Almeno dal punto di vista della produzione continua di parole
mediaticamente incisive bisogna dire che Telemaco-Renzi ci si
è messo di impegno. Per convincerci che con il famoso semestre di
presidenza italiana del Consiglio d’Europa il destino del vecchio
continente, imprigionato nelle politiche dell’austerità, può
davvero cambiare. Nessuno — è stato notato in questi giorni — si era
mai accorto che queste presidenze a turno fossero così importanti.
Ma quel ruolo rappresenta certamente un’occasione per
incrementare ancora lo statuto mediatico globale dell’unico leader
di un partito di governo uscito vincente dal recente voto europeo.
E così in pochi giorni siamo passati dal selfie di un’Europa che deprime con la sua noia, alle
battute contro la Bundesbank, che deve limitarsi al suo mestiere
e non permettersi di dire alla politica — e a Telemaco-Renzi — che
cosa deve fare.
Sino alla frase declamata ieri da Bolzano: «Difendiamo l’Europa
dall’assalto della tecnocrazia!». Chissà se Mario Monti ha avuto un
soprassalto, o almeno ha inarcato il sopracciglio.
Certo il premier si riferiva all’Europa «dei banchieri e dei burocrati», ma il crescendo di espressioni critiche verso l’immagine presente dell’Unione ha assunto quasi i toni di un post di Beppe Grillo. E non sarà un caso, visto l’impegno del segretario del Pd per catturare consensi da un lato dall’elettorato sempre più confuso di Berlusconi, e dall’altro da quello assai perplesso del comico genovese.
Certo il premier si riferiva all’Europa «dei banchieri e dei burocrati», ma il crescendo di espressioni critiche verso l’immagine presente dell’Unione ha assunto quasi i toni di un post di Beppe Grillo. E non sarà un caso, visto l’impegno del segretario del Pd per catturare consensi da un lato dall’elettorato sempre più confuso di Berlusconi, e dall’altro da quello assai perplesso del comico genovese.
Ma sarebbe facile a questo punto constatare che, per cambiare effettivamente qualcosa in Europa, ci vogliono i fatti e non bastano le parole.
E che tutta questa vis polemica, condita con la retorica della
riconquista di un’«anima» radicata nella cultura della Grecia
classica e dell’Italia di Dante, si riduce pur sempre a un accordo,
a un compromesso tra socialdemocratici e popolari nel nome del
moderato Juncker.
Ieri sul Foglio Stefano Fassina elencava
puntigliosamente un elenco di «correzioni sistemiche» — non
molto leggibili nel lessico renziano — che dovrebbero essere
strappate proprio al potere tecnocratico che domina dalle parti di
Bruxelles. Non basta, insomma, invocare la «flessibilità».
Ma anche le parole sono fatti. Lo sono sempre
state nella storia della politica, e lo sono tanto più nel mondo
ipermediatizzato di oggi. La battuta di ieri contro i
«tecnocrati» è inserita in un passaggio sul rapporto tra futuro,
presente e passato. Renzi non vuole più apparire come il
«rottamatore del passato» (un altro conto è stata la faccenda di
«alcuni politici romani»). Aver fatto fuori D’Alema e Bersani (ma
anche il quasi coetaneo Enrico Letta) non vuol dire ignorare che una
politica che abbia ambizioni egemoniche, come si sarebbe detto un
tempo, non può fare a meno di una tradizione, di un sistema di idee e di valori di riferimento che non nascono con un tweet da un momento all’altro.
Ieri sul Corriere della Sera Paolo Franchi tornava sulla
metafora del figlio di Ulisse (la trovata recalcatiana di Renzi ha
comunque prodotto una quantità ragguardevole di commenti su tutti
i media) riconoscendo al premier di avere quanto meno «buon
olfatto», buon fiuto nel tematizzare ora, dopo la fase distruttiva
e rottamatrice, l’esigenza di un qualche «patto tra generazioni»,
e interrogandosi semmai sulla consistenza culturale del nuovo
discorso renziano.
Tutto questo agire e elucubrare sull’eliminazione dei padri che
sbagliano o sulla ricerca dei padri assenti resta però all’interno di
una genealogia maschile il cui meccanismo di riproduzione
positiva si è inceppato da tempo. La «rottamazione», detestata
e ammirata, è stato in fondo un modo di svelare questa realtà. Renzi
sembra anche molto sicuro che uno dei rimedi ai disastri della
politica sia la promozione delle donne in posti di responsabilità.
Ma quando dice, scherzando ma non troppo, che il «boss» per lui è il
ministro Padoan, dietro il quale si vede la figura di Napolitano,
ecco svelato il nucleo forte del suo governo, ecco Telemaco tenuto per
mano da Ulisse, l’unico a possedere un arco (ammesso che funzioni
ancora).
Forse per trovare un’altra Europa bisognerebbe sapersi rivolgere anche a un’altra genealogia. Le parole allora potrebbero nominare una rivoluzione simbolica capace di cambiare anche le cose.
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