. Negli Stati Uniti il
numero dei "not in labour force" è ormai di oltre 90 milioni, cittadini
che sono usciti dal calcolo della forza lavoro, ritenuti fannulloni dal
Governo». (http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2013-10-22/bernanke-droga--mercati--base-tasso-disoccupazione-ma-nessuno-tiene-conto--scoraggiati-e-zombie-163825.shtml?uuid=ABGwnQY)
Se fossero considerati per quel che sono, ovvero disoccupati, il
relativo tasso statunitense schizzerebbe oltre il 40% della forza
lavoro. Uno scenario da anni '30, non da superpotenza che vuol
controllare il mondo.
Cifre analoghe si registrano per l'occupazione “giovanile” europea,
soprattutto tra i Piigs, pur in presenza di una serie di convenzioni
statistiche che in varia misura occultano la vera dimensione della
disoccupazione (per esempio: i lavoratori part-time o i precari, che non
hanno un salario sufficiente a sopravvivere, sono calcolati comunque
come “occupati”, anche se “poveri”).
C'è insomma molta disperazione nel capitalismo mondiale. E non solo
al livello degli strati "inferiori" della società. La “spinta
propulsiva” si è esaurita da anni e nessuna “pensata non convenzionale”
delle banche centrali è fin qui riuscita a farla resuscitare. Ma in
regime capitalistico non c'è nessuna soluzione che possa far accettare
la “decrescita”, il consumare-meno-consumare-tutti o qualcosa del
genere. L'unica soluzione – da sempre, perché fisiologicamente innestata
nella logica dell'accumulazione – è quella dell'incremento di
“competitività”. Industriale, produttiva, economica. Ma inevitabilmente
anche politica e infine militare. C'è tanto capitale che chiede di
essere valorizzato. Anzi, ce n'è troppo. Una parte deve essere
“volatilizzato”, deve scomparire, ricreando così quella “condizione di
scarsità” entro cui può ripartire un – più ristretto, comunque –
processo di accumulazione.
Il problema vero è che nessuno vuol scomparire, tutti si applicano a “competere” al meglio.
Per questo, nemmeno troppo lentamente, l'economia va forzando la
sfera politica. Che a livello internazionale significa “diplomatica”.
Mentre negli hangar si scaldano i motori e le cartuccere cominciano ad
essere riempite.
È così che la guerra si presenta alle porte. Sempre inattesa, sempre
alla fine di una più o meno lunga quiete, sempre insensata. Sempre
inevitabile come un corpo che scivola lungo un pendio fangoso e senza
appigli.
Poi può bastare uno studente a Sarajevo o un missile in Ucraina a segnare il punto di non ritorno
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