È del tutto evidente, ormai, che sulle questioni europee la strategia
del premier è quella di distogliere l'attenzione degli italiani dalla
dura realtà degli impegni sottoscritti dal nostro paese (e delle
imminenti scadenze in tema di aggiustamento dei conti pubblici), alzando
i toni della propaganda e prendendo perfino a prestito il linguaggio
degli antieuropeisti più spinti.
D'altronde, che ci sia una larga
discrasia tra parole (roboanti) e risultati (inesistenti) nella vicenda
che vede il nostro paese impegnato in un'avvincente singolar tenzone con
le ceche burocrazie di Bruxelles (o di Francoforte) è facile a
cogliersi, anche da parte di chi non ha molta dimestichezza con numeri,
norme, trattati, vincoli e parametri europei.
Basta un esempio per
rendere meglio l'idea: mentre da Roma si tuona contro i banchieri che
avrebbero usurpato il potere in Europa a danno dei cittadini ("L'Europa è dei cittadini non dei banchieri" , "Difendiamo l'Europa dall'assalto della burocrazia"),
a Bruxelles si boccia la richiesta dell'Italia di far slittare di un
anno, al 2016, il conseguimento dell'Obiettivo di medio termine,
conosciuto dai più come pareggio di bilancio strutturale. L'Italia, da
parte sua, anziché opporsi col coltello tra i denti a questa
prospettiva, che fa? Roba da non crederci: approva la risoluzione del Consiglio europeo
(27 giugno 2014) che "raccomanda" al nostro paese di rispettare la data
del 2015, ovvero di fare una cosa diversa da quella stabilita
ufficialmente nel Def di aprile.
Dunque? Sarà il 2015 o il 2016 il
termine ultimo per pareggiare i conti? Prima di parlare vagamente di
"flessibilità", il premier Renzi dovrebbe dare una risposta a questo
interrogativo. Anche perché le implicazioni economico-finanziarie di
un'eventuale anticipazione (o di uno slittamento) del pareggio
strutturale non sarebbero certo di poco conto.
E questo il governo lo sa, lo sa eccome. Lo sa perché ha sul tavolo sia i dati che provengono dall'economia reale
sia quelli relativi all'andamento dei conti pubblici. Per i primi sono
abbastanza eloquenti i dati forniti dall'Istat sul Pil limitatamente al
primo trimestre 2014 (-0,1%), su cui si basa una previsione dello
stesso istituto sull'intero anno che parla di "crescita zero", in un
range compreso tra -0,4% e +0,3% (la stima del Def era +0,8%). Per il
quadro di finanza pubblica, i dati a nostra disposizione, frutto di una
proiezione annuale delle cifre relative al primo trimestre 2014,
riferiscono di un avanzo primario ben al di sotto delle stime ufficiali e
di un aumento oltre le aspettative del debito pubblico.
In base a
questi dati ed a queste previsioni il governo non sarebbe in grado,
senza una nuova, dolorosa, manovra correttiva, di rispettare nemmeno gli
impegni assunti col Def 2014, figuriamoci quello di conseguire il
pareggio di bilancio con un anno di anticipo!
Nel frattempo, dopo
l'inaugurazione del Semestre italiano, si sono svolte le riunioni
dell'Eurogruppo e dell'Ecofin (7-8 luglio), le cui conclusioni possono
essere riassunte in una dichiarazione resa a margine dal ministro delle
finanze tedesco Wolfgang Schauble: "Siamo tutti d'accordo che ci serve più crescita ma nessuno vuole cambiare il Patto, lo dicono tutti e questo è un bene". Lo dicono tutti, ordunque, anche Renzi.
E Padoan? Cosa ha detto Padoan nella
sua veste di presidente di turno del Consiglio di "Economia e Finanza"?
Che l'obiettivo del pareggio strutturale di bilancio sarà
"finanziariamente difficile da raggiungere e comporterà enormi costi
sociali". Ottimo, si direbbe..
Quindi come ne usciremmo secondo il
nostro ministro? Tenetevi forte: coniugando flessibilità di bilancio (a
governance invariata) e riforme strutturali. Inutile dire che le
"riforme strutturali" sarebbero un nuovo pacchetto di svendita del
patrimonio pubblico, di tagli al welfare, di deregolamentazione del
mercato del lavoro, ovvero tutti interventi ad esito recessivo che
vanificherebbero gli effetti (modestissimi) di un trattamento
"flessibile" dei conti dello stato.
Facile previsione: gli effetti
delle "riforme" si vedrebbero tutti e lascerebbero traccia nel tempo,
mentre della "flessibilità" nessuno si accorgerebbe, né adesso né
domani.
Ad oggi però non siamo nemmeno a questo. Tutti gli
osservatori più attenti hanno fatto rilevare, infatti, che, nonostante i
proclami di Renzi e del governo, a prevalere in Europa sia ancora la
linea nordica del rigore, senza se e senza ma. Jean Claude Juncker, sul
punto, è stato chiaro: "Sono allergico a deficit e debito".
Tutto rinviato a settembre. Questo Renzi lo sa, per questo lancia guanti
di sfida a fantomatici banchieri e tecnocrati. Come Don Chisciotte, ma
con calcolo.
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