sabato 16 marzo 2013

L'eguaglianza come elemento di crescita economica


Peccato di omissione


Peccato di omissione

G.B. Zorzoli -
Le teorie economiche liberiste, per lo meno quelle che hanno maggiormente influenzato i governi occidentali negli ultimi decenni, sostengono che le politiche di redistribuzione della ricchezza nazionale a favore degli strati sociali più disagiati (attraverso la leva fiscale e provvedimenti come il salario minimo garantito) sono controproducenti: il loro costo condiziona negativamente la crescita economica, quindi danneggia tutti, anche chi si intendeva favorire.
È la teoria della torta – più è grande, più c’è da mangiare per tutti – che autorizza a liquidare con un’alzata di spalle valutazioni di segno opposto, come quella di cui riporto la parte più significativa. «Le disuguaglianze nel reddito pesano in misura rilevante sulla durata delle fasi di crescita dell’economia: una diminuzione dell’8% della disuguaglianza sociale aumenta del 50% la durata di una fase di crescita. Può sembrare un effetto eccessivo, ma è il tipo di miglioramento sperimentato in un considerevole numero di paesi. Noi stimiamo che, dimezzando il divario di disuguaglianza fra America Latina e i paesi asiatici emergenti, la durata dei cicli economici positivi più che raddoppierebbe in America Latina.
Se nel modello in cui valutiamo l’effetto della disuguaglianza includiamo anche altri fattori che influenzano lo sviluppo economico, il risultato non cambia in modo significativo, contrariamente a quanto accade per fattori come la qualità dell’istruzione e il grado di apertura al commercio internazionale. La disuguaglianza è decisiva anche quando confrontiamo la durata della crescita economica dei paesi emergenti in Africa e in Asia. Tutto questo suggerisce che la disuguaglianza sociale pesa in quanto tale sullo sviluppo economico. […]
Di qui una conclusione, tutto sommato incontrovertibile: si commetterebbe un grosso errore separando l’analisi dell’andamento economico da quella della distribuzione del reddito. Utilizzando una metafora marina, una marea crescente alza tutte le barche, e la nostra analisi indica che, aiutando le barche più piccole ad alzarsi, si aiuta la marea ad alzarle tutte, piccole e grandi». Non si tratta di parole in libertà. Il documento da cui le ho tratte è corredato da grafici e numeri a sostegno delle tesi sostenute e rappresenta la sintesi di una ricerca più estesa, pubblicata come articolo sul numero di settembre 2011 della rivista «Finance & Development».
Non si tratta nemmeno del lavoro di due studiosi liberal o – dio ce ne scampi – radical. Nulla a che vedere con uno Stiglitz, che sarà Premio Nobel per l’economia, ma non si perita di scrivere che aumentare le disuguaglianze comporta un’economia più debole, che a sua volta aumenta le disuguaglianze, che producono un’economia ancora più debole (Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, 2013). Gli autori della ricerca e dell’articolo, Andrew G. Berg e Jonathan D. Ostry, sono rispettivamente assistant director e deputy director del Dipartimento ricerca del Fondomonetario internazionale, e il loro lavoro è classificato come «IMF Staff Discussion Note 11/08».
Prima di parlarne ho atteso un più che ragionevole lasso di tempo. Tipico caso dell’uomo che morde il cane, mi aspettavo che l’articolo di Berg e Ostry suscitasse l’attenzione dei media, per lo meno di quelli che ci inondano di pensosi editoriali sulla necessità di sacrifici per risollevare l’economia. Liberi, dal loro punto di vista, di gridare allo scandalo; di contestarlo; di mettere alla gogna i suoi autori. Non il silenzio assordante che ha accolto in Italia una posizione così controcorrente, resa pubblica dal Fmi. Meglio, moltomeglio, sopire, troncare. Perché creare difficoltà al nostro beneamato premier professor Monti, impedendogli di definire in tutta tranquillità «deboli di cuore» coloro che non accettano la necessità di una severa politica economica (definizione data nel discorso agli operai Fiat di Melfi)?
alfabeta2.it

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