Il disastro si è compiuto. La lettura dei dati elettorali offre una,
seppur schematica, fotografia del Paese. I partiti che hanno sostenuto
le politiche della BCE perdono tutti, insieme ad essi finisce anche
l’era del bipolarismo. Dal Pd al PdL la riduzione di consensi in termini
assoluti è drastica, rispetto alle politiche del 2008: PdL -40%, Pd
-28%. Nella competizione tra le forze maggiormente responsabili del
sostegno a Monti, se in termini di voti assoluti il prezzo più alto lo
paga Berlusconi, in termini politici a pagarlo è il Pd. Monti, dal canto
suo, non riesce a veicolare verso il suo progetto politico quella parte
del consenso berlusconiano che porta ad essere il PdL, ancora una
volta, l’unica gamba credibile del Partito Popolare Europeo in Italia. E
poi c’è Grillo. Il voto al Movimento 5 Stelle è, con ogni evidenza, un
voto popolare. Lo slogan “Mandiamoli a casa”, come risposta al degrado
di una politica incapace di rispondere ai morsi della crisi economica,
ha colpito nel segno. Infatti, seppure nessuna forza politica sia stata
in grado di parlare efficacemente della crisi in questa campagna
elettorale, è la crisi l’elemento fondamentale che ne ha determinato
l’esito. Per farsi un’idea basta guardare il dato grillino in termini di
classe. A Roma, ad esempio, in diversi municipi della periferia Grillo
arriva al 35%, al centro della città sfiora invece il 17%.
La nostra sconfitta è tutta qui. Queste elezioni evidenziano
plasticamente la cancellazione, nella percezione di massa, della
sinistra quale espressione del cambiamento. Viene dunque rovesciato il
senso dell’anomalia italiana. Dal Paese con il più grande Partito
comunista dell’occidente e con la sinistra più forte in Europa e nel
mondo capitalista, a quello in cui la situazione è, senza ombra di
dubbio, la più arretrata. Il dato elettorale nella sua crudezza è dunque
molto limpido.
Un primo elemento, in questo quadro, è l’ormai conclamata
cristallizzazione politico-organizzativa delle organizzazioni di classe:
talmente autoreferenziali da essere prive di una qualche forma di
connessione reale, distanti anni luce dalla propria ragion d’essere
sociale. Ad essere stati rimossi sono la sconfitta del movimento operaio
degli anni ’80 e quella storica della fine del socialismo reale. E con
essi l’incapacità di costruire una nuova sintesi reale tra i comunisti,
la sinistra e la realtà sociale di riferimento. Solo con questa chiave
interpretativa è possibile leggere gli errori drammatici compiuti nella
vicenda degli ultimi cinque anni che ci hanno portato all’ennesima
sconfitta. L’autoreferenzialità è il frutto più avvelenato di tali
ritardi.
Il passaggio della crisi economica dalla fase latente a quella
conclamata nel 2007 ha coinciso con la prima sconfitta della Sinistra
Arcobaleno. Da quel momento l’ossessione del ritorno in Parlamento ha
fatto perdere di vista la necessità di ricostruire l’essenza progettuale
su cui poggiare il lavoro politico. Hanno prevalso logiche politiciste e
lo scontro autoreferenziale dei gruppi dirigenti: troppo concentrati a
salvare se stessi e ben poco inclini ad un lavoro di ricostruzione di
ogni connessione politico-sociale che restituisse fiducia e credibilità
alle organizzazioni politiche tra le masse. Non si è stati in grado
quindi di rendere percepibile un progetto di cambiamento, il cui fulcro
non poteva che essere l’opposizione politica e sociale alle politiche
d’austerità. In poche parole si è ritenuto più utile e necessario
salvare l’esistente. Da ultimo il corteo del 12 maggio 2012 della
Federazione della Sinistra, con 40mila militanti comunisti in piazza,
non è stato utilizzato come volano per indicare la potenzialità
moltiplicativa di quella generosa iniziativa. Ci si è fermati,
inseguendo scorciatoie e rinunciando ad esprimere ogni benché minima
capacità di direzione, sul piano politico, ad un malessere che ormai
dilagava contro Monti, il suo governo e le forze che lo sostenevano.
Sappiamo poi come è andata a finire: dopo mille peripezie è nata
Rivoluzione Civile, il cui profilo politico ha finito però per
coincidere con quello del candidato premier. Ad essere percepito è stato
dunque il profilo legalitario della coalizione elettorale, a discapito
quindi dei temi reali che attanagliano i lavoratori di questo Paese.
Se la rendita della nostra storia può dirsi completamente esaurita,
il primo obiettivo oggi deve essere quello di ricostruire un percorso di
accumulazione delle forze. Il tema del “che fare” deve quindi trovare
risposte immediate ma dal respiro strategico. In primo luogo è
necessario partire dalla sostanza. In Italia, come sta avvenendo in
tutta Europa, è indispensabile costruire una riaggregazione dei
comunisti e della sinistra che sia in grado, senza estremismi e
opportunismi, di riorganizzare le forze ponendosi come punto di
riferimento per un’alternativa politica, economica e sociale al quadro
esistente. Quello spazio è occupato oggi è in gran parte coperto da
Grillo. Ma la crisi si aggraverà, vi è dunque il rischio che quell’humus
culturale, che esprime modalità e contenuti spesso contraddittori,
possa potenzialmente fungere da base di consenso di una futura svolta
reazionaria. Oggi il compito dei comunisti e della sinistra è quindi
ricostruire gli argini per resistere alla deriva reazionaria che incombe
e rilanciare una vera prospettiva di cambiamento contro l’Europa delle
banche, dell’austerity e contro il ceto politico che ne esprime gli
interessi. Da questo punto di vista chi tra di noi propone l’organicità
al centrosinistra accetta la fine dell’autonomia della sinistra di
classe. Ovvero accetta l’inesistenza in Italia di una forza che si ponga
quale espressione politica autonoma della classe lavoratrice del XXI°
secolo. In questo modo si propone soltanto un escamotage per far
sopravvivere un ceto politico. Chi di converso sostiene di fare
l’occhiolino a Grillo non ha chiara la portata del disastro in cui siamo
immersi e quanto il recupero del gap che ci separa dal Movimento 5
Stelle passi per la definizione di profilo politico netto e non per un
inseguimento codista. Il populismo grillino, infatti, potrebbe causare,
già nel breve periodo, contraddizioni importanti nel quadro politico che
si è definito. In queste si possono trovare spazi di nuova agibilità
per la sinistra. Senza insediamento reale e prospettiva definita,
purtuttavia, non si va lontano.
Se è vero che il rinnovamento non può che partire dall’esistente, i
gruppi dirigenti di PdCI e PRC è bene che si rendano disponibili a dar
vita ad un progetto politico costituente di un nuovo Partito comunista,
con rinnovati gruppi dirigenti, aperto ad una relazione organizzata con
la variegata realtà della sinistra di alternativa. In questo senso va
letta la questione Rivoluzione Civile. Proporre di andare avanti o
smontare tutto è un no sense. Sul terreno della chiarezza della
prospettiva a sinistra le parti che restano in R.C. devono mettersi a
disposizione di un percorso più ampio attorno ad un orientamento
strategico chiaro. Va evitata una seconda FdS fintamente aperta
all’esterno, come va evitata un aggregazione meramente elettorale che
alla prima difficoltà si sfascia. Il tempo delle ambiguità è finito.
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