«La notizia che la nazionalizzazione delle banche
potrebbe essere necessaria anche secondo Alan Greenspan dimostra quanto
la situazione sia disperata: come è evidente da tempo, l’unica
soluzione è che il nostro sistema bancario sia rilevato dal governo,
forse sulla falsariga di quanto fecero Norvegia e Svezia negli anni
‘90». Parola di Joseph Stiglitz, docente della Columbia University e
Premio Nobel per l’economia. Nazionalizzare le banche: «Bisogna farlo, e farlo in fretta, prima che altri soldi vadano sprecati in manovre di salvataggio», dopo la catastrofe
planetaria provocata da «anni di comportamenti sconsiderati, tra cui la
concessione di crediti inesigibili e l’avere giocato d’azzardo con i
derivati». Teoricamente, siamo già alla bancarotta: se il governo
rispettasse le regole del gioco, sono moltissime le banche
che uscirebbero dal mercato. Nessuno sa con certezza quanto sia grande
il buco: almeno due-tremila miliardi di dollari, se non di più.
Dunque la domanda è: chi si farà carico delle perdite? «Wall Street
non chiederebbe di meglio che uno stillicidio continuo del denaro dei
contribuenti», scrive Stiglitz in un intervento su “The Nation” ripreso
da “Megachip”.
Ma l’esperienza di altri paesi suggerisce che, quando sono i mercati
finanziari a comandare, i costi possono essere enormi: paesi come
l’Argentina, il Cile e l’Indonesia, per salvare le proprie banche,
hanno speso il 40% e oltre del loro Pil. «Se non stiamo attenti, la
spesa pubblica per il salvataggio determinerà l’esclusione di altri
programmi essenziali del governo, dalla previdenza sociale ai futuri
investimenti in campo tecnologico». Stiglitz si appella al principio
fondamentale della legge in materia di reati ambientali: chi ha
inquinato, deve pagare i costi della bonifica. «Le banche americane hanno inquinato l’economia globale di rifiuti tossici». Per cui, «solo facendo sì che il settore paghi i costi delle sue azioni, recupereremo efficienza».
L’amministrazione Obama ha proposto, fra le altre cose, di comprare i bad assets e metterli in una bad bank,
lasciando che sia il governo a disporne. «Naturalmente, Wall Street era
entusiasta di questa idea: chi non vorrebbe scaricare la propria
spazzatura sul governo a prezzi gonfiati?». Quasi tutte le varianti
della proposta “cash for trash”, soldi buoni in cambio di
titoli-spazzatura, si basano sull’idea di creare una sorta di discarica
finanziaria, la band bank, gravata dai bad assets. «Ma le banche,
anche se avessero solo gli asset “buoni”, probabilmente non
disporrebbero di liquidità neanche dopo che i contribuenti avessero
strapagato la spazzatura». Stiglitz boccia questa soluzione: «Io credo
che la bad bank, senza nazionalizzazione, sia una cattiva
idea». E’ il caso di «respingere qualunque piano di tipo “soldi in
cambio di spazzatura”», perché in fondo «è un altro esempio dell’economia “voodoo” che ha segnato il settore finanziario: il tipo di alchimia che ha consentito alle banche di sminuzzare i mutui subprime, che avevano rating F, trasferendoli in titoli presunti sicuri con rating A».
Ancora peggiori, secondo Stiglitz, sono le proposte di cercare di
spingere il settore privato a comprare la spazzatura: «In questo momento
i prezzi che esso è disposto a pagare sono così bassi che le banche
non sono interessate», anche perché, in quel modo, «la dimensione del
buco nei loro bilanci verrebbe allo scoperto». Ma se il governo
assicurasse gli investitori del settore privato, e concedesse loro
prestiti a condizioni favorevoli, il settore privato sarebbe disposto a
pagare un prezzo più alto, rendendo alla fine le banche solvibili? «Questa proposta, come molte altre provenienti dagli ambienti bancari, si basa in parte sulla speranza che, se le banche
renderanno le cose sufficientemente complesse e opache, nessuno noterà
il regalo al settore bancario finché non sarà troppo tardi», osserva
l’economista della Columbia. E se le imprese si mettono nei guai,
accumulando più debiti di quanti ne possano ripagare, c’è sempre la via
d’uscita della bancarotta, che «spaventa molte persone, ma non
dovrebbe», perché «tutto quello che succede è che le pretese finanziarie
nei confronti dell’impresa vengono ristrutturate», gli azionisti
vengono spazzati via e gli obbligazionisti diventano i nuovi azionisti.
Quando la situazione è meno grave, aggiunge Stiglitz, una parte del
debito viene convertita in capitale netto: «In ogni caso, senza il
fardello dei pagamenti mensili del debito, l’impresa può tornare alla
redditività». Le banche
differiscono dalle altre imprese sotto un solo aspetto: «Il fallimento
di una banca si traduce in un particolare stato di sofferenza per i
correntisti e può portare a problemi più ampi sul piano economico».
Ancor peggio, l’esperienza ci ha insegnato che «quando le banche
rischiano di fallire, i loro dirigenti mettono in atto comportamenti
che implicano il rischio di far perdere ancora più soldi ai
contribuenti». Ad esempio, possono fare scommesse: se vincono si tengono
il ricavato, e se perdono pazienza, tanto sarebbero “morti” comunque.
«Ecco perché abbiamo leggi che dicono che, quando il capitale di una
banca è poco, questa deve essere chiusa». Perciò, «non aspettiamo che la
cassa sia vuota». L’amministrazione Obama sembra proporre, come via
d’uscita, uno “stress sotto sforzo” cui sottoporre le banche, per testarne la solidità reale, in base a modelli matematici. Problema: «Le banche
dovevano sottoporsi esse stesse a questo tipo di test regolarmente. I
loro modelli dicevano che tutto andava bene. Sappiamo che quei modelli
hanno fallito. Quello che non sappiamo è se i modelli che userà
l’amministrazione saranno migliori».
Obama prende tempo, sostenendo che gli stress-test non sono
immediati. «E mentre aspettiamo, metteremo altri soldi in istituzioni
che stanno fallendo, soldi buoni in cambio di cattivi, con un debito
nazionale sempre maggiore». Gradualmente l’America sta capendo che deve
agire subito, con ben maggiore determinazione. Una proposta innovativa?
Sostenuta anche dal finanziere George Soros e da Willem Buiter alla
London School of Economics, ribalta la prospettiva della “discarica
finanziaria” e prevede, al contrario, la creazione di una good bank,
una “banca buona”: «Invece di riversare gli asset tossici sul governo,
dovremmo estrarre quelli buoni», dice Stiglitz, «quelli a cui si può
facilmente assegnare un prezzo». Se il valore delle pretese dei
correntisti è minore di quello degli asset, allora il governo firmerà un
assegno alla vecchia banca, la bad bank; se invece accade il contrario, sarà il governo a vantare una pretesa prioritaria nei confronti della vecchia banca.
«In tempi normali – ammette Stiglitz – sarebbe facile ricapitalizzare
la banca “buona” privatamente. Ma questi non sono tempi normali, perciò
il governo potrebbe dover gestire la banca per un po’ di tempo». Si
dubita che il governo allochi il capitale in modo efficiente? Da che
pulpito: il settore privato si è forse comportato bene? Anche lo Stato,
finora, si è limitato ad assecondare le banche:
«Nessun governo in tempo di pace ha sprecato tante risorse quante ne ha
sprecate il sistema finanziario privato americano», accusa Stiglitz.
«Gli incentivi di Wall Street erano studiati per incoraggiare un
comportamento miope ed eccessivamente rischioso». Ben diverso se invece
lo Stato si assume la responsabilità di una vera riforma finanziaria,
assumendo il controllo diretto sulla sua gestione: «C’è ogni motivo per
credere che una banca temporaneamente nazionalizzata si comporterà molto
meglio – anche se la maggior parte dei dipendenti saranno comunque gli
stessi – semplicemente perché avremo cambiato gli incentivi perversi».
L’esperienza maturata in altri paesi, compresi quelli scandinavi,
dimostra che l’intera operazione può essere condotta bene. E quando alla
fine l’economia torna alla prosperità, conclude Stiglitz, le banche in grado di fornire un utile potranno essere restituite al settore privato. «Non servono soluzioni mirabolanti». Le banche,
semplicemente, «devono tornare a ciò a cui servono: prestare soldi, con
prudenza, alle imprese e alle famiglie, sulla base di una valutazione
buona – e non marginale – dell’utilizzo cui è destinato il prestito e
della possibilità per chi lo ha ricevuto di restituirlo». Ogni fase di
flessione prima o poi termina, confida l’economista Premio Nobel. «Alla
fine, potremo vendere le banche
ristrutturate a un buon prezzo», possibilmente «non basato
sull’aspettativa esuberante e irrazionale di un’altra bolla
finanziaria». A differenza dell’Eurozona “prigioniera”della Bce,
l’America sembra aver capito che non si traggono benefici dalle manovre
di “salvataggio”, che il settore finanziario cerca di spacciare per
“investimenti”. «Almeno – conclude Stiglitz – possiamo usare i proventi
della vendita finale delle banche ristrutturate per ripagare l’enorme deficit che questa débacle finanziaria avrà causato al nostro paese».
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