Con
la grande crisi scoppiata nel 2007-8 l’intero sistema finanziario del
mondo occidentale è giunto sull’orlo del collasso. È stato salvato
dall’intervento dell’autorità pubblica, spesso attraverso l’ingresso
dello Stato nel capitale delle banche in difficoltà. Solo in Italia
questa opzione è stata sempre esclusa anche solo dal novero delle
possibilità. Qui da noi è ancora ben radicato il dogmatismo ideologico
che portò alla dissennata stagione delle privatizzazioni degli anni
Novanta. È giunto il momento di cambiare rotta.
La via italiana ai salvataggi bancari: pagare senza controllare
«L’Europa riscopre la banca di Stato». Con questo titolo il Sole-24
Ore del 2 febbraio scorso ci ha informato della nazionalizzazione del
gruppo bancario-assicurativo olandese Sns Reaal. Costo dell’operazione:
3,7 miliardi di euro. Vale a dire 200 milioni in meno di quanto costano
allo Stato italiano i Monti-bond per salvare il Monte dei Paschi di
Siena. Ma con una differenza non piccola: mentre lo Stato olandese potrà
subito entrare nel capitale e quindi nella gestione di Sns Reaal,
questo in Italia avverrà solo e soltanto se Mps non sarà in grado di
rimborsare il prestito e pagare gli interessi.
Siamo l’unico paese europeo che non è voluto entrare, neanche
nell’emergenza, nel capitale delle banche in difficoltà. Non si è mai
andati al di là di prestiti. In Italia l’ingresso dello Stato nel
capitale delle banche è stato, sin dall’inizio di questa lunga crisi,
non soltanto rifiutato: in verità esso non è mai neppure entrato nel
dibattito pubblico. Nella prima fase della crisi, allorché il gruppo
Unicredit fu costretto precipitosamente a un cospicuo aumento di
capitale, tanto dal governo quanto dall’opposizione (rispettivamente
Tremonti e Veltroni) si levarono subito voci che esclusero recisamente
l’ingresso dello Stato nel capitale di quella banca. Né si può dire che
questo abbia garantito che lo Stato italiano non impegnasse risorse per
salvare le banche socializzandone le perdite. Non soltanto lo Stato ha
offerto a più riprese prestiti alle banche in difficoltà (prima i
Tremonti-bond, poi i Monti-bond), ma il governo Monti ha inserito nel
cosiddetto decreto «Salva Italia» la garanzia dello Stato italiano su
tutte le obbligazioni bancarie di nuova emissione (già collocate sul
mercato dal dicembre 2011 in avanti). Di fatto, qualora una banca
fallisca, i suoi obbligazionisti potranno ricevere dallo Stato italiano
il corrispettivo del danaro a suo tempo investito in obbligazioni di
quella banca. In tal modo, nel contesto di una manovra di maggiori tasse
e minori spese per 24 miliardi, è stata così inserita una norma che
espone lo Stato a perdite potenziali stimate in non meno di 80 miliardi
di euro (a tanto ammontano infatti le obbligazioni bancarie di nuova
emissione). È pur vero che le garanzie possono anche non essere mai
escusse, ma la sola eventualità che questo accada fa rabbrividire. In
ogni caso, la linea dei governi italiani in relazione alle crisi
bancarie che si sono profilate all’orizzonte in questi anni è sempre
stata: pagare senza controllare. E in ogni caso l’acquisizione del
controllo delle banche in difficoltà da parte dello Stato è sempre stata
esclusa anche solo dal novero delle possibilità.
Monte dei Paschi: la crisi di una banca privatizzata
In occasione dello scandalo bancario più recente, quello che ha
investito il Monte dei Paschi di Siena, questo atteggiamento di
esclusione aprioristica è stato favorito dalla versione dei fatti che è
stata offerta all’opinione pubblica. I problemi del Monte dei Paschi
sono stati infatti interamente addebitati ai rapporti tra quella banca e
la «politica». Rapporti ben concreti, intendiamoci (in particolare i
legami tra il top management di quella banca e il Pd sono così palesi da
non richiedere neppure di essere ulteriormente ribaditi). Ma ridurre
tutto a questo significa dare una lettura a dir poco parziale di quanto è
accaduto.
In verità, quella del Paschi è una vicenda emblematica, che ci
racconta un pezzo importante della storia di questo paese negli ultimi
vent’anni. E che ci insegna come una banca privatizzata possa perseguire
un orientamento al profitto di breve termine che si rivela distruttivo,
senza per questo perdere i condizionamenti politici e le logiche
clientelari che un tempo si rimproveravano alle banche pubbliche.
Proviamo quindi a mettere un po’ in fila i fatti.
Nei primi anni Novanta il Mps viene privatizzato, come l’intero
sistema bancario italiano, attraverso le Fondazioni bancarie (società
miste pubblico-private senza fini di lucro, secondo la sentenza 300/2003
della Consulta), che ne assumono il controllo azionario. A fine anni
Novanta, non vi sarà praticamente più alcuna banca pubblica (mentre
ancora all’inizio del decennio il 73 per cento del sistema bancario
italiano era in mano pubblica).
Allora si disse che quelle privatizzazioni erano necessarie non
soltanto per fare cassa e comprarsi il biglietto per l’Europa e la
moneta unica, ma anche per ammodernare il nostro sistema bancario e
renderlo più efficiente. Furono così privatizzate tutte le grandi banche
commerciali, tutte le banche a medio-lungo termine (che facevano
credito per gli investimenti delle imprese), e addirittura banche di
sviluppo come il Mediocredito centrale (mentre nel resto d’Europa gli
Stati si guardavano bene dall’alienare le banche di sviluppo: si veda ad
esempio il KfW tedesco).
L’influenza dei partiti sul Monte dei Paschi come su gran parte delle
banche privatizzate non cessò (e tuttora perdura, se pensiamo che pochi
mesi fa è stato eletto presidente dell’Associazione bancaria italiana
Antonio Patuelli, già esponente di lungo corso del Partito liberale).
Quello che cambiò furono i princìpi guida dell’attività bancaria:
prevalse il criterio del profitto di breve termine e della «creazione di
valore per gli azionisti», a sua volta identificata con l’andamento in
Borsa del titolo. La gestione delle banche cominciò a seguire tutte le
«mode» che favorivano la crescita in Borsa del titolo relativo. Inclusi
la speculazione finanziaria sempre più spinta, l’uso di società veicolo
fuori bilancio per aumentare la leva finanziaria (ossia per fare più
operazioni con sempre meno capitale proprio) e l’utilizzo di prodotti
finanziari derivati.
Nei primi anni Duemila, la moda prevalente nel sistema bancario
internazionale fu quella della corsa alla crescita dimensionale
attraverso fusioni e acquisizioni. Anche il sistema bancario italiano si
concentrò molto. Troppo: nel senso che si creò un oligopolio di poche
grandi banche. Tra fine 2006 e fine 2007 si ebbero le tre maggiori
fusioni bancarie italiane: nel 2006 Intesa compra il San Paolo di
Torino; a maggio 2007 Unicredit compra Capitalia; e nel novembre 2007 il
Monte dei Paschi compra, strapagandola, Antonveneta. L’iniziativa di
acquistare Antonveneta è del management e la Fondazione che controlla il
Monte dei Paschi ne apprende praticamente a cose fatte. Il prezzo
pagato è di 9,3 miliardi di euro. Gli organi di stampa osannano questa
come le operazioni precedenti, parlando della formazione di «campioni
nazionali» nel settore del credito.
La crisi che investe il sistema bancario negli anni successivi
colpisce anche il titolo Mps e mette in luce ancora più chiaramente (ma
era già chiaro all’atto dell’acquisto) che la Antonveneta era stata
pagata troppo cara: oggi l’intero gruppo ha una capitalizzazione di
Borsa di poco superiore ai 2 miliardi. I problemi del Monte dei Paschi
emergono con questo acquisto, che svuota le casse dell’istituto senese. A
questo punto, per migliorare i bilanci occultando le perdite (ma al
prezzo di maggiori perdite successive) vengono effettuate le operazioni
sui derivati di cui si è tornato a parlare in questi mesi. In più,
sembrano accertate malversazioni e ruberie varie (ma non sono queste il
punto essenziale). Infine, anche la crisi del debito pubblico italiano
si ripercuote sul Monte dei Paschi. La banca senese – per avere
rendimenti facili e ritenuti esenti da rischio – aveva infatti
acquistato 25 miliardi di titoli di Stato italiani, perlopiù a lungo
termine. E quindi dall’estate 2011 viene colpita dal crollo del prezzo
di quei titoli. Nel 2012 l’Eba (European Banking Authority) chiede a
diverse banche italiane – suscitando un vespaio – di effettuare un
aumento di capitale: per Mps la stima del capitale necessario si attesta
sui 3,4 miliardi di euro, a cui si aggiungono negli ultimi mesi altri
500 milioni (necessari proprio per coprire anche gran parte delle
perdite dovute all’uso dei derivati).
Acquisto di un’altra banca a prezzi eccessivi, utilizzo dei derivati
per coprire le perdite, acquisto massiccio di titoli di Stato con
duration eccessiva e conseguenti perdite di portafoglio: tutto questo
non è il prodotto della «politica», ma della gestione manageriale
assolutamente inadeguata di una banca privata.
Campioni senza valore
E qui va sottolineato che se la gestione del Monte dei Paschi ha
prodotto risultati fallimentari, la gestione degli altri «campioni
nazionali» non ha dato risultati particolarmente brillanti.
Per restare in metafora, possiamo osservare che dal 2007 in avanti
questi «campioni nazionali» hanno giocato in diversi campionati.
Quello dei dipendenti mandati a casa in Italia l’ha vinto Unicredit:
13 mila persone, contro 4 mila di Banca Intesa e 3 mila di Monte dei
Paschi (ma in quest’ultimo, trattandosi di una banca più piccola, i
tagli ammontano al 10 per cento del totale, in Unicredit «soltanto»
all’8 per cento). Vanno poi aggiunte le esternalizzazioni di una parte
del personale con lo strumento, di cui si è largamente abusato, dello
scorporo di ramo d’azienda e vendita a società terze: 800 persone
Unicredit, e adesso 1.100 al Monte dei Paschi (con un accordo aziendale
non sottoscritto dal sindacato maggiormente rappresentativo, ossia la
Fisac Cgil).
Sul campionato della distruzione di valore il giudizio è ancora
sospeso: mentre Unicredit nel 2007, dopo la fusione con Capitalia,
valeva 100 miliardi di euro e oggi ne vale appena 20,15 (dopo un aumento
di capitale da 7 miliardi), il Monte dei Paschi ha comprato Antonveneta
per 9,3 miliardi e oggi – assieme ad Antonveneta – ne vale appena 2,24.
Una bella gara…
Hanno invece vinto tutti, ma in particolare Unicredit e Banca Intesa,
il campionato del potere di mercato, ossia della rendita
oligopolistica: in molte regioni, soprattutto al Nord, queste due banche
erogano il 50 per cento del credito. Con quello che ne consegue in
termini di condizioni di prezzo per gli imprenditori.
È andata malissimo, invece, in termini di qualità del credito. Che, a
causa della crisi, ma anche delle inefficienze di questi grandi gruppi,
è molto peggiorata. Dal 2007 al 2012 le sofferenze di Unicredit sono
raddoppiate, quelle del Monte dei Paschi addirittura triplicate.
Insomma, a distanza di poco più di 5 anni, il bilancio delle ultime
aggregazioni bancarie è assolutamente disastroso: rendite
oligopolistiche, downsizing, distruzione di valore, peggioramento della
qualità del credito, e ora restrizione del credito. Un bilancio
fallimentare per tutti. Per i lavoratori e per gli azionisti, per le
imprese e per i risparmiatori. E quindi per il nostro sistema economico
nel suo complesso. Non è un caso se la Banca d’Italia vede ora nella
restrizione del credito uno dei principali motivi (assieme alle
politiche di austerity depressiva intraprese prima dal governo
Berlusconi e poi da quello presieduto da Monti) del calo dell’attività
economica e del prodotto interno lordo verificatosi nel 2012.
Tutto questo dovrebbe indurre a riconsiderare criticamente il
percorso intrapreso dal nostro sistema bancario a seguito delle
privatizzazioni degli anni Novanta, e a rimuovere il tabù tuttora assai
diffuso nei confronti della proprietà pubblica delle banche. Si tratta
di un tabù che va rotto, e non soltanto in Italia.
Il fallimento delle banche private e il credito come bene pubblico
La crisi attuale può essere considerata come la seconda fase della
crisi iniziata nel 2007, che ha decretato la fine di un modello di
sviluppo imperniato sull’enorme crescita degli assets finanziari e
creditizi nell’intero mondo occidentale. Il problema è che alla prima
fase della crisi, che aveva determinato il fallimento di fatto delle
maggiori banche internazionali, si è reagito con enormi iniezioni di
liquidità nel sistema da parte delle Banche centrali e con massicci
interventi di salvataggio con denaro pubblico su scala mondiale,
confidando che quel modello potesse rimettersi in moto. Questo ha ridato
fiato a una grande finanza che a fine 2008 era in ginocchio,
trasformato parte del debito privato in debito pubblico e aggravato la
situazione delle finanze pubbliche in numerosi paesi.
In questo modo anche il dibattito sulle cause della crisi e sui
rimedi da mettere in campo è stato spostato sul terreno, più
tradizionale e congeniale ai teorici di matrice liberista, del contrasto
al debito pubblico e quindi della necessità di ridimensionare il
welfare e il ruolo dello Stato nell’economia. Il dibattito è stato così
sequestrato da priorità pre-2007 e abbiamo potuto assistere a un
surreale remake delle posizioni reaganiane in tema di Stato minimo («lo
Stato è il problema, il mercato la soluzione»). Surreale in quanto tutto
ciò avveniva a valle del più gigantesco fenomeno di socializzazione
delle perdite della storia, con salvataggi su larga scala di banche e
società finanziarie avvenuti grazie a un apporto di risorse pubbliche
quantificato dalla Bank of England, nel suo Financial Stability Report
del giugno 2009, in 14.000 miliardi di dollari (pari al 50 per cento del
prodotto interno lordo cumulato di Stati Uniti ed Europa).
Ma questo spostamento dell’ordine e delle priorità del discorso
economico e politico contemporaneo ha prodotto effetti molto rilevanti, e
in particolare una regressione del livello del dibattito rispetto a
quello che era andato maturando tra gli ultimi mesi del 2008 e il 2009,
allorché l’emergenza economica legata al crollo dei mercati finanziari
mondiali aveva fatto intravedere una vera e propria crisi di legittimità
del capitalismo contemporaneo. Non può quindi stupire che per
rintracciare interventi di qualità sul tema del credito e dell’assetto
proprietario delle banche si debba ricorrere a lavori pubblicati nel
2009, come l’articolo di Costas Lapavitsas, Systemic Failure of Private
Banking: A Case for Public Banks. Le tesi più importanti di questo
saggio possono essere così sintetizzate:
1) Al centro della crisi oggi in corso vi è il fallimento sistemico
delle banche private – tanto delle banche commerciali quanto di quelle
di investimento.
«La vera portata del fallimento sistemico delle banche private non è
evidenziata soltanto dalla bancarotta di fatto delle grandi banche [di
investimento] causata da una gestione dell’informazione e da un governo
dei rischi inadeguati. Le banche hanno fallito anche nel loro ruolo di
tramite per l’acquisizione di beni essenziali per i lavoratori. La crisi
del settore immobiliare ha creato milioni di senzatetto nei soli Stati
Uniti, mentre un estremo indebitamento delle famiglie negli Usa, nel
Regno Unito e altrove ha condotto a una forzata compressione dei
consumi. La crisi ha evidenziato che il sistema bancario privato è
inadatto a fare da mediatore per la domanda di abitazioni, pensioni e di
molti altri beni che fanno parte del salario».
2) A fronte di questo, le proposte di riforma (anche da parte dei
post-keynesiani) sono state troppo timide, limitandosi di fatto a
suggerire metodologie di migliore regolamentazione e controllo dei
rischi; in qualche caso, gli economisti mainstream si sono rivelati
addirittura più audaci dei keynesiani, richiedendo una nazionalizzazione
(sia pure temporanea) delle banche, e quindi ponendo di fatto in
discussione il tema della modifica degli assetti proprietari delle
banche quale strumento per uscire dalla crisi.
3) «Il fallimento delle banche private ha carattere sistemico, e le
risposte dovrebbero avere del pari carattere sistemico, e l’obiettivo di
mutare in termini permanenti l’equilibrio tra pubblico e privato nel
settore finanziario. Le banche pubbliche potrebbero servire sia ad
affrontare efficacemente la crisi, sia a ristrutturare il sistema
finanziario e l’economia più a lungo termine».
4) L’intervento degli Stati e delle Banche centrali nell’affrontare
la crisi ha reso disponibili alle banche fondi pubblici di rilevante
entità, cercando però al tempo stesso di tutelare sia gli azionisti che
gli obbligazionisti delle stesse.
Le iniezioni di capitale sono state
gestite completamente nell’interesse delle banche, che le hanno
sfruttate evitando di fare effettivamente pulizia nei propri portafogli
(cosa che avrebbe avuto conseguenze dolorose per i loro azionisti e
obbligazionisti). Di fatto, «per salvare le banche fallite le autorità
hanno imposto costi molto elevati a carico della società nel suo
complesso, proteggendo gli azionisti, gli obbligazionisti e i manager
delle banche», e più in generale «la natura privata delle banche,
evitando di assumere il controllo pubblico» di esse.
5) Invece «una risposta sistemica a questi fallimenti del sistema
bancario dovrebbe includere la trasformazione delle banche commerciali
private in banche pubbliche». Questo «renderebbe più semplice il compito
di reagire alle pressioni immediate della crisi bancaria come pure di
influire sul ruolo delle banche nel lungo termine».
6) I vantaggi di una pubblicizzazione delle banche secondo Lapavitsas sarebbero i seguenti:
a) ripristino della fiducia nella solvibilità delle banche stesse, in
quanto le banche sarebbero coperte dalle garanzie e risorse dell’intera
società. Questo risolverebbe i problemi di liquidità delle banche,
riducendo la necessità di ricorrere alle Banche centrali (e quindi
evitando di appesantire troppo i bilanci di queste ultime);
b) possibilità di affrontare in termini più trasparenti anche il
problema della qualità degli assets delle banche stesse (evitando i
tentativi di nascondere le perdite, aggirare i vincoli regolamentari e
di minimizzare la portata degli stress test);
c) le perdite che dovessero essere evidenziate potrebbero essere
attribuite ai vari stakeholders in maniera più trasparente ed equa di
quanto sia avvenuto sinora: oltreché sugli azionisti, che sarebbero già
stati espropriati di fatto dal fallimento delle banche ora rilevate
dallo Stato, sui titolari di obbligazioni (domestici e stranieri) e
sugli altri creditori. In particolare, i costi di un eventuale mancato
pagamento dei creditori stranieri potrebbero essere oggetto di dibattito
a cui seguirebbero decisioni consapevolmente assunte.
7) La creazione di banche pubbliche è qualcosa di più di una semplice
nazionalizzazione, e non va ridotta a un semplice avvicendamento tra
manager privati e burocrati statali. Le banche dovrebbero essere gestite
in modo quanto più possibile trasparente, anche per mezzo di una
rappresentanza, all’interno dei loro consigli di amministrazione, degli
interessi dei lavoratori e della società civile.
8) La funzione di più lungo periodo delle banche sarebbe quella di
erogare il credito, che va considerato come una public utility, al pari
della fornitura di reti di trasporto, energia, acqua eccetera. Questo è
particolarmente importante per la fornitura di credito alle piccole e
medie imprese (che – a differenza delle imprese più grandi – non possono
ricorrere direttamente ai mercati obbligazionari per finanziarsi) e per
la fornitura di credito sociale ai lavoratori e alle famiglie in genere
(per la casa di abitazione, l’educazione eccetera). In questo modo ad
avviso di Lapavitsas sarebbe possibile invertire la tendenza degli
ultimi trent’anni, rivelatasi nefasta, alla «finanziarizzazione del
reddito personale». Più in generale, le banche pubbliche possono
rivelarsi essenziali per promuovere investimenti in nuovi settori
economici e per promuovere uno spostamento del baricentro sociale dagli
interessi privati e individuali a quelli sociali e collettivi.
È fin troppo facile constatare la lontananza di queste osservazioni e
proposte dalle ricette che ci vengono quotidianamente (ri)proposte nel
contesto del dibattito sulla crisi. Ma non è questo il limite delle
argomentazioni di Lapavitsas. Semmai, se queste considerazioni hanno un
difetto, è quello di mettere assieme le funzioni, storicamente diverse,
delle banche di credito a breve e a medio-lungo termine. Detto questo,
le indicazioni di Lapavitsas sono utili per inquadrare il da farsi di
fronte a due diverse emergenze: quella di banche in crisi, che hanno
comunque bisogno di un supporto pubblico per non fallire (il caso
Montepaschi, per intendersi), e quella più generale della restrizione
del credito alle imprese. [...]
Qui entra in gioco il secondo aspetto, quello del credito come «bene
pubblico». Un bene pubblico di importanza strategica per il paese, in
quanto dalla sua erogazione o mancata erogazione dipende in misura non
piccola la crescita attuale e futura della nostra economia. Nel 2012,
purtroppo, è successo quello che era lecito attendersi: il nostro
sistema bancario interamente privato ha seguito (legittimamente, dal suo
punto di vista) la logica della massima profittabilità di breve
periodo, e quindi, in presenza di crediti problematici crescenti a causa
della fortissima crisi in atto (-2,4 per cento il dato Istat definitivo
relativo al prodotto interno lordo), ha ridotto il credito a imprese e
famiglie. Secondo il centro studi di Unimpresa, i prestiti a imprese e
famiglie hanno avuto nel 2012 un saldo negativo di 37,7 miliardi di euro
rispetto all’anno precedente, segnando in termini percentuali un -2,5
per cento (le più colpite sono state le imprese, con una contrazione del
credito del 3,3 per cento). La presenza di banche pubbliche, con un
orizzonte di investimento di medio-lungo periodo, potrebbe consentire di
affrontare la crisi in modo ben diverso. E questo non significa
dilapidare denaro (fra l’altro, proprio le vicende del Monte dei Paschi
insegnano che a volte dirottare i propri investimenti dal credito alle
imprese a prodotti ritenuti più sicuri quali i titoli di Stato non porta
fortuna…). Significa effettuare scelte razionali di carattere diverso
da quelle effettuate dai banchieri privati: scelte nelle quali è
incorporato non soltanto il profitto di breve, ma anche l’orizzonte di
più lungo periodo della crescita economica complessiva del paese (che
per l’azionista pubblico significa anche migliore remunerazione della
propria attività attraverso le tasse, che ovviamente aumentano in
ragione del miglioramento del ciclo economico). Un orizzonte che per
definizione è precluso all’operatore privato. È precisamente per questo
motivo che l’ingresso dello Stato nel capitale di Mps (direttamente o
tramite la Cassa depositi e prestiti), non come socio finanziario
interessato a un profitto immediato ma come azionista di riferimento di
lungo termine, oggi rappresenterebbe la soluzione migliore.
Ricostruire un polo pubblico del credito a medio-lungo termine
Ma il tema della necessità, oggi, di un intervento pubblico nel
sistema bancario, non si esaurisce negli interventi di emergenza su
questa o quella banca. Come noto, la Banca d’Italia addebita parte della
colpa della recessione in atto al razionamento del credito (oltreché
alle misure di austerity depressiva). Come si è visto sopra, le banche
privatizzate, già oberate dal peso delle sofferenze sui crediti
pregressi, sono riluttanti a concedere nuovi crediti alle imprese (e
quando li concedono lo fanno a un prezzo troppo elevato). Questo non
vale soltanto per il credito a breve termine, ma anche e soprattutto per
i crediti a medio-lungo termine: ossia precisamente quei crediti che
sono legati a investimenti produttivi come ampliamento di impianti,
ammodernamento tecnologico eccetera. È dal livello di questo genere
d’investimenti che dipende in gran parte la crescita futura.
Per questo motivo è non soltanto necessario, ma urgente ricostruire
una banca pubblica per il credito a medio e lungo termine, che possa
prestare denaro alle imprese per questi scopi a tassi ragionevoli. Il
concetto secondo cui il credito è un bene pubblico (e le banche devono
quindi essere considerate come public utilities) è valido in particolare
per il credito a medio-lungo termine. Questo concetto, che in Italia
nella furia privatizzatrice degli anni Novanta è stato dimenticato,
ormai viene recuperato anche nei paesi anglosassoni: persino
l’insospettabile Regno Unito ora vuole una banca pubblica per il credito
alle piccole e medie imprese. Mentre la Germania, come è noto, non ha
mai smesso di giovarsi di una grande banca pubblica che fa credito alle
imprese, il Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW).
Farlo anche in Italia non è difficile, e si può fare in diversi modi.
Il più semplice è utilizzare una banca che già esiste e si trova nel
perimetro pubblico, ma alla quale né il governo Berlusconi né quello di
Monti hanno saputo dare una missione chiara: la Banca del
Mezzogiorno-Mediocredito centrale (Bdm-Mcc). Si tratta di fatto del
vecchio Mediocredito centrale, privatizzato sotto il governo D’Alema,
totalmente sottoutilizzato dall’ultimo acquirente, Unicredit, e infine
ceduto da questi a Poste italiane. Il percorso più lineare per la
riattivazione di un istituto di credito pubblico a medio-lungo termine
utilizzando il Mcc sarebbe: passaggio della banca sotto il controllo
diretto di Cassa depositi e prestiti o del ministero dell’Economia e
delle finanze; adeguata ricapitalizzazione; attribuzione alla banca di
queste funzioni: credito a medio-lungo termine su tutto il territorio
nazionale, credito agevolato, supporto (istruttoria e cofinanziamenti) a
Stato e regioni per l’utilizzo dei Fondi europei; infine, stretta
cooperazione e integrazione operativa tra Bdm-Mcc, Simest e Sace (queste
due ultime società sono rispettivamente specializzate nel credito
agevolato e nell’assicurazione alle esportazioni). In questo modo si
potrebbe dar vita a un polo creditizio e assicurativo pubblico per lo
sviluppo delle imprese, in grado di assisterle sia sul mercato domestico
che nella loro internazionalizzazione. In tal modo si creerebbe
finalmente anche quella export bank italiana di cui si parla invano da
molti anni (allo stato di concreto c’è soltanto una convenzione tra
Simest e Sace).
Quanto sopra può essere ottenuto anche creando ex novo una banca
specializzata nel credito a medio-lungo termine o ampliando il perimetro
delle funzioni attribuite alla Cassa depositi e prestiti e dando
autonomia al suo interno a un comparto creditizio per le imprese. Ma
entrambe le possibilità richiedono più tempo della soluzione proposta
sopra e, nel secondo caso, una modifica statutaria della Cassa depositi e
prestiti (la cui missione riguarda prevalentemente il finanziamento
degli enti locali).
Ma come è chiaro, più importante del percorso prescelto è l’obiettivo
strategico: ricostituire una presenza qualificata del pubblico nel
settore creditizio, oggi interamente lasciato in balia di operatori
privati. Insomma, invertire la rotta, almeno in questo settore, rispetto
alle privatizzazioni degli anni Novanta e a quello che ne è seguito: il
decennio a più bassa crescita dell’intero dopoguerra (Giacché 2012, p.
151).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
V. Giacché, 2012, Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, 2a ed. aggiornata e ampliata, Aliberti, Roma 2012.
C. Lapavitsas, 2009, Systemic Failure of Private Banking: a Case for Public Banks, Research on Money and Finance, Discussion Paper n. 13, 1/8/2009.
C. Peruzzi, 2013, «Sogno un socio finanziario di lungo termine»
C. Lapavitsas, 2009, Systemic Failure of Private Banking: a Case for Public Banks, Research on Money and Finance, Discussion Paper n. 13, 1/8/2009.
C. Peruzzi, 2013, «Sogno un socio finanziario di lungo termine»
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