Negli ultimi anni il grado di progressività delle imposte si è significativamente ridotto. Ne hanno beneficiato imprese e contribuenti con redditi elevati, ma non il sistema economico nel suo complesso. È venuto il momento di promuovere una riduzione dell’onere fiscale a beneficio dei redditi più bassi per rilanciare i consumi e la crescita.
Nel corso del 2012, la pressione fiscale in Italia ha raggiunto il suo massimo storico, ed è fisiologico il fatto che pressoché tutti i partiti politici dichiarino di volerla ridurre. Si tratta di una congerie di proposte che spesso si basano esclusivamente su ragioni di equità distributiva, a fronte del fatto che la distribuzione dei carichi fiscali ha effetti rilevanti sulla crescita economica. Sebbene implicitamente, esse sono formulate sotto il vincolo del tendenziale pareggio del bilancio pubblico, così che la detassazione di alcuni gruppi sociali non può che implicare l’aumento della pressione fiscale su altri soggetti. E soprattutto si tratta di proposte che non si sa quando e sotto quale forma saranno tradotte in leggi, a fronte del fatto che, nell’immediato, per effetto delle ultime decisioni assunte dal Governo in carica, i contribuenti italiani saranno ulteriormente gravati da tasse (l’incremento dell’IVA e dell’IMU, in primo luogo), per un importo stimato di circa 15 miliardi di euro.
Sulla questione, si confrontano schematicamente due orientamenti.
1) Si ritiene, come si è ritenuto negli ultimi venti anni, che la riduzione delle imposte a beneficio dei lavoratori autonomi, delle imprese e, più in generale, dei redditi elevati generi incrementi di produzione derivanti dal fatto che questi individui reagirebbero (in quanto possono farlo) a una minore tassazione lavorando di più e, per quanto riguarda le imprese, investendo di più. Di fatto, seguendo questa linea, si è prodotta, negli ultimi anni, una condizione nella quale il grado di progressività delle imposte si è significativamente ridotto, ovvero – in termini percentuali – le famiglie con redditi bassi pagano più (o comunque non pagano meno) di quelle con redditi elevati. Al di là di considerazioni che attengono all’equità, va rilevato che queste politiche non hanno prodotto i risultati sperati: il tasso di crescita non è aumentato, e anzi si è ridotto, anche negli anni precedenti lo scoppio della crisi. Si è anche ritenuto che la detassazione dei redditi elevati possa disincentivare l’evasione fiscale. Ma anche questo nesso non ha funzionato: l’evasione fiscale è costantemente aumentata nel corso degli ultimi venti anni, pure a fronte del fatto che l’onere fiscale sugli individui più ricchi si è costantemente e significativamente ridotto. Evidentemente la detassazione non ha alcun effetto sulla “moralità fiscale” dei contribuenti. A ciò occorre aggiungere che l’Italia è arrivata solo nel 2012 all’adozione di provvedimenti di tassazione sulle rendite finanziarie in linea con quelli previsti negli ordinamenti dei maggiori Paesi OCSE.
E’ utile osservare che, stando alle ultime rilevazioni ISTAT, l’incidenza delle imposte sul reddito per tipologia e classe di reddito è stabilmente superiore per i redditi da lavoro dipendente rispetto al lavoro autonomo. Anche sulla base di questa evidenza, si può sostenere che – al di là della legittimazione ‘scientifica’ di politiche di detassazione delle imprese – la scelta in ordine alla distribuzione del carico fiscale non è affatto neutra, e risente dei rapporti di forza degli attori coinvolti e della loro rappresentanza politica. In altri termini, la ripartizione del carico fiscale sembra essere più il risultato di una contrattazione politica che prescinde da considerazioni relative agli effetti macroeconomici, che non l’esito di una scelta finalizzata a generare maggiore crescita economica. Lo si può affermare tenendo conto di una duplice considerazione. In primo luogo, l’aumento della tassazione sugli utili d’impresa (con particolare riferimento alle imprese di grandi dimensioni) può determinare la loro delocalizzazione, così che può essere sufficiente la sola minaccia di delocalizzazione per spingere il Governo a evitare l’adozione di queste misure. In secondo luogo, l’aumento della tassazione su imprese e banche può avere l’effetto di traslare il maggior carico fiscale su prezzi e tassi di interesse, soprattutto in una condizione nella quale queste operano in forme di mercato con bassa intensità competitiva. A ciò si può aggiungere che, per il solo obiettivo di “fare cassa”, è conveniente tassare maggiormente i lavoratori dipendenti, ai quali è sostanzialmente preclusa la possibilità di evadere.
2) Una visione alternativa fa riferimento al fatto che la riduzione dell’onere fiscale a beneficio dei percettori di redditi più bassi genera effetti espansivi, per l’operare di due meccanismi. In primo luogo, poiché che le famiglie con redditi bassi tendono proporzionalmente a consumare più di quanto consumino le famiglie con redditi elevati, la detassazione dei redditi più bassi genera effetti moltiplicativi sul reddito maggiori di quelli derivanti dalla detassazione dei redditi elevati. In secondo luogo, maggiori salari al netto delle imposte sono, di norma, associati a una maggiore produttività del lavoro. In secondo luogo, a fronte di un aumento dei salari, le imprese tendono a reagire innovando, per ripristinare i margini di profitto temporaneamente erosi dall’aumento dei costi. Anche per questa via, vi è da attendersi una maggiore produttività del lavoro e un maggiore tasso di crescita. In tal senso, l’equità distributiva non è un fine in sé, ma un presupposto necessario per ottenere maggiori tassi di crescita.
A riguardo, occorre ricordare che la produttività del lavoro in Italia ha raggiunto i suoi livelli massimi negli anni settanta, in una fase contrassegnata da una forte presenza dello Stato in economia e da una rilevante conflittualità sociale associata a una forte capacità di mobilitazione del sindacato. L’evidenza empirica mostra, almeno con riferimento al caso italiano, che la caduta dei salari è associata alla riduzione della produttività e del tasso di crescita. Innanzitutto, come attestato nell’ultimo Rapporto ISTAT, i lavoratori italiani percepiscono, in media, un salario inferiore di circa 15 punti percentuali rispetto ai loro colleghi tedeschi. In più, è stato calcolato che posta uguale a 100 la quota dei salari sul PIL nel 1980, questa si è costantemente ridotta in tutti i Paesi OCSE nel corso degli ultimi trenta anni, con la minima accelerazione in Giappone (circa 4 punti percentuali) e la massima accelerazione in Italia (circa 12 punti percentuali).
Come certificato nell’ultimo Rapporto OCSE, la dinamica della produttività del lavoro è, in Italia, ad oggi, fra le più basse nell’ambito dei Paesi industrializzati e, nel corso dell’ultimo ventennio, è costantemente declinata. Si consideri anche che, soprattutto per effetto delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, gli italiani lavorano, in media, molto più dei loro colleghi dei principali Paesi OCSE. E si consideri anche che, come attestato dai principali Istituti di ricerca, l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello con maggiore disuguaglianza distributiva e maggiore immobilità sociale. L’aumento della pressione fiscale, in particolare, sui ceti più deboli ha largamente contribuito a questi esiti. Sarebbe auspicabile prendere atto degli errori compiuti.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua