Il compito che oggi sta di fronte a quel che resta della sinistra
italiana è dei più difficili. La situazione è chiara, per chi sappia
guardarla: ma per affrontarla è necessaria, dopo tante piccole
innovazioni più predicate che praticate, una netta e dolorosa rottura
con l’europeismo dogmatico che da troppo tempo ci accompagna. E’ chiaro
infatti che ogni libera espressione elettorale della volontà degli
elettori sudeuropei rende inattuabile il patto che ha consentito finora
la sopravvivenza dell’euro, perché impedisce di fatto la tranquilla
attuazione delle restrizioni previste dal Fiscal Compact, anche in
eventuale versione light. E’ chiaro quindi che l’euro, come moneta che
unisce nord e sud Europa, è ormai irreversibilmente finito, perché anche
se restasse in vita ciò avverrebbe contro il volere di una massa
crescente di cittadini europei. Ma è altrettanto chiaro che la sinistra
italiana e continentale non è capace di un pensiero che sia all’altezza
della situazione, perché non è capace di prendere atto della fine della
globalizzazione e del riemergere degli stati nazionali (o meglio degli
stati nazionali più forti) come attori principali della politica. Non è
capace di capire che l’Europa è ancora fatta di nazioni, che le nazioni
più forti dettano la direzione di marcia e che, anche a causa della
persistente crisi economica, questa marcia conduce ad un gioco in cui il
nord vince ed il sud perde. E che quindi una coerente difesa dei
lavoratori italiani si identifica, oggi, con la costruzione di un
discorso che sappia legare in maniera inedita questione di classe e
questione nazionale. Le incertezze sono più che comprensibili: da Crispi
a Mussolini, per tacere degli epigoni minori, in Italia nazionalismo fa
rima con avventurismo autoritario. Per questo l’europeismo è parso a
molti una ulteriore garanzia contro l’anima nera della società italiana,
tanto che anche la sinistra anticapitalista ha visto in qualche modo
nell’Europa un vincolo esterno che poteva obbligare il paese alle virtù
democratiche. Purtroppo, però, l’ideologia del vincolo esterno è
esattamente l’ideologia delle classi dominanti italiane, e purtroppo
l’Europa si è trasformata, da ipotetico baluardo della democrazia, a
baluardo del monetarismo contro la volontà popolare. Sarà quindi
necessario rielaborare in fretta tutto il nostro orientamento degli
ultimi decenni e riscoprire un nesso tra classe e nazione che in Italia
ha avuto rari, benché importanti, momenti di emersione: nella
Resistenza, nella difesa delle fabbriche contro l’invasore, nelle lotte
postbelliche per il lavoro, nelle campagne comuniste contro
l’imperialismo, e forse anche nel contraddittorio e perdente itinerario
di Berlinguer. Si può fare. E soprattutto si deve fare.
Le note che seguono tentano di argomentare questo assunto basandosi su vari lavori di diverso campo disciplinare e di diverso orientamento, non tutti convergenti su un’ipotesi di rottura dell’euro, ma certamente tutti concordi nel chiedere quanto meno la fine dell’ europeismo “incondizionato”. Si tratta degli scritti di Alberto Bagnai, Bruno Amoroso, Emiliano Brancaccio, Leonardo Paggi, Lucio Caracciolo, Vladimiro Giacchè. Ho tenuto conto anche delle critiche all’Unione europea ed all’euro mosse da chi, come Riccardo Bellofiore, Alfonso Gianni e Bruno Steri, non ne deduce però conclusioni radicali. Queste note non intendono proporre l’immediata uscita dall’euro, ma sottolineare la necessità di inscrivere la nostra azione nella prospettiva storica del superamento dell’euro, precondizione per la creazione di una nuova unità politica europea fondata su un recupero delle sovranità nazionali e monetarie come base per la successiva e progressiva costruzione di una vera sovranità politica continentale. Per chi inorridisce al solo sentir parlare di “sovranità” preciso che con questo termine qui non si intende indicare il fondamento di una politica assoluta, aggressiva sia verso l’interno che verso l’esterno, ma una condizione elementare della democrazia (“la sovranità appartiene al popolo…”) che non a caso è stata messa in discussione proprio dalla globalizzazione guidata dal capitalismo anglosassone. Una condizione elementare della democrazia, ma anche della politica e dell’esistenza stessa di una sinistra, giacché l’estinzione della differenza fra destra e sinistra non è che l’ultimo frutto della cancellazione della libertà di scelta, implicita nella fine della sovranità
Le note che seguono tentano di argomentare questo assunto basandosi su vari lavori di diverso campo disciplinare e di diverso orientamento, non tutti convergenti su un’ipotesi di rottura dell’euro, ma certamente tutti concordi nel chiedere quanto meno la fine dell’ europeismo “incondizionato”. Si tratta degli scritti di Alberto Bagnai, Bruno Amoroso, Emiliano Brancaccio, Leonardo Paggi, Lucio Caracciolo, Vladimiro Giacchè. Ho tenuto conto anche delle critiche all’Unione europea ed all’euro mosse da chi, come Riccardo Bellofiore, Alfonso Gianni e Bruno Steri, non ne deduce però conclusioni radicali. Queste note non intendono proporre l’immediata uscita dall’euro, ma sottolineare la necessità di inscrivere la nostra azione nella prospettiva storica del superamento dell’euro, precondizione per la creazione di una nuova unità politica europea fondata su un recupero delle sovranità nazionali e monetarie come base per la successiva e progressiva costruzione di una vera sovranità politica continentale. Per chi inorridisce al solo sentir parlare di “sovranità” preciso che con questo termine qui non si intende indicare il fondamento di una politica assoluta, aggressiva sia verso l’interno che verso l’esterno, ma una condizione elementare della democrazia (“la sovranità appartiene al popolo…”) che non a caso è stata messa in discussione proprio dalla globalizzazione guidata dal capitalismo anglosassone. Una condizione elementare della democrazia, ma anche della politica e dell’esistenza stessa di una sinistra, giacché l’estinzione della differenza fra destra e sinistra non è che l’ultimo frutto della cancellazione della libertà di scelta, implicita nella fine della sovranità
1. L’Europa indiscutibile
Un partito dei lavoratori non può limitarsi a prendere posizione a fianco di essi contro il capitalismo “in generale”, ma deve anche prendere posizione nei confronti della particolare forma spaziale, geografica, che di volta in volta è assunta dal dominio del capitale sul lavoro. Un partito che, su questo tema, assuma di fatto la stessa posizione dell’avversario, è condannato a non avere mai una vera e propria autonomia. In questi anni il movimento operaio ed i movimenti civili hanno ritenuto che l’Unione europea offrisse uno spazio più ampio alle lotte popolari e costituisse (vigendo la cosiddetta globalizzazione) la dimensione minima per ogni tipo di politica, e quindi anche per la politica progressiva. La dimensione europea è apparsa indiscutibile, ed è per questo che, al di là di ogni esame logico, i difetti dell’Unione e quelli dell’euro sono stati dichiarati ipso facto emendabili.
Un partito dei lavoratori non può limitarsi a prendere posizione a fianco di essi contro il capitalismo “in generale”, ma deve anche prendere posizione nei confronti della particolare forma spaziale, geografica, che di volta in volta è assunta dal dominio del capitale sul lavoro. Un partito che, su questo tema, assuma di fatto la stessa posizione dell’avversario, è condannato a non avere mai una vera e propria autonomia. In questi anni il movimento operaio ed i movimenti civili hanno ritenuto che l’Unione europea offrisse uno spazio più ampio alle lotte popolari e costituisse (vigendo la cosiddetta globalizzazione) la dimensione minima per ogni tipo di politica, e quindi anche per la politica progressiva. La dimensione europea è apparsa indiscutibile, ed è per questo che, al di là di ogni esame logico, i difetti dell’Unione e quelli dell’euro sono stati dichiarati ipso facto emendabili.
2. Un gioco truccato
Invece, come mostreremo, l’Unione europea e l’euro non sono affatto un campo neutro in cui giocare al meglio la lotta di classe e quella civile. Il campo è indubbiamente più ampio di quello nazionale e, parlando astrattamente, potrebbe farci giocare una partita più importante, con risultati più rilevanti e più duraturi. Ma, ragionando concretamente, esso si presenta come un campo truccato, dove noi giochiamo sempre in salita e l’arbitro sta con gli altri: in realtà non è un campo, ma un meccanismo concepito ed attuato proprio per indebolire la lotta di classe e neutralizzare i diritti civili, primo fra tutti il diritto di voto. E’ quindi impossibile democratizzare l’Europa, proprio come è stato impossibile democratizzare la globalizzazione, poiché entrambe, nel costituirsi, determinano le condizioni che ne rendono impossibile una versione progressiva: la globalizzazione concedendo la massima libertà di movimento ai capitali, l’Unione europea imponendo la difesa del capitale monetario come valore costituzionale, garantito proprio dall’euro e dalla Bce. Dire che si può costruire, attraverso le lotte continentali, un’Europa diversa è dire solo una mezza verità: si tace, infatti, che per costruire l’Europa sociale si deve non solo superare questa Europa, ma anche superare l’euro. E tutti coloro che lottano per l’altra Europa senza mettere però in discussione il regime dell’euro rischiano di agire irresponsabilmente perché si ritraggono davanti alle conseguenze della propria azione.
Invece, come mostreremo, l’Unione europea e l’euro non sono affatto un campo neutro in cui giocare al meglio la lotta di classe e quella civile. Il campo è indubbiamente più ampio di quello nazionale e, parlando astrattamente, potrebbe farci giocare una partita più importante, con risultati più rilevanti e più duraturi. Ma, ragionando concretamente, esso si presenta come un campo truccato, dove noi giochiamo sempre in salita e l’arbitro sta con gli altri: in realtà non è un campo, ma un meccanismo concepito ed attuato proprio per indebolire la lotta di classe e neutralizzare i diritti civili, primo fra tutti il diritto di voto. E’ quindi impossibile democratizzare l’Europa, proprio come è stato impossibile democratizzare la globalizzazione, poiché entrambe, nel costituirsi, determinano le condizioni che ne rendono impossibile una versione progressiva: la globalizzazione concedendo la massima libertà di movimento ai capitali, l’Unione europea imponendo la difesa del capitale monetario come valore costituzionale, garantito proprio dall’euro e dalla Bce. Dire che si può costruire, attraverso le lotte continentali, un’Europa diversa è dire solo una mezza verità: si tace, infatti, che per costruire l’Europa sociale si deve non solo superare questa Europa, ma anche superare l’euro. E tutti coloro che lottano per l’altra Europa senza mettere però in discussione il regime dell’euro rischiano di agire irresponsabilmente perché si ritraggono davanti alle conseguenze della propria azione.
3. Un’osservazione di Gramsci
Dunque l’Unione europea non può essere considerata, fatalisticamente, come dimensione migliore sol perché “più grande”. Giova al riguardo meditare sulla seguente osservazione di Gramsci: “La quistione nasce dal non concepire la storia come storia di classi. Una classe ha raggiunto un certo stadio, ha costruito una certa forma di vita statale: la classe dominata, che insorge, in quanto spezza questa realtà acquisita, è perciò reazionaria? Stati unitari, movimenti autonomisti; lo Stato unitario è stato un progresso storico, necessario, ma non perciò si può dire che ogni movimento tendente a spezzare gli Stati unitari sia antistorico e reazionario; se la classe dominata non può raggiungere la sua storicità altro che spezzando questi involucri, significa che si tratta di unità amministrative militari-fiscali, non di unità moderne”. Insomma: uno spazio statuale più grande è anche uno spazio migliore solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. In caso contrario il nazionalismo non è meglio dell’autonomismo o del federalismo. E, come accade oggi, l’europeismo non è comunque meglio del nazionalismo. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.
Dunque l’Unione europea non può essere considerata, fatalisticamente, come dimensione migliore sol perché “più grande”. Giova al riguardo meditare sulla seguente osservazione di Gramsci: “La quistione nasce dal non concepire la storia come storia di classi. Una classe ha raggiunto un certo stadio, ha costruito una certa forma di vita statale: la classe dominata, che insorge, in quanto spezza questa realtà acquisita, è perciò reazionaria? Stati unitari, movimenti autonomisti; lo Stato unitario è stato un progresso storico, necessario, ma non perciò si può dire che ogni movimento tendente a spezzare gli Stati unitari sia antistorico e reazionario; se la classe dominata non può raggiungere la sua storicità altro che spezzando questi involucri, significa che si tratta di unità amministrative militari-fiscali, non di unità moderne”. Insomma: uno spazio statuale più grande è anche uno spazio migliore solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. In caso contrario il nazionalismo non è meglio dell’autonomismo o del federalismo. E, come accade oggi, l’europeismo non è comunque meglio del nazionalismo. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.
4. Il mito dell’Europa anti-Usa
Si esita a mettere in discussione l’Unione europea anche perché resiste il mito dell’Europa come potenziale polo di contrasto dell’egemonia Usa. L’Europa ideale forse corrisponde al mito, quella reale no. Il fondamento dell’inizio del processo unitario, alla fine degli anni ’50, si trova proprio nella definitiva scomparsa di ogni velleità di potenza da parte delle nazioni del continente. L’Europa si presenta quindi da subito come soggetto economico invece che politico, avente funzione di volano territoriale dello sviluppo mondiale, ma strategicamente disciplinato dalla Nato. L’accelerazione di fine secolo avviene in questa stessa direzione: al momento della caduta del Muro le redini passano di fatto alla Germania che razionalmente sceglie di basare la propria forza sull’espansione economica piuttosto che su quella politica (e quindi di continuare nella costruzione economicista dell’unità europea) perché teme le inevitabili reazioni internazionali ad un suo protagonismo politico-militare. L’Unione europea si sviluppa dunque come unità priva di una propria politica estera, ed è quindi l’esatto contrario di un soggetto politico. E’ per questo, oltre che per preoccupazioni di ordine economico, che gli Usa preferiscono, pur con le inevitabili contraddizioni, la forma attuale dell’Unione europea (oppure una unità politica costruita imbrigliando la Germania con una pletora di stati atlantisti): un mutamento di questa forma costringerebbe infatti la Germania ad un maggior ruolo politico, la avvicinerebbe ulteriormente alla Russia e riporterebbe quest’ultima vicino alle posizioni perse col crollo del Patto di Varsavia.
Si esita a mettere in discussione l’Unione europea anche perché resiste il mito dell’Europa come potenziale polo di contrasto dell’egemonia Usa. L’Europa ideale forse corrisponde al mito, quella reale no. Il fondamento dell’inizio del processo unitario, alla fine degli anni ’50, si trova proprio nella definitiva scomparsa di ogni velleità di potenza da parte delle nazioni del continente. L’Europa si presenta quindi da subito come soggetto economico invece che politico, avente funzione di volano territoriale dello sviluppo mondiale, ma strategicamente disciplinato dalla Nato. L’accelerazione di fine secolo avviene in questa stessa direzione: al momento della caduta del Muro le redini passano di fatto alla Germania che razionalmente sceglie di basare la propria forza sull’espansione economica piuttosto che su quella politica (e quindi di continuare nella costruzione economicista dell’unità europea) perché teme le inevitabili reazioni internazionali ad un suo protagonismo politico-militare. L’Unione europea si sviluppa dunque come unità priva di una propria politica estera, ed è quindi l’esatto contrario di un soggetto politico. E’ per questo, oltre che per preoccupazioni di ordine economico, che gli Usa preferiscono, pur con le inevitabili contraddizioni, la forma attuale dell’Unione europea (oppure una unità politica costruita imbrigliando la Germania con una pletora di stati atlantisti): un mutamento di questa forma costringerebbe infatti la Germania ad un maggior ruolo politico, la avvicinerebbe ulteriormente alla Russia e riporterebbe quest’ultima vicino alle posizioni perse col crollo del Patto di Varsavia.
5. Il mito dell’Europa sovranazionale
Molte delle speranze di una positiva evoluzione dell’Unione si basano su un altro mito: quello dell’Europa sovranazionale. Ma l’Unione europea e l’euro si reggono purtroppo su patti intergovernativi e quindi sull’ incerto asse Parigi-Berlino. Chi sia il vero sovrano d’Europa lo si è visto, come sempre accade, nello stato d’eccezione, ossia nella crisi esplosa nel 2008. Se in tempi di bonaccia a governare sono le istituzioni comunitarie, alle quali si possono comodamente imputare le scelte più sgradite, all’emergere della crisi queste ammutoliscono e decide il direttorio informale franco-tedesco, il cui ruolo si condensa poi nel dominio del Consiglio europeo, ossia dell’organo intergovernativo. Questa identificazione del sovrano è essenziale: non si comprende nulla delle prospettive europee se non si comprende che sovrani sono ancora i governi nazionali ed in particolare il governo più forte, ossia quello tedesco. E che per tale motivo i criteri che guidano le scelte fondamentali dell’Unione non sono quelli di un’astratta razionalità europeista, capace di mediare trai diversi interessi degli stati membri, ma quelli degli interessi nazionali del duo franco-tedesco e soprattutto del partner prevalente: il che conduce ad una crisi continua dell’Unione stessa. Infatti con il crollo del Muro, e con la conseguente creazione dell’euro, crolla, come ha dovuto riconoscere lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, anche il sogno europeo. Preoccupata per il crescente potere della Germania, la Francia ottiene l’abbandono del marco in cambio del via libera all’unificazione tedesca; ma la Germania accetta l’euro solo se ed in quanto esso somiglia al marco. Così, al progressivo avvicinamento economico e politico dei diversi paesi si sostituisce la costruzione forzosa di un’unica area valutaria che aumenta, a lungo andare, la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta incorpora le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.
Molte delle speranze di una positiva evoluzione dell’Unione si basano su un altro mito: quello dell’Europa sovranazionale. Ma l’Unione europea e l’euro si reggono purtroppo su patti intergovernativi e quindi sull’ incerto asse Parigi-Berlino. Chi sia il vero sovrano d’Europa lo si è visto, come sempre accade, nello stato d’eccezione, ossia nella crisi esplosa nel 2008. Se in tempi di bonaccia a governare sono le istituzioni comunitarie, alle quali si possono comodamente imputare le scelte più sgradite, all’emergere della crisi queste ammutoliscono e decide il direttorio informale franco-tedesco, il cui ruolo si condensa poi nel dominio del Consiglio europeo, ossia dell’organo intergovernativo. Questa identificazione del sovrano è essenziale: non si comprende nulla delle prospettive europee se non si comprende che sovrani sono ancora i governi nazionali ed in particolare il governo più forte, ossia quello tedesco. E che per tale motivo i criteri che guidano le scelte fondamentali dell’Unione non sono quelli di un’astratta razionalità europeista, capace di mediare trai diversi interessi degli stati membri, ma quelli degli interessi nazionali del duo franco-tedesco e soprattutto del partner prevalente: il che conduce ad una crisi continua dell’Unione stessa. Infatti con il crollo del Muro, e con la conseguente creazione dell’euro, crolla, come ha dovuto riconoscere lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, anche il sogno europeo. Preoccupata per il crescente potere della Germania, la Francia ottiene l’abbandono del marco in cambio del via libera all’unificazione tedesca; ma la Germania accetta l’euro solo se ed in quanto esso somiglia al marco. Così, al progressivo avvicinamento economico e politico dei diversi paesi si sostituisce la costruzione forzosa di un’unica area valutaria che aumenta, a lungo andare, la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta incorpora le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.
6. Deflazione, Bce, stabilità
La scelta deflazionista è strategica per la Germania perché questo paese è (e lo diverrà sempre di più nei confronti degli altri paesi europei) sia esportatore netto che creditore netto: da ciò, per adesso e per lungo tempo, l’impossibilità di una diversa politica economica di Berlino, giacché ogni accenno di inflazione ridurrebbe i suoi crediti ed aumenterebbe i prezzi delle sue merci. Quanto all’indipendenza della Bce essa consente di costruire un particolare stato capitalistico che costringe gli stati nazionali a finanziarsi solo attraverso il mercato, escludendo ogni monetizzazione del debito. Da ciò l’aumento del costo del debito e quindi la riduzione delle spese sociali e quindi il collasso del vecchio modello di compromesso fra classi: la Bce, con le sue scelte “puramente” monetarie, impone di fatto anche una politica fiscale restrittiva senza avere, al riguardo, nessuna legittimazione politica. La stabilità monetaria completa l’opera, non solo perché garantisce il creditore contro il debitore, ma anche perché ha lo stesso effetto che aveva il gold standard: rendere strutturalmente scarso il denaro e quindi costringere il lavoro a svalorizzarsi per attrarre capitale; come scrive Alberto Bagnai l’euro è il Reagan europeo. Questo meccanismo, che è strutturalmente contrario ad ogni politica popolare, potrebbe essere forse riformabile se fosse espressione di una comune volontà transnazionale che, sperimentati i difetti della propria costituzione monetaria, decidesse razionalmente di cambiarla. Ma esso è invece espressione dello stato forte, ed a quest’ultimo apporta quasi solo benefici. Per questo, quindi, salvo ripensamenti improbabili di Berlino, può essere solo corretto qua e là, e non certo ribaltato.
La scelta deflazionista è strategica per la Germania perché questo paese è (e lo diverrà sempre di più nei confronti degli altri paesi europei) sia esportatore netto che creditore netto: da ciò, per adesso e per lungo tempo, l’impossibilità di una diversa politica economica di Berlino, giacché ogni accenno di inflazione ridurrebbe i suoi crediti ed aumenterebbe i prezzi delle sue merci. Quanto all’indipendenza della Bce essa consente di costruire un particolare stato capitalistico che costringe gli stati nazionali a finanziarsi solo attraverso il mercato, escludendo ogni monetizzazione del debito. Da ciò l’aumento del costo del debito e quindi la riduzione delle spese sociali e quindi il collasso del vecchio modello di compromesso fra classi: la Bce, con le sue scelte “puramente” monetarie, impone di fatto anche una politica fiscale restrittiva senza avere, al riguardo, nessuna legittimazione politica. La stabilità monetaria completa l’opera, non solo perché garantisce il creditore contro il debitore, ma anche perché ha lo stesso effetto che aveva il gold standard: rendere strutturalmente scarso il denaro e quindi costringere il lavoro a svalorizzarsi per attrarre capitale; come scrive Alberto Bagnai l’euro è il Reagan europeo. Questo meccanismo, che è strutturalmente contrario ad ogni politica popolare, potrebbe essere forse riformabile se fosse espressione di una comune volontà transnazionale che, sperimentati i difetti della propria costituzione monetaria, decidesse razionalmente di cambiarla. Ma esso è invece espressione dello stato forte, ed a quest’ultimo apporta quasi solo benefici. Per questo, quindi, salvo ripensamenti improbabili di Berlino, può essere solo corretto qua e là, e non certo ribaltato.
7. L’euro aggrava gli squilibri
A quanto sopra si aggiungono gli effetti dell’unicità della moneta in presenza di economie diverse. Deve esser chiaro, preliminarmente, che i guai dell’economia italiana non derivano (o non derivavano) principalmente dall’euro. Derivano dalla grave sottocapitalizzazione di tutte le imprese (piccole, medie e grandi), dalla latitanza delle banche privatizzate, dall’assenza di intervento pubblico e di politica industriale, dalla precarizzazione del lavoro. E deve essere chiaro che la forza dell’economia tedesca è (o era) essenzialmente endogena. Nessun sentimento antitedesco, quindi, nessuna risibile rivendicazione della cosiddetta italianità. In partenza l’economia tedesca è più produttiva (anche se non di molto) di quella italiana. Ma il fatto è che l’euro aggrava gli squilibri invece di attenuarli. Già ci ha pensato il mercato unico a far addensare le risorse produttive sul versante nordoccidentale del continente: i capitali vanno soprattutto là dove c’è maggior concentrazione industriale, ed il processo si autoalimenta. A ciò l’euro aggiunge l’eliminazione delle monete nazionali e quindi l’impossibilità di svalutare per recuperare gli squilibri dei conti tra paesi. L’autodenigrazione così diffusa in Italia ci fa dimenticare che la svalutazione non è un furbesco stratagemma dei pigri a danno dei più laboriosi, ma è, insieme alla rivalutazione, un meccanismo fisiologico di riequilibrio: non è una panacea, ma nemmeno il male assoluto. In un gruppo di paesi connessi ma aventi diversi gradi di competitività, se i paesi in deficit (e qui stiamo parlando del deficit nei conti con l’estero che è in maggioranza deficit privato) non possono svalutare e quelli in surplus non possono (e non vogliono) rivalutare, gli squilibri sono condannati a riprodursi, ed ogni prospettiva unitaria perde senso. Ai paesi in deficit non resta che sostituire l’impossibile svalutazione monetaria con la svalutazione reale, ossia con la depressione dei salari, e quindi della domanda e così via. I paesi in surplus dovrebbero compensare questo movimento aumentando salari e domanda (rivalutazione reale): nel nostro caso, invece, il paese che più degli altri avrebbe dovuto rivalutare, ossia la Germania, ha riacquisito competitività operando a sua volta una grossa svalutazione reale, ossia una riduzione dei salari finanziata (e socialmente attenuata) dal denaro pubblico erogato in barba ai criteri di Maastricht. Del resto, l’Unione impone di fatto il riequilibrio ai soli paesi in deficit, mentre una logica realmente unitaria, come quella proposta da Keynes per il sistema di Bretton Woods, richiederebbe l’obbligo di riequilibrio anche ai paesi in surplus.
A quanto sopra si aggiungono gli effetti dell’unicità della moneta in presenza di economie diverse. Deve esser chiaro, preliminarmente, che i guai dell’economia italiana non derivano (o non derivavano) principalmente dall’euro. Derivano dalla grave sottocapitalizzazione di tutte le imprese (piccole, medie e grandi), dalla latitanza delle banche privatizzate, dall’assenza di intervento pubblico e di politica industriale, dalla precarizzazione del lavoro. E deve essere chiaro che la forza dell’economia tedesca è (o era) essenzialmente endogena. Nessun sentimento antitedesco, quindi, nessuna risibile rivendicazione della cosiddetta italianità. In partenza l’economia tedesca è più produttiva (anche se non di molto) di quella italiana. Ma il fatto è che l’euro aggrava gli squilibri invece di attenuarli. Già ci ha pensato il mercato unico a far addensare le risorse produttive sul versante nordoccidentale del continente: i capitali vanno soprattutto là dove c’è maggior concentrazione industriale, ed il processo si autoalimenta. A ciò l’euro aggiunge l’eliminazione delle monete nazionali e quindi l’impossibilità di svalutare per recuperare gli squilibri dei conti tra paesi. L’autodenigrazione così diffusa in Italia ci fa dimenticare che la svalutazione non è un furbesco stratagemma dei pigri a danno dei più laboriosi, ma è, insieme alla rivalutazione, un meccanismo fisiologico di riequilibrio: non è una panacea, ma nemmeno il male assoluto. In un gruppo di paesi connessi ma aventi diversi gradi di competitività, se i paesi in deficit (e qui stiamo parlando del deficit nei conti con l’estero che è in maggioranza deficit privato) non possono svalutare e quelli in surplus non possono (e non vogliono) rivalutare, gli squilibri sono condannati a riprodursi, ed ogni prospettiva unitaria perde senso. Ai paesi in deficit non resta che sostituire l’impossibile svalutazione monetaria con la svalutazione reale, ossia con la depressione dei salari, e quindi della domanda e così via. I paesi in surplus dovrebbero compensare questo movimento aumentando salari e domanda (rivalutazione reale): nel nostro caso, invece, il paese che più degli altri avrebbe dovuto rivalutare, ossia la Germania, ha riacquisito competitività operando a sua volta una grossa svalutazione reale, ossia una riduzione dei salari finanziata (e socialmente attenuata) dal denaro pubblico erogato in barba ai criteri di Maastricht. Del resto, l’Unione impone di fatto il riequilibrio ai soli paesi in deficit, mentre una logica realmente unitaria, come quella proposta da Keynes per il sistema di Bretton Woods, richiederebbe l’obbligo di riequilibrio anche ai paesi in surplus.
8. Mercantilismo antieuropeo
Più che l’astratto “potere padronale”, più che l’inafferrabile “neoliberismo” è quindi il meccanismo dell’euro a schiacciare tutti i lavoratori europei e gli stessi lavoratori tedeschi, pei quali la crisi è solo parzialmente attenuata dalla condizioni di partenza e dall’intervento di stato. La deflazione deprime i salari, la Bce disarma gli stati, la stabilità monetaria inchioda il debitore e dà, soprattutto in tempo di crisi, un altro colpo ai redditi da lavoro. La moneta unica aumenta la divaricazione fra territori e quest’ultima, dando luogo ad un mercato del lavoro duale, fa aumentare la divaricazione fra classi: due diseguaglianze che si alimentano a vicenda. Questo è l’effetto complessivo dell’euro, e la difficoltà, l’impossibilità di immaginarne un altro sta tutta nel fatto che esso è coerente con le esigenze dello stato economicamente più forte. Come strumento per tener bassi i prezzi dello stato esportatore e per acquisire a buon mercato materie prime, l’euro è infatti la perfetta espressione della politica mercantilista della Germania, ed assicura un surplus costante a Berlino. Ma assicura anche la disintegrazione europea perché predicare il mercantilismo a tutti è un assurdo logico, dato che in un gruppo di paesi connessi è impossibile che tutti siano contemporaneamente in surplus: chi lo è dovrebbe invece farsi carico di aumentare la domanda interna, e quindi le importazioni, proprio quello che Berlino non vuol fare. Sul mercantilismo non si può fondare un’unione economica, e tanto meno politica. E nemmeno si può fondare quel ruolo globale dell’euro, alternativo al dollaro, che molta sinistra ha immaginato. Una vera Unione europea ed una vera funzione di coordinamento monetario mondiale richiedono una politica di riequilibrio fra creditori e debitori, cosa del tutto estranea alla logica dell’euro.
Più che l’astratto “potere padronale”, più che l’inafferrabile “neoliberismo” è quindi il meccanismo dell’euro a schiacciare tutti i lavoratori europei e gli stessi lavoratori tedeschi, pei quali la crisi è solo parzialmente attenuata dalla condizioni di partenza e dall’intervento di stato. La deflazione deprime i salari, la Bce disarma gli stati, la stabilità monetaria inchioda il debitore e dà, soprattutto in tempo di crisi, un altro colpo ai redditi da lavoro. La moneta unica aumenta la divaricazione fra territori e quest’ultima, dando luogo ad un mercato del lavoro duale, fa aumentare la divaricazione fra classi: due diseguaglianze che si alimentano a vicenda. Questo è l’effetto complessivo dell’euro, e la difficoltà, l’impossibilità di immaginarne un altro sta tutta nel fatto che esso è coerente con le esigenze dello stato economicamente più forte. Come strumento per tener bassi i prezzi dello stato esportatore e per acquisire a buon mercato materie prime, l’euro è infatti la perfetta espressione della politica mercantilista della Germania, ed assicura un surplus costante a Berlino. Ma assicura anche la disintegrazione europea perché predicare il mercantilismo a tutti è un assurdo logico, dato che in un gruppo di paesi connessi è impossibile che tutti siano contemporaneamente in surplus: chi lo è dovrebbe invece farsi carico di aumentare la domanda interna, e quindi le importazioni, proprio quello che Berlino non vuol fare. Sul mercantilismo non si può fondare un’unione economica, e tanto meno politica. E nemmeno si può fondare quel ruolo globale dell’euro, alternativo al dollaro, che molta sinistra ha immaginato. Una vera Unione europea ed una vera funzione di coordinamento monetario mondiale richiedono una politica di riequilibrio fra creditori e debitori, cosa del tutto estranea alla logica dell’euro.
9. Perché conviene deprimere le economie del sud?
Quella dell’euro, è infatti, la logica del creditore, la logica del detentore di capitale monetario. I paesi che si trovano stabilmente in surplus inondano coi propri capitali i paesi in deficit, nei quali aumenta, in tal modo, la domanda finanziata a debito. Ciò, se all’inizio dinamizza l’economia, a lungo andare ne accentua gli squilibri perché aumenta ulteriormente il volume delle importazioni a scapito delle esportazioni e perché dà luogo ad una inflazione da domanda “drogata” che stabilizza le differenze di inflazione coi paesi in surplus e rende ancor più scarse le esportazioni dei debitori. Così sopraggiunge la crisi e a quel punto i debitori, poiché non posseggono il controllo della valuta in cui è denominato il loro debito, non possono attenuare il debito con la svalutazione e devono ridurre le spese statali, pagare a più caro prezzo il ricorso al mercato finanziario, e svendere il patrimonio. La rigidità dell’euro consente quindi ai creditori sia di evitare il “rischio di cambio”, sia di aumentare la dipendenza finanziaria dei debitori, sia di mettere le mani sul patrimonio altrui. Così si spiega il comportamento apparentemente illogico del creditore nord europeo: perché, infatti, incaponirsi in politiche che riducendo la domanda dei paesi debitori, riducono il mercato per i prodotti del nord? Per ben due motivi: perché diminuire il salario dei lavoratori del sud, spesso terzisti del nord, significa diminuire i prezzi dei prodotti del nord stesso; e perché la generale deflazione del sud abbatte il costo del patrimonio industriale ed immobiliare dei paesi colpiti. Non sarà bello dirlo, ma la logica che guida queste scelte è una logica semi-coloniale, che punta a costruire un sistema industriale ed un mercato del lavoro duali, concentrando la proprietà nelle mani del nord e trasformando il sud in un mare di mano d’opera a basso costo. La logica dell’euro è la più cocente smentita di chi crede che l’Unione europea sia terreno più favorevole per la lotta di classe.
Quella dell’euro, è infatti, la logica del creditore, la logica del detentore di capitale monetario. I paesi che si trovano stabilmente in surplus inondano coi propri capitali i paesi in deficit, nei quali aumenta, in tal modo, la domanda finanziata a debito. Ciò, se all’inizio dinamizza l’economia, a lungo andare ne accentua gli squilibri perché aumenta ulteriormente il volume delle importazioni a scapito delle esportazioni e perché dà luogo ad una inflazione da domanda “drogata” che stabilizza le differenze di inflazione coi paesi in surplus e rende ancor più scarse le esportazioni dei debitori. Così sopraggiunge la crisi e a quel punto i debitori, poiché non posseggono il controllo della valuta in cui è denominato il loro debito, non possono attenuare il debito con la svalutazione e devono ridurre le spese statali, pagare a più caro prezzo il ricorso al mercato finanziario, e svendere il patrimonio. La rigidità dell’euro consente quindi ai creditori sia di evitare il “rischio di cambio”, sia di aumentare la dipendenza finanziaria dei debitori, sia di mettere le mani sul patrimonio altrui. Così si spiega il comportamento apparentemente illogico del creditore nord europeo: perché, infatti, incaponirsi in politiche che riducendo la domanda dei paesi debitori, riducono il mercato per i prodotti del nord? Per ben due motivi: perché diminuire il salario dei lavoratori del sud, spesso terzisti del nord, significa diminuire i prezzi dei prodotti del nord stesso; e perché la generale deflazione del sud abbatte il costo del patrimonio industriale ed immobiliare dei paesi colpiti. Non sarà bello dirlo, ma la logica che guida queste scelte è una logica semi-coloniale, che punta a costruire un sistema industriale ed un mercato del lavoro duali, concentrando la proprietà nelle mani del nord e trasformando il sud in un mare di mano d’opera a basso costo. La logica dell’euro è la più cocente smentita di chi crede che l’Unione europea sia terreno più favorevole per la lotta di classe.
10. La riforma impossibile
E’ possibile “migliorare” questa situazione? Allo stato attuale la risposta è: no, non è possibile. Tutte le proposte avanzate al riguardo non intaccano il perverso meccanismo europeo. Una più attiva politica della Bce lascerebbe comunque intatti i differenziali di inflazione tra nord e sud, che sono una delle più importanti concause dello squilibrio. La possibilità di non considerare gli investimenti produttivi nel computo deficit pubblico sarebbe comunque poca cosa vista la costante diminuzione delle risorse disponibili. L’emissione di Eurobond non risolverebbe il problema della dipendenza degli stati dal mercato finanziario. Gli investimenti comunitari (…ma l’Unione ha recentemente ridotto il proprio bilancio, invece di aumentarlo come sarebbe logico in tempi di crisi) avverrebbero comunque all’interno di squilibri strutturali non sanati. Inoltre ciascuna di queste scelte dovrebbe essere compensata, agli occhi di Berlino e Francoforte, da un indurimento delle restrizioni fiscali e dell’esautoramento degli stati nazionali: si toglierebbe quindi con la vanga e si darebbe col cucchiaino. E poi, soprattutto, chi sarebbe il protagonista di questa nuova politica? Hollande? Una Merkel rinsavita? Una nuova coalizione rossoverde in Germania? Non sarebbe affatto impossibile, in linea di principio, che le aziende esportatrici tedesche imponessero una difesa dell’euro ad ogni costo e dunque un qualche significativo allentamento della, peraltro immutabile, scelta deflazionista. Ma come diceva il vecchio Lenin, la nostra tattica, se pur deve tener conto della possibile trasformazione delle tendenze in atto, è pur sempre su tali tendenze che deve basarsi. Ed esse ci dicono che nessuna delle forze in questione intende realmente deflettere dalla direzione intrapresa. Non Hollande che accetta il Fiscal Compact e mercanteggia qualche sconto sul rientro dal deficit (problema francese) ma non sul rientro dal debito (problema italiano). Non Angela Merkel, che deve vedersela con un nuovo partito apertamente anti-euro. Non i socialdemocratici o i verdi tedeschi che hanno sui Piigs la stessa idea della Merkel e che, come deve ammettere a denti stretti la stessa ala sinistra del nostro Pd, sono anch’essi di ostacolo ad una interpretazione “progressiva” dell’euro e dei suoi corollari. Non gli esportatori tedeschi che, recentissimamente, hanno addirittura cominciato a chiedere un ridisegno della zona euro, preoccupati della potenziale instabilità della moneta. Nemmeno può farlo, infine, un solido movimento continentale per l’Europa “sociale”, movimento che semplicemente non esiste, che non sembra potersi costituire in tempi politicamente ragionevoli e che in ogni caso patirebbe al proprio interno di gravi assenze, come si è notato nel pur importante sciopero europeo che ha visto coinvolti, guarda caso, quasi solo i lavoratori dei Piigs: frutto, questo, della già ricordata dualizzazione del mercato del lavoro. E allora?
E’ possibile “migliorare” questa situazione? Allo stato attuale la risposta è: no, non è possibile. Tutte le proposte avanzate al riguardo non intaccano il perverso meccanismo europeo. Una più attiva politica della Bce lascerebbe comunque intatti i differenziali di inflazione tra nord e sud, che sono una delle più importanti concause dello squilibrio. La possibilità di non considerare gli investimenti produttivi nel computo deficit pubblico sarebbe comunque poca cosa vista la costante diminuzione delle risorse disponibili. L’emissione di Eurobond non risolverebbe il problema della dipendenza degli stati dal mercato finanziario. Gli investimenti comunitari (…ma l’Unione ha recentemente ridotto il proprio bilancio, invece di aumentarlo come sarebbe logico in tempi di crisi) avverrebbero comunque all’interno di squilibri strutturali non sanati. Inoltre ciascuna di queste scelte dovrebbe essere compensata, agli occhi di Berlino e Francoforte, da un indurimento delle restrizioni fiscali e dell’esautoramento degli stati nazionali: si toglierebbe quindi con la vanga e si darebbe col cucchiaino. E poi, soprattutto, chi sarebbe il protagonista di questa nuova politica? Hollande? Una Merkel rinsavita? Una nuova coalizione rossoverde in Germania? Non sarebbe affatto impossibile, in linea di principio, che le aziende esportatrici tedesche imponessero una difesa dell’euro ad ogni costo e dunque un qualche significativo allentamento della, peraltro immutabile, scelta deflazionista. Ma come diceva il vecchio Lenin, la nostra tattica, se pur deve tener conto della possibile trasformazione delle tendenze in atto, è pur sempre su tali tendenze che deve basarsi. Ed esse ci dicono che nessuna delle forze in questione intende realmente deflettere dalla direzione intrapresa. Non Hollande che accetta il Fiscal Compact e mercanteggia qualche sconto sul rientro dal deficit (problema francese) ma non sul rientro dal debito (problema italiano). Non Angela Merkel, che deve vedersela con un nuovo partito apertamente anti-euro. Non i socialdemocratici o i verdi tedeschi che hanno sui Piigs la stessa idea della Merkel e che, come deve ammettere a denti stretti la stessa ala sinistra del nostro Pd, sono anch’essi di ostacolo ad una interpretazione “progressiva” dell’euro e dei suoi corollari. Non gli esportatori tedeschi che, recentissimamente, hanno addirittura cominciato a chiedere un ridisegno della zona euro, preoccupati della potenziale instabilità della moneta. Nemmeno può farlo, infine, un solido movimento continentale per l’Europa “sociale”, movimento che semplicemente non esiste, che non sembra potersi costituire in tempi politicamente ragionevoli e che in ogni caso patirebbe al proprio interno di gravi assenze, come si è notato nel pur importante sciopero europeo che ha visto coinvolti, guarda caso, quasi solo i lavoratori dei Piigs: frutto, questo, della già ricordata dualizzazione del mercato del lavoro. E allora?
11. Trasformare la crisi dell’euro nella crisi di “lorsignori”
Allora gli scenari più probabili sono due: o un parziale allentamento di alcuni vincoli, bilanciato da un accentramento autoritario del potere decisionale, tale da sterilizzare gli effetti delle scelte elettorali dell’ Europa del sud (ipotesi che si limiterebbe a rallentare la corsa di una macchina diretta comunque al baratro); o una rottura dell’area euro a causa del mix tra insoddisfazione dell’elettorato tedesco (colpito anch’esso dalla deflazione salariale, ma incline a darne la colpa agli sfaccendati meridionali) e rivolta dell’elettorato sudeuropeo, quest’ultima espressa al momento da formazioni politiche che nel migliore dei casi hanno orientamenti vaghi, ma che proprio per questo sono destinate a crescere. Come deve comportarsi una forza di sinistra, e in particolare una forza comunista di fronte a questi scenari? Prima di tutto deve assumere fino in fondo il fatto che l’euro è una delle più importanti forme del dominio del capitalismo sui lavoratori europei. Poi deve rendersi conto che l’euro non è riformabile per linee interne e che la stessa lotta per l’Europa “sociale”, qualora vittoriosa, porterebbe necessariamente alla fine dell’euro, imponendo a chiunque se ne faccia portatore di definire da subito ipotesi di diversi assetti sia per l’economia nazionale che per quella continentale. Poi, continuiamo, prima ancora di scegliere se agitare o meno la parola d’ordine dell’uscita immediata dall’euro deve comprendere che la fase attuale è in ogni caso la fase del tramonto dell’euro stesso, e che ciò consente alla sinistra di ridefinirsi e di tornare sulla scena trasformando la crisi dell’euro nella crisi di quelle classi nazionali e sovranazionali, che ci hanno condotto al disastro.
Allora gli scenari più probabili sono due: o un parziale allentamento di alcuni vincoli, bilanciato da un accentramento autoritario del potere decisionale, tale da sterilizzare gli effetti delle scelte elettorali dell’ Europa del sud (ipotesi che si limiterebbe a rallentare la corsa di una macchina diretta comunque al baratro); o una rottura dell’area euro a causa del mix tra insoddisfazione dell’elettorato tedesco (colpito anch’esso dalla deflazione salariale, ma incline a darne la colpa agli sfaccendati meridionali) e rivolta dell’elettorato sudeuropeo, quest’ultima espressa al momento da formazioni politiche che nel migliore dei casi hanno orientamenti vaghi, ma che proprio per questo sono destinate a crescere. Come deve comportarsi una forza di sinistra, e in particolare una forza comunista di fronte a questi scenari? Prima di tutto deve assumere fino in fondo il fatto che l’euro è una delle più importanti forme del dominio del capitalismo sui lavoratori europei. Poi deve rendersi conto che l’euro non è riformabile per linee interne e che la stessa lotta per l’Europa “sociale”, qualora vittoriosa, porterebbe necessariamente alla fine dell’euro, imponendo a chiunque se ne faccia portatore di definire da subito ipotesi di diversi assetti sia per l’economia nazionale che per quella continentale. Poi, continuiamo, prima ancora di scegliere se agitare o meno la parola d’ordine dell’uscita immediata dall’euro deve comprendere che la fase attuale è in ogni caso la fase del tramonto dell’euro stesso, e che ciò consente alla sinistra di ridefinirsi e di tornare sulla scena trasformando la crisi dell’euro nella crisi di quelle classi nazionali e sovranazionali, che ci hanno condotto al disastro.
12. Il vincolo esterno e la sinistra radicale
L’adesione incondizionata all’euro è stata infatti la modalità principale dell’egemonia del grande capitale nostrano, il modo di imporre, con la forza del vincolo esterno, quella disciplina interna che i partiti non sapevano più far accettare. I prodromi di questa strategia stanno nell’ormai famoso “divorzio” tra la Banca d’Italia ed il Ministero del Tesoro (1981) che già metteva il debito pubblico nelle mani della finanza internazionale (facendone immediatamente aumentare il peso) ed usava l’indipendenza della Banca centrale come arma per imporre politiche fiscali pro-business sotto forma di “neutre” politiche monetarie, e riportare (già prima dell’avvento dell’euro) la quota dei salari sul PIL a livelli precedenti a quelli definiti dalle lotte degli anni ’60-’70. Uno strumento di vendetta di classe, insomma. Strumento che è successivamente divenuto addirittura base del semi-stato europeo, e ha consentito alle classi dominanti italiane di impedire qualunque vera dialettica sociale e politica grazie alla preminenza del vincolo esterno. Purtroppo, come si è accennato, la stessa sinistra radicale ha accettato integralmente questo nuovo spazio politico. Ha sposato la causa dell’europeismo incondizionato, lo ha fatto con qualche buona ragione e certo con le migliori intenzioni: ma oggi ne sta morendo, giacché proprio L’Europa è il regista nascosto di tutte le sue sconfitte. Per favorire l’ingresso nell’euro la sinistra radicale ha appoggiato il primo governo Prodi, accettando i sacrifici da questo imposti ai lavoratori italiani nell’illusione che dopo, una volta integrati nel nuovo spazio continentale, si sarebbe potuto cambiare marcia e finalmente riscuotere: il naufragio dell’ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro mostrò subito quanto tutto ciò fosse illusorio. Altra illusione è stata quella di poter condizionare, grazie alla forza del grande movimento altermondialista italiano, le scelte del secondo governo Prodi, non comprendendo che questo rispondeva a Bruxelles più che agli elettori italiani, e quindi avallando provvedimenti finanziari addirittura più rigorosi di quanto richiestoci dall’Unione europea, che hanno contribuito non poco all’infausto ritorno di Berlusconi ed al fiasco dell’Arcobaleno. Infine il fallimento di Rivoluzione Civile è stato anche effetto della completa mancanza di chiarezza sull’avvenire dell’euro, logicamente connessa all’atteggiamento ondivago nei confronti del Pd. Così le tendenze anti-euro sono oggi intercettate da forze la cui incertezza e confusione ci espongono al rischio della gestione avventurista di una fase delicatissima. Forze che rendono di fatto difficile la nostra permanenza nell’euro senza predisporre valide alternative. Perché uscire dall’euro è, per l’Italia, tanto necessario quanto difficile. Necessario perché la spirale debito/recessione, che è il tributo pagato all’euro, impedisce qualunque pur parziale risposta alla crisi. Difficile per le immediate conseguenze negative, per il probabile, connesso peggioramento della crisi mondiale, per la necessità di accompagnare l’uscita con quello che non c’è ancora, ossia con una profonda modifica dell’industria, del ruolo del lavoro, dello stato e della sua politica estera, senza le quali una momentanea svalutazione servirebbe solo a ribadire i rapporti sociali e le carenze produttive attuali, e segnerebbe un’uscita “a destra” dalla moneta unica.
L’adesione incondizionata all’euro è stata infatti la modalità principale dell’egemonia del grande capitale nostrano, il modo di imporre, con la forza del vincolo esterno, quella disciplina interna che i partiti non sapevano più far accettare. I prodromi di questa strategia stanno nell’ormai famoso “divorzio” tra la Banca d’Italia ed il Ministero del Tesoro (1981) che già metteva il debito pubblico nelle mani della finanza internazionale (facendone immediatamente aumentare il peso) ed usava l’indipendenza della Banca centrale come arma per imporre politiche fiscali pro-business sotto forma di “neutre” politiche monetarie, e riportare (già prima dell’avvento dell’euro) la quota dei salari sul PIL a livelli precedenti a quelli definiti dalle lotte degli anni ’60-’70. Uno strumento di vendetta di classe, insomma. Strumento che è successivamente divenuto addirittura base del semi-stato europeo, e ha consentito alle classi dominanti italiane di impedire qualunque vera dialettica sociale e politica grazie alla preminenza del vincolo esterno. Purtroppo, come si è accennato, la stessa sinistra radicale ha accettato integralmente questo nuovo spazio politico. Ha sposato la causa dell’europeismo incondizionato, lo ha fatto con qualche buona ragione e certo con le migliori intenzioni: ma oggi ne sta morendo, giacché proprio L’Europa è il regista nascosto di tutte le sue sconfitte. Per favorire l’ingresso nell’euro la sinistra radicale ha appoggiato il primo governo Prodi, accettando i sacrifici da questo imposti ai lavoratori italiani nell’illusione che dopo, una volta integrati nel nuovo spazio continentale, si sarebbe potuto cambiare marcia e finalmente riscuotere: il naufragio dell’ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro mostrò subito quanto tutto ciò fosse illusorio. Altra illusione è stata quella di poter condizionare, grazie alla forza del grande movimento altermondialista italiano, le scelte del secondo governo Prodi, non comprendendo che questo rispondeva a Bruxelles più che agli elettori italiani, e quindi avallando provvedimenti finanziari addirittura più rigorosi di quanto richiestoci dall’Unione europea, che hanno contribuito non poco all’infausto ritorno di Berlusconi ed al fiasco dell’Arcobaleno. Infine il fallimento di Rivoluzione Civile è stato anche effetto della completa mancanza di chiarezza sull’avvenire dell’euro, logicamente connessa all’atteggiamento ondivago nei confronti del Pd. Così le tendenze anti-euro sono oggi intercettate da forze la cui incertezza e confusione ci espongono al rischio della gestione avventurista di una fase delicatissima. Forze che rendono di fatto difficile la nostra permanenza nell’euro senza predisporre valide alternative. Perché uscire dall’euro è, per l’Italia, tanto necessario quanto difficile. Necessario perché la spirale debito/recessione, che è il tributo pagato all’euro, impedisce qualunque pur parziale risposta alla crisi. Difficile per le immediate conseguenze negative, per il probabile, connesso peggioramento della crisi mondiale, per la necessità di accompagnare l’uscita con quello che non c’è ancora, ossia con una profonda modifica dell’industria, del ruolo del lavoro, dello stato e della sua politica estera, senza le quali una momentanea svalutazione servirebbe solo a ribadire i rapporti sociali e le carenze produttive attuali, e segnerebbe un’uscita “a destra” dalla moneta unica.
13. Pensare il socialismo come esigenza del paese
Uscire a destra dall’euro significa promuovere una rottura, provocarla indirettamente, o comunque prenderne atto, senza approntare, in ogni caso, gli strumenti necessari a far sì che essa non peggiori, invece di migliorarla, la situazione dei lavoratori italiani. Una rottura che consistesse, infatti, semplicemente nella svalutazione, produrrebbe (per tacere degli effetti dell’inflazione sui quali, peraltro, il parere degli economisti non è univoco) un’ ulteriore svalorizzazione delle imprese italiane e quindi favorirebbe, invece di ostacolarla, la politica semi-coloniale del nord Europa. Essa produrrebbe, inoltre, una crisi dei debitori privati i cui debiti fossero denominati in euro: e questi debitori sono essenzialmente le banche, che così verrebbero fagocitate da acquirenti esteri. Produrrebbe un immediato peggioramento della situazione del debito pubblico che, anche se probabilmente non sarebbe così grave come alcuni temono, sarebbe naturalmente pagato dalle classi popolari. E causerebbe infine un’inevitabile ulteriore sottomissione del paese agli Usa che, se forse ostacolerebbero con durezza una nostra autonoma scelta di exit, potrebbero invece prendere atto di una rottura da noi subìta, per lucrarne vantaggi strategici. Per evitare questo possibile scenario è necessario elaborare da subito una politica che preveda, in caso di exit, il rigido controllo dei capitali, la momentanea e parziale sospensione del mercato comune, la nazionalizzazione di tutte le banche e dei settori strategici, l’imposizione di forti tassazioni sul capitale, l’avvio di una politica estera basata su un’autonoma proiezione mediterranea dell’Italia, su nuove relazioni coi Brics e sull’ipotesi di un’immediata ricostruzione confederale dell’Europa, o quantomeno della sua area meridionale. La crisi dell’euro prepara le condizioni per un drastico peggioramento della situazione del paese, ma contemporaneamente fa sì che le soluzioni semi-socialiste, che spesso evochiamo solo retoricamente, si presentino come soluzioni imposte dalla durezza dei fatti e dalle necessità vitali del paese.
Uscire a destra dall’euro significa promuovere una rottura, provocarla indirettamente, o comunque prenderne atto, senza approntare, in ogni caso, gli strumenti necessari a far sì che essa non peggiori, invece di migliorarla, la situazione dei lavoratori italiani. Una rottura che consistesse, infatti, semplicemente nella svalutazione, produrrebbe (per tacere degli effetti dell’inflazione sui quali, peraltro, il parere degli economisti non è univoco) un’ ulteriore svalorizzazione delle imprese italiane e quindi favorirebbe, invece di ostacolarla, la politica semi-coloniale del nord Europa. Essa produrrebbe, inoltre, una crisi dei debitori privati i cui debiti fossero denominati in euro: e questi debitori sono essenzialmente le banche, che così verrebbero fagocitate da acquirenti esteri. Produrrebbe un immediato peggioramento della situazione del debito pubblico che, anche se probabilmente non sarebbe così grave come alcuni temono, sarebbe naturalmente pagato dalle classi popolari. E causerebbe infine un’inevitabile ulteriore sottomissione del paese agli Usa che, se forse ostacolerebbero con durezza una nostra autonoma scelta di exit, potrebbero invece prendere atto di una rottura da noi subìta, per lucrarne vantaggi strategici. Per evitare questo possibile scenario è necessario elaborare da subito una politica che preveda, in caso di exit, il rigido controllo dei capitali, la momentanea e parziale sospensione del mercato comune, la nazionalizzazione di tutte le banche e dei settori strategici, l’imposizione di forti tassazioni sul capitale, l’avvio di una politica estera basata su un’autonoma proiezione mediterranea dell’Italia, su nuove relazioni coi Brics e sull’ipotesi di un’immediata ricostruzione confederale dell’Europa, o quantomeno della sua area meridionale. La crisi dell’euro prepara le condizioni per un drastico peggioramento della situazione del paese, ma contemporaneamente fa sì che le soluzioni semi-socialiste, che spesso evochiamo solo retoricamente, si presentino come soluzioni imposte dalla durezza dei fatti e dalle necessità vitali del paese.
14. Eroi ed opportunisti
Bene. Ma che fare, adesso? Proporre immediatamente l’exit? Insistere sull’ Europa “sociale”? Tentare una soluzione interlocutoria (euro a due velocità, Eurosud, Sme rivisitato)? Si possono fare tre ipotesi. La prima è l’ipotesi “eroica”: un soggetto politico popolare unisce progressivamente una gran parte dei cittadini sull’obiettivo dell’exit, giunge al governo, apre un negoziato ultimativo con l’Unione, ed infine esce dall’euro attuando le draconiane misure di cui si è detto. Ipotesi improbabile, per la momentanea assenza di un tale soggetto e per il fatto che esso si troverebbe di fronte, dato il suo carattere indipendentista, due nemici in un tempo solo, ossia i paesi europeisti e gli Usa, senza avere la forza di reggere lo scontro, e senza che si intravedano tra gli avversari contrasti tali da schiudere spazi di manovra. Questo soggetto potrebbe forse fare comunque il bene del paese, liberandolo da un giogo, ma molto probabilmente morirebbe insieme all’euro. La seconda è l’ipotesi “opportunista”: attendere che qualche forza esterna o qualche forza interna interclassista o di destra promuovano o comunque provochino l’uscita dall’euro, attendere il momento in cui questa forza interna inizia a pagare gli immediati effetti negativi dell’exit, presentarci infine come soggetto della soluzione progressiva. L’ipotesi è più probabile della prima, ma vi sono due “ma”: potrebbe l’intermittente polemica anti-euro dei Grillo e dei Berlusconi dare vita a questo processo? E se sì, chi ci dice che un appoggio Usa, in questo caso assai più probabile, non consentirebbe a queste forze di apparire infine come le salvatrici del paese e di assumerne la guida per lunghi anni?
Bene. Ma che fare, adesso? Proporre immediatamente l’exit? Insistere sull’ Europa “sociale”? Tentare una soluzione interlocutoria (euro a due velocità, Eurosud, Sme rivisitato)? Si possono fare tre ipotesi. La prima è l’ipotesi “eroica”: un soggetto politico popolare unisce progressivamente una gran parte dei cittadini sull’obiettivo dell’exit, giunge al governo, apre un negoziato ultimativo con l’Unione, ed infine esce dall’euro attuando le draconiane misure di cui si è detto. Ipotesi improbabile, per la momentanea assenza di un tale soggetto e per il fatto che esso si troverebbe di fronte, dato il suo carattere indipendentista, due nemici in un tempo solo, ossia i paesi europeisti e gli Usa, senza avere la forza di reggere lo scontro, e senza che si intravedano tra gli avversari contrasti tali da schiudere spazi di manovra. Questo soggetto potrebbe forse fare comunque il bene del paese, liberandolo da un giogo, ma molto probabilmente morirebbe insieme all’euro. La seconda è l’ipotesi “opportunista”: attendere che qualche forza esterna o qualche forza interna interclassista o di destra promuovano o comunque provochino l’uscita dall’euro, attendere il momento in cui questa forza interna inizia a pagare gli immediati effetti negativi dell’exit, presentarci infine come soggetto della soluzione progressiva. L’ipotesi è più probabile della prima, ma vi sono due “ma”: potrebbe l’intermittente polemica anti-euro dei Grillo e dei Berlusconi dare vita a questo processo? E se sì, chi ci dice che un appoggio Usa, in questo caso assai più probabile, non consentirebbe a queste forze di apparire infine come le salvatrici del paese e di assumerne la guida per lunghi anni?
15. Un’ipotesi realista
Resta un’ipotesi migliore, che non a caso chiamo “realista”. Un partito popolare, orientato alla difesa dei lavoratori (partito che può costituirsi proprio nel corso del processo di cui parlo, come trasformazione dei partiti esistenti o come soggetto del tutto nuovo), prende atto della crisi irreversibile dell’euro, si attrezza, anche culturalmente e programmaticamente, a gestire la fase post-euro e per intanto produce, via via, parole d’ordine variabili, commisurate al mutare dei rapporti di forza e degli orientamenti di massa, che leghino ogni volta le rivendicazioni di natura interna ad una forzatura del meccanismo dell’euro, tale da costringere i paesi egemoni a cambiare politica (cosa assai improbabile) o a svelare apertamente il proprio gioco. Tale partito potrebbe costituirsi nel corso di campagne di massa centrate, ad esempio, sulla necessità di risolvere subito la crisi occupazionale attraverso un intenso intervento pubblico, e potrebbe presentare come conseguenza necessaria di tale proposta la cancellazione del Fiscal Compact e qualche forma di flessibilizzazione dell’euro. La razionalità di questa ipotesi sta nel fatto che essa non si basa su “frasi scarlatte”, su parole d’ordine estreme che potrebbero inizialmente allontanare una gran parte dei cittadini, ma su obiettivi che rendano via via più evidente l’inadeguatezza dell’euro, facendo in modo che sia proprio “l’esperienza delle masse” (ebbene sì…è ancora Lenin) a richiedere l’exit. Tale ipotesi potrebbe quindi consentirci di accumulare progressivamente le forze (che devono essere ingenti) per un’uscita a sinistra dall’euro, prevedendo anche la rottura degli attuali schieramenti della sinistra politica. Tale ipotesi, infine, non escluderebbe affatto la possibilità di prendere la strada prevista dalla prima o dalla seconda ipotesi, se le condizioni lo richiedono e i tempi della crisi si accelerano. In ogni caso, qualunque sia la strategia adottata, il soggetto che se ne farà portatore dovrà dire a sé stesso ad ai suoi elettori che l’euro è una forma storicamente superata di gestione dell’economia continentale e di quella italiana. E che l’Unione europea può essere ricostruita solo sulle ceneri della moneta unica e della governance continentale, solo come Confederazione di stati dotati di sovranità monetaria, uniti da meccanismi che assicurino una progressiva convergenza economica, e soprattutto uniti da una comune visione sociale e geopolitica.
Resta un’ipotesi migliore, che non a caso chiamo “realista”. Un partito popolare, orientato alla difesa dei lavoratori (partito che può costituirsi proprio nel corso del processo di cui parlo, come trasformazione dei partiti esistenti o come soggetto del tutto nuovo), prende atto della crisi irreversibile dell’euro, si attrezza, anche culturalmente e programmaticamente, a gestire la fase post-euro e per intanto produce, via via, parole d’ordine variabili, commisurate al mutare dei rapporti di forza e degli orientamenti di massa, che leghino ogni volta le rivendicazioni di natura interna ad una forzatura del meccanismo dell’euro, tale da costringere i paesi egemoni a cambiare politica (cosa assai improbabile) o a svelare apertamente il proprio gioco. Tale partito potrebbe costituirsi nel corso di campagne di massa centrate, ad esempio, sulla necessità di risolvere subito la crisi occupazionale attraverso un intenso intervento pubblico, e potrebbe presentare come conseguenza necessaria di tale proposta la cancellazione del Fiscal Compact e qualche forma di flessibilizzazione dell’euro. La razionalità di questa ipotesi sta nel fatto che essa non si basa su “frasi scarlatte”, su parole d’ordine estreme che potrebbero inizialmente allontanare una gran parte dei cittadini, ma su obiettivi che rendano via via più evidente l’inadeguatezza dell’euro, facendo in modo che sia proprio “l’esperienza delle masse” (ebbene sì…è ancora Lenin) a richiedere l’exit. Tale ipotesi potrebbe quindi consentirci di accumulare progressivamente le forze (che devono essere ingenti) per un’uscita a sinistra dall’euro, prevedendo anche la rottura degli attuali schieramenti della sinistra politica. Tale ipotesi, infine, non escluderebbe affatto la possibilità di prendere la strada prevista dalla prima o dalla seconda ipotesi, se le condizioni lo richiedono e i tempi della crisi si accelerano. In ogni caso, qualunque sia la strategia adottata, il soggetto che se ne farà portatore dovrà dire a sé stesso ad ai suoi elettori che l’euro è una forma storicamente superata di gestione dell’economia continentale e di quella italiana. E che l’Unione europea può essere ricostruita solo sulle ceneri della moneta unica e della governance continentale, solo come Confederazione di stati dotati di sovranità monetaria, uniti da meccanismi che assicurino una progressiva convergenza economica, e soprattutto uniti da una comune visione sociale e geopolitica.
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