Gli organi di dis-informazione di massa
internazionale, in questi mesi (anni), impongono una rappresentazione
terroristica della realtà della crisi al fine di accrescere il dominio di
classe. Né la cosiddetta sinistra détta “radicale” (quella che una volta
preferiva chiamarsi sinistra di classe), che si vorrebbe
anticapitalista, riesce a contrastare adeguatamente l’attività del capitale né
teoricamente, tanto meno a livello di massa. Essa resta, infatti, legata alla
proposta di misure economiche meno sfavorevoli alle masse – fatto questo degno
delle migliori social democrazie e comunque positivo – senza condurre
un’imprescindibile battaglia ideologica a partire dalla denuncia dello scontro
esistente, rispettando il cliché egemonico borghese, il quale presenta
la situazione di crisi come la danza delle ore di Ponchielli nel film Fantasia
di Walt Disney: struzzi che tutto ingoiano, ippopotami e elefanti che insieme
danzano leggiadramente quasi in attesa di essere azzannati da feroci coccodrilli
in realtà anch’essi facenti parte dello stesso corpo di ballo. Insomma i buoni
e cattivi insieme, appassionatamente, per confondere ruoli, per celare chi sia
il cattivo. Né alcuno spiega i ruoli, né, soprattutto, quanto in realtà sta
accadendo.
Eppure di guerra all’euro si tratta; e questa è l’ultima
battaglia in ordine di tempo. La guerra all’euro iniziò fin dagli esordi della
moneta unica europea. Quella condotta una dozzina di anni or sono è stata una
battaglia persa poiché la debolezza dell’euro facilitava l’export del
vecchio continente negli Usa, fu quindi subito abbandonata poiché
controproducente e dannosa per le imprese usamericane. Né portò i suoi frutti
sperati la guerra in Iraq, voluta dall’imperialismo statunitense contro l’euro
diventato moneta di riserva di ormai troppi “paesi canaglia” e non. Ecco
allora che le contraddizioni interimperialiste scoppiano con la prevalenza del
capitale finanziario speculativo su quello produttivo, il primo al servizio
dell’“impero” ma anche con obiettivi comuni alla borghesia. Assistiamo, nel
contempo, a diversi livelli di scontro: capitale contro lavoro; imperialismo
statunitense contro imperialismo europeo; capitale monetario avverso al capitale
manifatturiero; Deutschland über alles.
Diversamente da quanto sosteneva Althusser, nel leggere
l’attualità sembra di leggere Marx e lo sviluppo del capitalismo da lui
descritto, poiché tutto sta accadendo come, scientificamente, aveva dimostrato
sarebbe successo.
Su tutte le contraddizioni intercapitaliste trionfa l’unicità
d’intenti di classe del capitale sul lavoro, soprattutto in Europa.
Ridottisi, infatti, i margini di saggio di profitto e spento l’eco concorrente
dell’Unione sovietica, il capitale può e deve ristabilire il dominio totale sul
lavoro, ritornare alla situazione originaria, per riprendere l’accumulazione. Conditio
sine qua non è la diminuzione drastica dei salari nominali e reali con il
conseguente degrado della condizione materiale del proletariato. Tendenza,
questa, destinata, ulteriormente ad aumentare con la progressiva e rapidissima
scomparsa delle conquiste ottenute dal movimento operaio europeo nel dopoguerra
(pensioni, sanità, etc.). Per tutti basti il dato degli uffici di statistica
europei (dalla nostrana Istat all’europeo Eurostat) sulla povertà di molti
salariati; e il dato sul lavoro minorile. Dallo studio di Paone-Fulciniti per
l’Inca-Cgil sul lavoro minorile in Europa del luglio 2009, per esempio, emerge
che almeno 3/3,5 milioni di minori dai 5 ai 15 anni lavorino nei paesi dell’Ue.
Nel caso della sedicente civile Olanda, i minori dai 12 ai 14 anni che hanno
svolto un lavoro nel 2005 durante il periodo scolastico sono stati pari al 30%
: 179.800 sul totale della popolazione di 604.600. [Fonte: Nibud,
Nationaal scholierenonderzœk, The Hague, 2005]. Nonostante non ci siano
statistiche aggiornate e regolari e il lavoro minorile sia legalmente vietato,
i frammentati e vecchi dati su di esso e sulla condizione minorile in genere
dicono tutto sullo sviluppo capitalistico di fase. Come è acclarata una diffusa
malnutrizione dei minori in Grecia da quando la Troika [commissione Ue-Bce-Fmi]
è intervenuta a “salvare” il paese ellenico. Da sola, questa specifica realtà,
è lo specchio delle magnificenze del capitalismo per uscire dalla crisi. In
tale quadro la rilettura di La situazione della classe operaia in
Inghilterra di Engles (1845) sarebbe utilissima per una metodologia
d’analisi della realtà al fine di ricominciare l’azione comunista in Europa. Ma
questa è una questione che affronterò più avanti, poiché se il ristabilire il
dominio assoluto del capitale su lavoro è obiettivo comune della borghesia
siamo in presenza di importanti e devastanti, per il proletariato, contraddizioni
interimperialiste.
Nella “crisi” attuale, assistiamo alla continuazione della
guerra del dollaro all’euro e, all’interno di questa guerra, alla
contraddizione capitale finanziario speculativo / capitale manifatturiero. La “contraddizione
principale” è quella relativa alla guerra all’euro. Una guerra per la
supremazia del dollaro nel mondo che è iniziata molto prima che nascesse l’euro.
L’unilaterale dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro e il relativo
affossamento degli accordi di Bretton Woods di quaranta anni or sono ribadirono
la forza al dollaro quale moneta di riferimento internazionale. L’importanza
del mantenimento della moneta statunitense quale moneta internazionale di
riferimento, per gli Usa, risiedeva nella sua capacità di finanziamento del
proprio debito pubblico, e quindi il finanziamento delle guerra di conquista e
il mantenimento del dominio imperialista e mantenendo saldo il controllo
imperiale del capitale Usa. Senza questo ruolo mondiale del dollaro
Washington farebbe, con parole di moda in questo periodo, default. Per
essere schematici si paleserebbe lo scenario già visto in Argentina negli anni
’90. Al di la delle dichiarazioni di facciata statunitensi a favore della
nascita dell’euro, l’interesse, anzi la necessità del dollaro di rimanere
incontrastata moneta rifugio mondiale portò ad un attacco usamericano alla
neonata, minacciosa, moneta unica europea.
Appena varato, l’euro patì, infatti, un attacco al ribasso
sul suo valore per screditarne il ruolo alternativo al dollaro che avrebbe
potuto avere. Né la sinistra di classe comprese l’importanza dell’euro scisso
dai criteri di Maastricht in un quadro di rottura del dominio assoluto del
mondo da parte degli Usa dopo la “caduta del muro”. Rammento ancora, durante un
comizio, a Copenaghen, di un dirigente operaio del partito euroscettico di
sinistra svedese, come questi, per vantare la linea antieuropea del proprio
partito, se la ridesse della debolezza dell’euro rispetto ai favolosi annunci,
prima della sua entrata in vigore da arte delle autorità europee, della sua
forza e di quanto invece fosse ridotto come un neonato di sei mesi attaccato
all’ossigeno, in forse la sua sopravvivenza. L’attacco statunitense (quello
che i mezzi di comunicazione di massa chiamano “i mercati”) si spense appena si
realizzò il mancato crollo della moneta unica e la sua svalutazione avesse un
effetto competitivo dannoso sul proprio mercato statunitense. Ecco allora il
valore dell’euro crescere in rapida sequenza fino ad arrivare a un valore
superiore del 50% a quello del dollaro. La situazione si rovesciò e le merci
statunitensi diventarono competitive sui mercati europei e, al contrario,
quelle europee della zona euro, più care negli Stati Uniti. Essere riuscito a
sopravvivere ed anzi, grazie al mercato interno europeo a crescere diede forza
politica all’euro e la moneta europea iniziò a diventare moneta internazionale
rifugio e moneta di scambio. Molti paesi, a cominciare dalla Cina, iniziarono a
creare una parte delle loro riserve monetarie in euro diminuendo in pari misura
quelle in dollari. Nel contempo l’Iraq iniziò a vendere il petrolio in euro anziché
in petrodollari: un attacco diretto all’egemonia dell’imperialismo statunitense
e, segnatamente, al controllo usamericano del mercato primario dell’energia,
il petrolio, e della zona dove esso si estrae maggiormente.
La seconda guerra statunitense contro l’Iraq fu dunque una
guerra contro l’euro e infatti l’imperialismo europeo la contrastò con mai fece
precedentemente nei confronti dell’alleato a stelle e strisce. Nemmeno questa
azione, però, indebolì, come sperato a Washington, l’euro. La guerra contro la
moneta europea riprese con l’attuale battaglia basata sulla speculazione eterodiretta.
Si tratta, tuttavia, di una guerra nascosta al popolo. La grancassa mediatica
afferma che “i mercati”, la speculazione, iniziano ad attivarsi facilmente
contro quei paesi “poco virtuosi” il cui debito pubblico è molto alto rispetto
al Pil. Tuttavia, se confrontiamo i dati del debito pubblico di alcuni paesi non
toccati dalle agenzie di rating e dagli speculatori, emerge immediatamente
come la speculazione si attivi solo contro alcuni paesi e non altri e che
l’obiettivo è la disintegrazione dell’euro o almeno un suo forte
ridimensionamento come moneta rifugio alternativa al dollaro [sull’uso politico
delle agenzie di rating in questo ambito cfr. ... la chiamavano
trinità, no.138].
Che qualcosa con vada “per il verso giusto”
lo denuncia anche P. Krugmann, il 29 luglio sul New York times: “Si
consideri, ad esempio, il confronto tra Spagna e Florida. Entrambe avevano enormi bolle immobiliari seguite da drammatici crolli. Ma la Spagna è in crisi in un modo Florida non
lo è. Perché? Perché, quando
si produsse il crollo, la Florida
poteva contare sul governo centrale di Washington
per continuare a pagare per la
Social security e Medicare,
per garantire la solvibilità delle sue
banche, per fornire aiuti di
emergenza ai suoi disoccupati,
e altro ancora”. Qui un confronto che tra il debito
lordo in percentuale al Pil di alcuni stati – il dato della Germania va
considerato ampiamente per difetto, come vedremo più avanti – illustra quanto
sia grande la panzana del declassamento operato dalle agenzie di rating nel
rapporto debito sovrano/Pil. Tra il 2007 e il 2011 mentre gli Usa sono saliti
dal 62% al 101,5%, l’Ue è andata dal 59% all’82,5% (con Francia e Germania da quasi
il 65% a un po’ sopra l’81%, Regno unito, Olanda e Spagna apparentemente con
divari minori, ma con Grecia da 104% a 165% e Italia da 112% a 120% – e il
Giappone addirittura da 167% a 204%) [i dati relativi a Russia, Asia e America
latina sono difficilmente confrontabili; Fonti: Eurostat, Fmi, World
Economic Outlook; Ocse, Economic Outlook]. Seguendo la logica
indicataci dai mezzi di comunicazione di massa, “i mercati” avrebbero dovuto,
infatti, “colpire” tutti i paesi “poco virtuosi” (potenza dell’uso egemonico
della lingua da parte dei padroni) e sarebbero dovuti intervenire non solo
contro gli ormai noti “porci” (Pigs – Portogallo, Irlanda Grecia e
Spagna – a cui si aggiunge poi l’Italia, che modifica di poco l’acronimo
diventato Piigs), chiarissimo il messaggio per indicare i “cattivi” – ma
anche, per esempio, contro il Giappone il quale da ben un ventennio è in crisi
e il cui debito, ancorché prevalentemente interno, è oltre il 200% del proprio
Pil.
La comparazione del debito sovrano complessivo (stato
e Regioni) tra Germania e Spagna – 30% contro 15% nel 2010, rispettivamente al
23% e 18% nel 2002 – svela ogni dubbio sull’uso politico della speculazione. Lo
stesso dicasi per gli Stati Uniti il cui debito oltre ad essere relativamente
altissimo rispetto al Pil – superiore al 100% – è di un ammontare spaventoso:
15 mmrd $ e in continua e rapida crescita, almeno dal 2007, come mostrano i
dati. Né va sottaciuto il rapporto tra deficit e Pil statunitense, del 9,32%
nel 2011. Altro che parametri di Maastricht. La crescita del deficit e del
debito Usa negli ultimissimi anni – dal 2008 – illustra ancor meglio il divario
crescente (1,4 mmrd $) tra spese correnti ed entrate. Nonostante questo chiarissimo
quadro, invece, la speculazione colpisce, guarda caso, solo alcuni paesi
europei e realizza le note “difficoltà” dell’euro. Ecco che il gioco è fatto e
il dollaro ritorna forte e quindi dominante e con esso l’imperialismo
statunitense. Poiché è emerso in maniera oltremodo evidente che alla scomparsa
dell’euro seguirebbe a ruota lo sgretolamento del mercato interno, non più
funzionale e funzionante a causa delle diverse monete nazionali in continua
svalutazione competitiva tra di loro, al disfacimento di tale Mercato
Interno (sempre scritto con le iniziali maiuscole dalla Commissione
europea), a catena si squaglierebbero, come neve al sole, il progetto federale
o quello confederale europeo. Con tanti ringraziamenti del capitalismo di
origine statunitense vincente il quale ridurrebbe l’Europa a giardino di casa,
come ha sempre fatto con i paesi latino-americani.
Né il “solo” dato relativo al rapporto debito pubblico/Pil è
sufficiente a giustificare, sempre nella (il)logicità mass mediale, l’attacco
speculativo. Lo stesso Monti ha sovente denunciato quanto siano incomprensibili
gli attacchi speculativi all’Italia da quando lui è al governo quando, nel
contempo, i fondamentali del Regno Unito, della Francia e della stessa Germania
sono (nell’ordine) peggiori di quelli dell’Italia. L’uomo di punta del
neoliberismo, invidiatoci dal Wall street journal (“un’anomalia in
Europa: un leader non eletto chiamato a realizzare quei cambiamenti
impopolari che i politici si rifiutano di fare”) e dal Financial times,
campione del gruppo Bilderberg controllato dalla “sua” Goldman Sachs [cfr. no.138]
è attanagliato dalla contraddizione che lo vede – come il Superciuck di
Alan Ford che ruba ai poveri per dare ai ricchi – essere riuscito ad imporre
l’egemonia del capitale sul proletariato; egli non si può permettere la
sconfitta ideologica del far pagare la crisi al proletariato quindi è nella
necessità di dover negare che i rimedi messi in opera contro la crisi sono
assolutamente inefficaci aprendo lo spazio alla rivolta popolare.
Per coprire l’uso politico della speculazione, la
disinformazione di massa ha illustrato la messa sotto accusa, negli Usa, di
alcune banche (Hcbc, Deutsche bank, Société générale) per riciclaggio o per
aver operato con l’Iran nonostante l’embargo. In realtà questa informazione è
servita per coprirne un’altra ma che è meglio non far sapere per non svelare il
gioco di attacco ai “meno virtuosi”. Si tratta dello scandalo Libor [London
interbank offered rate]. Le ruberie finanziarie emergono alla ribalta dopo
la multa da 453 mln $ erogata a Barclays dopo l’ammissione di aver manipolato,
fra il 2005 e il 2009, il tasso interbancario Libor, utilizzato non solo per
calcolare i mutui ma anche una vastissima gamma di prodotti finanziari, tra cui
obbligazioni e titoli di stato emessi da enti locali e governi [cfr. qui il no].
Sette i grandi istituti ladroni implicati nella grande ruberia: Citigroup, Ubs,
Royal Bank of Scotland, Deutsche Bank, Hsbc, Jp Morgan e Barclays. Il tasso
manipolato non era solo il Libor:
i ritoccatori si sarebbero occupati anche del suo omologo per le operazioni in
euro, l’Euribor (Euro
interbank offered rate) con un valore di transizioni pari a 220 mmrd $ e il
Tibor (Tokio interbank offered rate). Né la Gran Bretagna, luogo
principe del furto con destrezza, viene colpita dalla speculazione nonostante
le gravissime ripercussioni, in particolare sul sistema bancario di loro
maestà, le cui avvisaglie, è provato, erano note alle autorità competenti e
agli stati fin dal 2007.
Per ammissione della Commissaria europea alla giustizia,
Vivianne Reading: “Le conseguenze dello scandalo Libor concernono la quasi
totalità delle istituzioni finanziarie del pianeta”. Per consolare i gonzi,
la Commissione europea, il 26 luglio, ha annunciato la messa in opera di norme
penali contro chi opera di tal fatta, anche se Regolamenti e Direttive
comunitarie entreranno in vigore, al meglio, tra un paio di anni! Un’altra
notizia mai diramata è quella relativa alle scelte del governo cipriota, il cui
presidente della Repubblica è il comunista Dimitris Christofias. Dovendo
chiedere un prestito, in luogo di ottenerlo sotto le condizioni capestro della troika,
Cipro ha negoziato un prestito di 4 mrd € con Russia e Cina ad un interesse più
basso di quello europeo e senza contropartite socio-economiche.
Capitale finanziario e capitale manifatturiero
Nella contraddizione interimperialista sopra esposta si
inserisce un’ulteriore contraddizione: quella tra capitale speculativo europeo
e capitale manifatturiero europeo e quella tra l’imperialismo tedesco e gli
altri microimperialismi nazionali. La prima, sotto gli occhi di tutti, si
esplicita nella contraddizione tra il capitale speculativo che accumula
profitti a danno del capitale manifatturiero distruggendo forze produttive. In
questo ambito, le dichiarazioni del presidente di Confindustria italiana Sergio
Squinzi, contro la politica “finanziaria” del governo Monti, fino a dichiarare
l’inutilità dell’abrogazione dell’art.18 rispetto al crollo della massa
salariale circolante, esplicitano chiaramente la contraddizione. La seconda
contraddizione esprime la volontà egemonica di tutti il capitale tedesco rispetto
ad altri capitalismi “nazionali” per federarli, come servi-feudatari, sotto il
proprio pugno di ferro – ovvero realizzare con altri mezzi quanto fallito dal terzo
reich. La speculazione da una parte e l’imposizione del proprio volere
nell’Ue conducono di pari passo il progetto della grande Europa tedesca.
Secondo il ben informato Der Spiegel, il piano tedesco di occupazione si
sviluppa in 6 punti: per la creazione di “zone economiche speciali” ovvero, la mezzogiornizzazione
dei paesi più deboli dell’area euro i cui titoli sovrani sono garantiti
attraverso il “rigore” imposto obtorto collo agli altri stati
quale conditionality (l’uso dell’inglese per mascherare orrende realtà
continua). Le nazioni diverrebbero sottoposte alla Germania per due ragioni: a)
troppo rigore impedisce la crescita e favorisce la decrescita; b)
l’unica crescita possibile sarebbe determinata dalla presenza di attività ed
investitori stranieri che naturalmente, avendo il maggior potere contrattuale,
si riserverebbero il diritto di subordinare l’intero assetto economico della
nazione, magari creando delle corsie preferenziali per sé a scapito dei
concorrenti. Il prossimo futuro non fa che confermare tale scenario. La
Germania vuole imporre un piano per la trasformazione dei paesi Piigs in
“zone economiche speciali”. Questi paesi sarebbero obbligati ad aprire ad
investitori stranieri (tedeschi); defiscalizzare i medesimi; privatizzare i
beni pubblici, flessibilizzare totalmente il mercato del lavoro con relativa
introduzione di aree di reddito minimo, al di sotto della media contrattuale,
introdurre scuole professionali su modello tedesco (i Berufsschulen).
L’accordo Merkel-Draghi, che permetterebbe alla Bce di
comprare debito sovrano dei Piigs, prevede l’accettazione vincolante di
tali condizioni all’acquisto europeo del debito sovrano da parte dell’istituto
di Francoforte. L’atteggiamento dominante dei tedeschi sull’Europa è sempre più
palese e, aggiungo, pericoloso. Prima dell’estate, ho partecipato ad una
conferenza sulla situazione economica, organizzata da una grande università
tedesca. Ha destato scalpore ascoltare, da parte di docenti tedeschi di
economia, nati nel dopoguerra, affermazioni incredibilmente del tutto false,
quali “l’euro e l’Ue sono stati un danno per la Germania” per sostenere la
critica all’Ue e alla Bce di Draghi al fine di giustificare la necessità del
dominio tedesco (revanscista) nel vecchio continente: eurozona e non. Ho
sentito ribadire le falsità riportate dalla stampa tedesche quali, per esempio,
la negazione del danno, per le industrie tedesche, delle svalutazioni
competitive delle diverse monete nazionali rispetto al marco nella situazione
pre-euro [per queste falsità/giustificazioni cfr. anche qui il no
citato].
Del resto può l’imperialismo tedesco esprimere altre tendenze
oltre quelle “imperiali”? Come gli Stati Uniti scaricano sul resto del mondo il
proprio debito (e i costi del dominio), così la Germania, come nel caso della
riunificazione, scarica sul resto d’Europa i costi del proprio debito.
Anche la Germania ha un enorme debito
pubblico non dichiarato: 2 mmrd € (dati 2010). Infatti, oltre
ai 1,3 mmrd di debito federale (in crescita), si devono aggiungere oltre 600
mrd di debito dei 16 länder autonomi (con punte singole del 3,5% sul
Pil) e quelli contratti dai comuni, pari a 133 mrd [cfr. ancora no].
Tutti debiti in aumento. A ciò va aggiunto il debito verso assicurazioni a
banche: 300 mrd € con le prime; 400 con i secondi, né vanno dimenticati i creditori
asiatici. Solo quest’anno Berlino dovrà sborsare circa 62 mrd di interessi
ripartiti tra länder e comuni e a tale proposito scrive il quotidiano Bild:
“dal punto di vista finanziario la Germania ha l’acqua che le arriva al labbro
inferiore e la colpa è nostra, poiché nessun governo agisce seriamente con un
piano di risparmi”.
Questa è la tendenza dominante in un momento di grande
scontro interno di interessi contrapposti tra forma finanziaria speculativa e forma
manifatturiera del capitale. Il capitale speculativo macina guadagni dalla
crisi. Il guadagno - mai parola fu più pregnante come in questo caso – della
finanza tedesca nella speculazione è evidente tanto che lo stesso Monti ha
affermato (riportato da Le Monde) nel suo giro estivo di incontri con i partner
(si possono ancora chiamare così? o piuttosto dominatori?) europei che “la
Germania è uno dei principali beneficiari della crisi”. D’altra parte il
capitale manifatturiero ha vitale interesse al mantenimento del mercato e della
moneta unica europea. Lo scontro è diventato asperrimo e tocca fenomenicamente
il vertice della Bce assumendo i volti del presidente della Bundesbank, Jens
Weidmann, campione del capitale finanziario e quello del secondo rappresentante
tedesco nel direttorio dell’Eurotower di Francoforte: Jœrg Asmussen
(vicino alla Spd, ma voluto dalla cancelliera Merkel). In questo scontro, la
stampa tedesca sembra dare rilievo piuttosto alle posizioni revansciste più
nette. Due prestigiose testate di orientamento politico diverso, hanno
pubblicato, dopo ferragosto, altrettanti duri attacchi al direttore generale
della Bce, Mario Draghi, dando così ampio sostegno alla Buba [Bundesbank]:
il condirettore della Frankfurter allgemeine zeitung, Holger Steltzner,
ha accusato Draghi di minare l’indipendenza dell’Eurotower; la Süddeutsche zeitung,
con un’intervista all’economista Manfred Neumann, professore dell’università
di Bonn e relatore della tesi di dottorato del presidente della Bundesbank
Weidmann ha rincarato la dose denunciando che Draghi rischia di condurre la
Germania ai livelli di inflazione della repubblica di Weimar.
Per finire il settimanale Der Spiegel ha dato grande
rilievo a notizie riservate, di fonte Buba, contro l’“interventismo, della Bce,
attacco indiretto alla Merkel”. All’agenzia britannica Reuters, un ex
funzionario della Buba, Guntram Wolff, ora vicedirettore del think tank
Brügel (quello fondato da Mario Monti) ha dichiarato che: “per la Bundesbank
l’acquisto dei bond è un tabù. La Merkel, invece, vuole la soluzione
meno costosa in termini politici”. La lotta interna al capitale tedesco è
durissima, basti rammentare che nel giro di un anno e mezzo si sono dimessi già
due illustri dirigenti della Buba per “difendere l’ortodossia monetaria”:
Jurgen Stark, del direttorio della Bce, e Alex Weber che aveva preso il suo
posto. Anche il terzo sostituto, Jens Weidmann, avrebbe già scritto la lettera
di dimissioni alla Merkel, ma attenderebbe a inviarla ufficialmente poiché
vuole giocarsela nella riunione dei primi di settembre del direttorio Bce. Nel
Bundestag i liberali (Fdp) sono i rappresentanti diretti della Buba, i
democristiani della Merkel (Cdu) sono spaccati ma con il ministro delle finanze
Schæuble (Csu, bavarese) schierato con le grandi multinazionali manifatturiere.
Socialdemocratici (Spd) e Verdi (Die Grunen) lo sostengono.
... e i comunisti ?
I partiti “comunisti” europei propugnano, per uscire dalla
crisi, di uscire dal capitalismo. Sembra una tautologia, purtroppo non
lo è. La proposta, infatti, riguarda l’uscita del proprio paese dall’euro. Il
che vuol dire esattamente uscire dal capitalismo. Non si tratta di una proposta
socialdemocratica che si realizza con un referendum. La questione non è: fuori
o dentro l’Ue, più o meno Ue; la questione è come il movimento operaio
europeo può incidere sui processi di accumulazione e trasformazione
capitalista delle multinazionali. L’euro incarna le necessità di fase del capitale
in Europa. Il capitale Usa non vuole l’Europa poiché concorrente, il
capitalismo nella forma speculativa fa il gioco usamericano e anche quello
europeo ci fa profitto. Ma il capitalismo manifatturiero ha bisogno dell’euro
come del profitto; poiché l’euro, intimamente legato al mercato Interno Ue
garantisce il mantenimento del saggio di profitto. Senza mercato Interno crolla
tutto ciò e il capitale europeo diventa dominato (da quello statunitense). L’euro
è il capitalismo europeo. Contrariamente agli insegnamenti del marxismo e del
leninismo i cosiddetti “partiti comunisti”, oggi, si chiudono all’interno delle
frontiere del capitalismo nazionale cercandone sollievo per la lotta di classe
in un paese solo. Eppure il messaggio del manifesto scritto da Engels e Marx
era ed è chiaro: “proletari di tutti i paesi unitevi”. Mentre il capitale
modificava il proprio modo di agire e relazionarsi rispetto all’accumulazione e
al saggio di profitto, i rappresentanti dei proletari non hanno mai pensato di
unirsi; nemmeno a partire dal basico livello sindacale. Le imprese da nazionali
diventavano europee e spostavano la produzione a seconda dei livelli di lotta
dei lavoratori ed in ogni caso seguendo le occasioni di profitto. La sigla Cae
[Comitati aziendali europei, la loro costituzione è possibile quando un’impresa
impiega almeno 1000 lavoratori e almeno 150 in 2 stati membri] è pressoché
sconosciuta ai partiti “comunisti” e ai sindacalisti comunisti europei, eppure
questo è l’unico tentativo, ancorché riformista, di mettere in relazione, unire
operai di una stessa industria presente in diversi paesi europei. È di un lontano
passato, fine anni ‘80, il primo sciopero europeo dei lavoratori di una multinazionale
(la Michelin). Poi, tutti a casa propria a lottare per il “socialismo in un
solo paese”. Mentre il capitale si organizza sempre più a livello
sovranazionale, i comunisti si isolano ed isolano i lavoratori negli angusti
confini nazionali, poiché anche chi emigra, e ormai sono molti colori i quali
hanno ripreso ad emigrare nei paesi “ricchi”, troveranno gli stessi padroni che
in patria, poiché il capitale non ha frontiere. Unica esperienza, per
dirla con Pappagnone: “vincoli o sparpagliati?” Il motto dei comunisti non era:
“uniti si vince”? Da rimpiangere la prima internazionale!
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