Leggere Capitalismo come religione
di Walter Benjamin (appena edito da il Melangolo) può sembrare
soltanto un esercizio di memoralistica, o un vuoto sforzo
intellettuale. Il capitalismo del 1921 – l’anno in cui il filosofo
tedesco quando prese questi appunti – era molto diverso da quello
contemporaneo: ancora non aveva subito l’onda della grande crisi, e
soprattutto non era passato attraverso le successive, numerose
metamorfosi. Cosa possono insegnarci quattro pagine scarne di
novant’anni fa sul momento storico che stiamo vivendo?
Certo, il modo migliore per leggere questo frammento è quello di
prenderlo con tutte le cautele del caso. La prosa di Benjamin è incisiva
e oscura insieme – un’ottima scusa per lasciarsi prendere
dall’entusiasmo e vedere in essa l’interpretazione compiuta di un genio,
o una lezione da applicare tout court. Ciò detto, Capitalismo come religione
ha comunque una sua attualità straordinaria – forse proprio per il suo
messianismo così distante dall’urgenza con cui si vuole e si dovrebbe
pensare il mondo contemporaneo: in termini sociali ancora prima che
economici, ma di certo senza alcuna presunzione metafisica.
Eppure, è proprio questo capitalismo tardo, sopravvissuto alle guerre
e ai movimenti, passato attraverso il filtro della società dello
spettacolo e reincarnato in chiave informazionale, a porci la domanda:
com’è possibile? Come ha fatto a sopravvivere attraverso queste
mutazioni?
Come ha fatto a essere l’unico meccanismo completamente
globalizzato, a divorare dall’interno anche le ultime sacche di
resistenza? Tale estensione di dominio merita un’analisi non solo
genealogica o puramente pratica: ed è qui che la chiave di lettura di
Benjamin torna a essere uno strumento vivo: perché si interroga sul
senso profondo (e il destino stesso) di tale sistema.
Il punto di partenza del filosofo è che il capitalismo è “un fenomeno
essenzialmente religioso”. Si tratta di un’ipotesi che non viene
argomentata, e che anzi Benjamin rifiuta di provare per evitare di
cadere in una “smisurata polemica universale” – augurandosi che in
futuro “ne avremo una visione d’insieme”. (L’abbiamo ora? Non credo).
La supposta religiosità del capitalismo – con cui Benjamin supera d’un colpo le analisi di Weber del fenomeno come solo legato allo sviluppo religioso del calvinismo – si produce lungo quattro linee fondamentali:
1. Il capitalismo è una religione
totalmente cultuale. Non c’è dogmatica e non c’è teologia: ogni sua
manifestazione si riduce all’esecuzione di un culto (ovvero di una
serie di azioni simboliche).
2. Il rito del capitalismo è senza termine.
Non esiste riposo perché non esiste separazione fra la sfera religiosa
e quella laica: non c’è giorno feriale, nel calendario capitalista.
3. Tale culto non offre redenzione (e nemmeno consolazione): si avvita semplicemente su sé stesso producendo Schuld – una parola tedesca che significa sia “colpa” che “debito”, e sulla cui ambiguità ruota gran parte dell’analisi di Benjamin.
4. Il Dio del capitalismo è un Deus absconditus
per eccellenza: siccome non c’è redenzione, la divinità è spinta
eternamente lontano, eternamente al limite: la sua visione e la
salvezza non sono dunque contemplate.
Il punto essenziale è il primo – ed è anche il più spaventoso.
Qualsiasi religione comporta un margine di dubbio al suo interno: anche
la fede più spinta si nutrirà sempre di una forma di critica e
autocoscienza. Non così il capitalismo: il problema della sua coerenza,
della sua giustificazione e della sua teodicea è del tutto assente: si
opera secondo rito – accumulo del denaro, speculazione, sfruttamento –
senza che questo rito comunichi o simboleggi altro. Il capitalismo
rimanda solo a sé stesso, e il “dispiegamento di tutta la pompa sacrale”
e “l’estrema tensione che abita l’adoratore” sono permanenti e non
necessitano di alcun sant’Agostino o di alcun Pascal: si impongono
brutalmente a chiunque. Con una torsione logica davvero senza
precedenti, riesce a essere una religione del tutto immanente – fondata
com’è sulla materialità – e al contempo inabissata in una trascendenza
assoluta – quel Dio mai raggiungibile, che non redime nulla, che non
salva nessuno. Conclusione: “la religione non è più riforma dell’essere,
ma la sua rovina”.
Il problema centrale è che secondo Benjamin non si può venire a capo
del problema tramite semplice abiura. Il capitalismo non si spezza con
un “No” isolato: tale gesto funziona per qualsiasi altra confessione,
la cui natura è strettamente individuale, ma non per esso: perché non
esiste luogo al riparo da questa “malattia dello spirito”. Oltre il
capitalismo l’abiuratore troverà ancora il capitalismo. (Scrive Benjamin
che le “inquietudini” – questa veste esistenziale ancora prima che
psicologica, così tipica della nostra epoca – nascono proprio
dall’assenza di vie d’uscita reali per la comunità).
Il monachesimo “errante” che può generare l’abiura è solo la
testimonianza di una disperazione, non una via d’uscita: il singolo che
si rifugi in un eremo con dei compagni e viva senza mai più essere
“schiavo del sistema” (quante volte abbiamo sognato un sogno simile?)
non muta di una virgola il resto del cosmo capitalista.
Che fare, dunque?
Al netto delle difficoltà interpretative (il testo è breve, come
detto, e per metà composto da semplici annotazioni), l’idea di Benjamin è
abbastanza chiara. Per spezzare il circolo religioso – e dunque per
questo assoluto e assolutizzante – occorre un rovesciamento (Umkehr) completo, che avrebbe a che vedere con un gesto autenticamente politico, autenticamente comunitario.
Come spiega bene Carlo Salzani nell’introduzione al testo, si tratta di “riuscire a pensare
una politica profana e che profani la religione capitalistica”:
macchiare la purezza gelida del culto del profitto e riportare il
discorso su un piano interamente umano. Ma è ancora un pensiero
possibile, oggi? Non rischia di sembrare una favola dal sapore
messianico? Tutte le cautele e i dubbi che ponevo all’inizio tornano di
colpo. Il sistema capitalistico, oggi, è tanto più mostruoso perché
allarga sempre di più la faglia di diseguaglianza fra chi possiede,
decide, specula, e chi invece viene spogliato di qualsiasi dignità e
diritto. Il rispetto formale, sempre più annunciato e perseguito, è la
marionetta agitata dalla mancanza di un pensiero (prima ancora che una
politica fattiva) di uguaglianza sociale. Tutto questo non è una novità,
così come non è una novità la fallacia di tutte le forme di resistenza
classiche al capitalismo.
Ma allora forse hanno senso delle nuove possibilità, meno radicali,
di resistenza? Avrebbe senso lo svuotamento del capitalismo
dall’interno, una sua erosione lenta e basata su pratiche di
condivisione comunitaria locale? Si può ridare linfa quantomeno al bisogno disperato ed eterno di Umkehr che
ogni operaio e operatore di call center sottopagato e finta partita
IVA e bracciante sfruttato miseramente, senza illuderlo con paroloni e
manifesti vuoti?
Chissà. Ma se anche il “rovesciamento” ipotizzato da Benjamin – con
quel suo sapore tipicamente messianico, quasi fosse la buona novella che
pone fine a una falsa religione – fosse impossibile a tutti i livelli,
resta preziosa l’intuizione di fondo del filosofo, e il metodo che ci
consegna: non smettere di interrogarsi con ogni forza sul capitalismo, e
non limitarsi a considerarlo solo come un sistema politico, economico e
sociale – bensì anche come una forma di fede monolitica e priva di
dubbi. Con tutta la cecità e la perversione che una simile fede può
portare.
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