La nuova edizione di Il capitale finanziario
di Rudolf Hilferding è una vera strenna, di cui sono grata alla casa
editrice Mimesis (pp. 544, euro 28). Non certo per il gusto erudito e
nostalgico di riavere un classico del marxismo ormai introvabile e
citato di seconda e terza mano, ma perché la poderosa opera di Rudolf
Hilferding merita davvero, più che una rilettura, una nuova lettura,
come suggeriscono nell’introduzione Emiliano Brancaccio e Luigi
Cavallaro, curatori di questa edizione. Una lettura - scrivono - che
aiuti «a produrre un altro testo che (…) sposti di piano quello
immediatamente pervenutoci da Hilferding, facendo apparire nuovi oggetti
teorici su cui lavorare».
L’indicazione richiama esplicitamente la lezione di Louis Althusser
(non a caso del resto il titolo dell’introduzione è «Leggere Il capitale
finanziario»), cui i curatori si rifanno anche quando sostengono che
il «nucleo del paradigma marxista», da cui oggi si può ben ripartire
anche se non è in voga tra i bocconiani, consiste «nel titanico
risultato di aver gettato le basi per una teoria scientifica della
storia: una teoria che, si badi bene, non ha nulla a che vedere con la
visione teleologica e destinale che afflisse certe sue volgarizzazioni
dottrinali».
Per dirla tutta, la «visione teleologica e destinale» della storia è
stata ben più che una vulgata ad uso delle accademie sovietiche e delle
scuole di partito.
Era lo «spirito del tempo» dell’Ottocento e di buona parte del
Novecento, che Marx aveva faticosamente trasceso ma attraverso il quale
veniva (e viene ancora) interpretato. L’idea che il destino del
capitalismo sia predicibile permea perciò anche l’opera di Hilferding e
ne costituisce la principale debolezza: è la sua predizione di un
percorso spontaneo dall’anarchia all’organizzazione pianificata
dell’accumulazione sotto la direzione di un «capitale unificato»,
preludio della transizione al socialismo. La stessa idea destinale
permea anche le coeve teorie del crollo e la stessa visione di Lenin
dello stadio monopolistico e finanziario come «fase suprema» - cioè
ultima - di un capitalismo divenuto incapace di promuovere lo sviluppo
delle forze produttive e perciò morto per la storia, anzi ormai
«putrefatto». In Lenin la storia del capitalismo descrive una parabola
di tipo organico (nascita, crescita, decadenza e morte) anziché
un’evoluzione progressiva; lo schema teleologico prevede comunque la
fine prossima e certa (nella forma del crollo, dell’abbattimento
rivoluzionario o della metamorfosi riformista), indispensabile a
conseguire il fine del comunismo.
Il virtuoso e il parassita
Ma non vorrei qui limitarmi a ribadire l’indicazione althusseriana di
abbandonare le storie teleologiche (in quanto tali ideologiche, non
scientifiche) orientate al/alla fine; quanto proporre una breve
riflessione sul perché, a cavallo tra Ottocento e Novecento, la fine del
capitalismo venga declinata nelle forme antitetiche della decadenza e
del crollo, da un lato, e dell’evoluzione virtuosa, dall’altro. In L’imperialismo, fase suprema del capitalismo
Lenin impone una convivenza forzata a due rappresentanti delle
declinazioni antitetiche in questione, Hilferding e Hobson. Riprende
infatti, com’è noto, la definizione di Hilferding del «capitale
finanziario» come «capitale unificato» («Capitale finanziario significa
capitale unificato. I settori del capitale industriale, commerciale e
bancario, un tempo divisi, vengono posti sotto la direzione comune
dell’alta finanza»), associandovi tuttavia il giudizio negativo
espresso da Hobson sulla finanza «parassitaria». Di fatto tradisce, in
tal modo, il pensiero di entrambi gli autori: per Hilferding, in
realtà, l’unificazione di capitale bancario, commerciale e industriale è
un processo sostanzialmente virtuoso, foriero di crescita economica e
di potenzialità regolatrici; in Hobson, per contro, il capitale
finanziario non rappresenta affatto una forma unificata del capitale,
ma una sua frangia degenerata che svolge il ruolo perverso di spostare
altrove «la ricchezza della nazione» a scapito dello stesso capitale
commerciale e produttivo (per inciso, Hobson non è l’unico, all’epoca, a
teorizzare una contrapposizione forte tra industria e finanza: penso,
ad esempio, a Thoestein Veblen). La convivenza forzata che Lenin impone
alle tesi di Hilferding e di Hobson si basa, ancora una volta, su una
metafora organica: il capitale cresce (diventa «più grosso» attraverso i
processi di concentrazione e centralizzazione in cui il capitale
finanziario ha un ruolo chiave, proprio come dice Hilferding), si
espande (invade completamente il mondo, come sostengono entrambi gli
autori), ma inesorabilmente invecchia (decade dalla sua funzione
propulsiva dello sviluppo per diventare «parassitario», proprio come
dice Hobson).
In cerca di egemonia
Esistono oggi interpretazioni che consentono di comprendere e
integrare le posizioni di Hilferding e di Hobson al di fuori degli
schemi teleologici e delle metafore organiche. Penso alla scuola
cosiddetta del «Sistema Mondo» - che considero uno sviluppo fecondo del
marxismo - e in particolare ai «cicli sistemici» delineati da Giovanni
Arrighi. Com’è noto, Arrighi legge i periodi di «espansione
finanziaria» come momenti finali di un ciclo e preludio di
«trasformazioni egemoniche» che ridisegnano il quadro geopolitico
dell’«economia-mondo» capitalistica - ossia il suo strutturarsi in
centri, periferie e semiperiferie. Entro queste coordinate teoriche
potremmo leggere l’analisi di Hobson come attinente non al capitalismo
in generale, ma al capitalismo inglese la cui egemonia, a cavallo tra
Ottocento e Novecento, è in crisi; e l’analisi di Hilferding come
attinente invece al capitalismo tedesco e alla Germania, che viceversa,
nell’epoca in questione, si candida a pieno titolo al ruolo di nuova
potenza egemone, disponendo di nuovi strumenti finanziari e di settori
industriali strategici. Hilferding sembra in effetti consapevole di
avere sotto gli occhi, con il caso tedesco, non tanto una particolarità
nazionale (questa, all’epoca, è piuttosto l’ottica degli autori della
scuola storica, citati in più luoghi in Il capitale finanziario),
quanto, per così dire, l’ultima release del capitalismo. In altre
parole, l’osservatorio privilegiato per lo studio del capitalismo non è
più, secondo Hilferding, quell’Inghilterra che Marx aveva indicato
come «sede classica» (cioè tipica) nella prefazione alla prima edizione
de Il capitale; è invece la Germania, con le banche che
offrono credito di capitale e non solo credito di circolazione, con la
più estesa adozione della forma della società per azioni e il
conseguente primato del controllo sulla proprietà, con i nuovi potenti
strumenti che favoriscono la concentrazione e la struttura
oligopolistica del mercato.
Se ho proposto queste riflessioni non è semplicemente per
contestualizzare l’opera di Hilferding alla sua epoca, visto che il
risultato di una simile operazione sarebbe dichiararla datata; al
contrario, il mio è un tentativo di «spostarla di piano», proprio come
suggeriscono Brancaccio e Cavallaro, inserendola in nuove problematiche
per renderla suscettibile di una lettura attuale. Nell’attuale
congiuntura credo che interrogarsi sul futuro del capitalismo in chiave
destinale - come in sostanza ancora fanno quelli che Brancaccio e
Cavallaro definiscono «agitatori di fantasiose “moltitudini” in
movimento» - non porti molto lontano; e abbia invece molto più senso
cercare di capire a fondo i meccanismi, i conflitti, i processi che
operano nel corso di «trasformazioni egemoniche» come quella che stiamo
vivendo. In questa prospettiva senza dubbio Hilferding può fornirci
strumenti capaci di andare più in profondità rispetto alla «teoria
dominante (…) ferma sul suo trono», con cui giustamente Brancaccio e
Cavallaro se la prendono nell’introduzione - al contrario degli
«ossimorici “liberisti di sinistra”» cui fa tanta soggezione.
La democrazia di carta
In questa prospettiva vanno senz’altro accolte alcune indicazioni di
lettura dei curatori. In primo luogo, quella secondo cui la tendenza
alla centralizzazione costituisce l’oggetto principale dell’analisi di
Hilferding. Il capitale finanziario offre una visione assai complessa
dei processi di centralizzazione del capitale, che non rinvia soltanto
alle economie di scala ma mette in gioco «una miscela di strategie
difensive e predatorie». La logica del capitale, in altri termini, non è
semplicemente la razionalità minimax orientata all’efficienza, ma un
agire strategico conflittuale di natura in ultima analisi politica (su
questo punto ha a suo tempo molto insistito Gianfranco La Grassa, ad
esempio in Gli strateghi del capitale, manifestolibri). Ancora,
l’analisi dello sviluppo del credito bancario e della diffusione della
forma giuridica della società per azioni in Hilferding non sfocia
nell’«immagine tranquillizzante che ne danno le teorie economiche e
politiche tradizionali, che li presentano come strumenti di “democrazia
finanziaria” preposti rispettivamente alla raccolta dei risparmi e alla
ripartizione del rischio d’impresa. Al contrario, (…) Hilferding
mostra che lo sviluppo del credito e della società per azioni muove il
capitale verso poche e piene mani». Il mercato capitalistico non è
affatto un mero meccanismo di allocazione di risorse, né il regno di
una virtuosa concorrenza: è un potentissimo strumento di concentrazione
e centralizzazione. Le stesse politiche economiche e monetarie vanno
dunque lette alla luce dei processi di concentrazione e centralizzazione
- indicazione questa preziosa, come ben evidenziano i curatori, per la
comprensione dell’attuale congiuntura.
Un’ultima precisazione, per non essere fraintesa. Sono convinta che il
compito di «spiegare il mondo» sia oggi molto urgente - abbiamo perso,
temo, molto terreno su questo fronte. Ciò non significa affatto
perseguire la conoscenza per la conoscenza rinunciando alla prospettiva
di «cambiare il mondo»: proprio questa prospettiva, tuttavia, rende più
ardui e moltiplica i compiti conoscitivi. Va in questo senso
pienamente valorizzata l’indicazione con cui Brancaccio e Cavallaro
concludono l’introduzione, evocando un poco noto lavoro di Hilferding
del 1940, Capitalismo di stato o economia statuale totalitaria?:
«Noi crediamo (…) che sia giunto il tempo che i marxisti riesaminino
l’esperienza sovietica, con le sue grandezze e i suoi orrori, in chiave
finalmente scientifica e storico-critica». È davvero indispensabile
affrontare finalmente la questione, oggetto di una rimozione che sta
durando troppo, per poter proporre alternative credibili all’ideologia
liberista, al capitale finanziario e alle sue politiche economiche.
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