di Guglielmo Forges Davanzati
E’ da almeno un decennio che i Governi che si sono succeduti in Italia hanno ritenuto di poter creare le condizioni per la crescita economica riducendo il c.d. cuneo fiscale, ovvero la differenza fra salario lordo e salario netto. E, nell’ultimo Rapporto OCSE (Going for growth), questa misura è fortemente raccomandata per accrescere la competitività delle imprese italiane. Pare, insomma, che la riduzione del cuneo fiscale abbia virtù salvifiche.
Occorre innanzitutto chiarire che il cuneo fiscale, in Italia, non è esageratamente alto, o comunque non è a livelli talmente “fuori norma” da legittimare l’assoluta priorità della sua riduzione. Su fonte OCSE, si registra che la differenza fra retribuzioni lorde e nette è pari, nel nostro Paese, al 47.6%, inferiore a quella registrata in Belgio, Francia, Germania, Ungheria e Austria, ma superiore alla media dei Paesi industrializzati (pari al 35.6%). In merito alla sua riduzione – sulla quale sembra esserci un consenso pressoché unanime – occorre rilevare alcune criticità.
Per ciò che è dato sapere al momento, la riduzione del cuneo fiscale sarà di importo consistente e dovrà essere finanziato – secondo il responsabile per l’economia del PD, Filippo Taddei – con tagli di spese nell’ordine degli 8-10 miliardi. Qui sorgono tre problemi.
Primo (il più ovvio): perché dovrebbe riuscire nell’impresa il Governo Renzi, laddove – a parità di condizioni politiche e del quadro macroeconomico – il precedente Governo non è riuscito a trovare la necessaria copertura finanziaria?
Secondo: la riduzione del cuneo fiscale viene finanziata con la riduzione della spesa pubblica (detto in modo più raffinato, trattasi di razionalizzazione). Ma, in quanto la spesa pubblica accresce i mercati di sbocco delle imprese che producono per mercati interni - prevalentemente imprese meridionali, il provvedimento ha effetti redistributivi fra imprese e fra territori nelle quali operano. Ciò a ragione del fatto che le imprese esportatrici trovano, di norma, non conveniente per loro un aumento della spesa pubblica, dal momento che questa, accrescendo l’occupazione, si assocerebbe a un rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori e a incrementi salariali. Per contro, le imprese che producono per mercati locali hanno interesse a un aumento della domanda interna, dal momento che ciò consente loro di acquisire più ampi mercati di sbocco [1].
Terzo: non c’è da aspettarsi che la riduzione del cuneo fiscale possa controbilanciare gli effetti recessivi derivanti da ulteriori tagli della spesa pubblica. L’affetto espansivo sui consumi si avrebbe solo se si riducessero significativamente le imposte pagate dai lavoratori, non quelle pagate dalle imprese. Se, stando alle dichiarazioni di Taddei, l’importo mensile netto aggiuntivo nelle tasche di un lavoratore che percepisce 1.600 euro sarà di 50 euro, non solo non c’è da attendersi una significativa ripresa dei consumi, ma soprattutto – per l’ulteriore dimagrimento del residuo di welfare rimasto in Italia - vi è semmai ragionevolmente da aspettarsi che i salari reali degli occupati non aumentino.
In più, una ripresa significativa dei consumi si avrebbe semmai se la riduzione del cuneo fiscale fosse attuata in una condizione di elevata occupazione (a ragione dell’ampia platea di beneficiari): il che, con ogni evidenza, non è la condizione attuale. E neppure c’è da aspettarsi un aumento degli investimenti derivante da una riduzione dell’IRAP, sia perché gli investimenti dipendono essenzialmente dalle aspettative di profitto sia perché, come ampiamente sperimentato negli ultimi anni, nessun provvedimento di detassazione degli utili è in grado di stimolarli.
Inoltre, come è stato messo in evidenza, il cuneo fiscale non rappresenta un fattore rilevante per le decisioni di delocalizzazione delle imprese, così che non dovrebbe avere impatti significativi sull’attrazione di investimenti in Italia (né sulle delocalizzazioni di imprese italiane).
Una causa rilevante della recessione italiana risiede nella continua riduzione della produttività e nella sua “desertificazione produttiva”. A fronte dei molti fattori che hanno prodotto questi esiti (che datano ben prima dell’adozione della moneta unica), è da evidenziare il fatto che la rinuncia all’attuazione di politiche industriali ha posto le imprese italiane nella condizione di poter vendere solo mediante strategie di competitività di prezzo, ovvero in assenza di innovazioni. La competitività di prezzo, in un Paese importatore di materie prime e di macchinari, si traduce esclusivamente in compressioni salariali (e, più in generale, nel peggioramento delle condizioni di lavoro), il cui effetto è il calo della domanda interna e dell’occupazione.
Su fonte International Labour Office, si registra che, fra i Paesi dell’Unione Monetaria Europea, è nei Paesi periferici (Italia inclusa) che si verifica che i lavoratori occupati lavorano più ore. Fra questi, il primato spetta alla Grecia, ovvero al Paese che fa registrare i più bassi tassi di crescita nell’eurozona [2].
L’evidenza è apparentemente paradossale, dal momento che ci si aspetterebbe che la crescita economica – a parità di altre condizioni – sia maggiore laddove è elevata l’intensità del lavoro. E ci si aspetterebbe anche che l’occupazione sia maggiore dove è minore il cuneo fiscale.
Tuttavia, si può rilevare che misurando la produttività come unità di prodotto per ora lavorata, in Francia e Germania un’ora di lavoro genera un incremento di produzione circa pari al 20% in più rispetto a un’ora lavorata in Italia e il tasso di occupazione è maggiore, nonostante questi Paesi abbiano un cuneo fiscale e contributivo più elevato. Si può quindi dedurre che una riduzione del costo del lavoro non è condizione sufficiente né per accrescere l’occupazione né per migliorare la competitività delle imprese.
Ma soprattutto, in una situazione in cui sembra socialmente e politicamente inammissibile contrarre ulteriormente i salari, la riduzione del cuneo fiscale è l’unica strategia percorribile per consentire alle nostre imprese di poter sperare di far profitti comprimendo i costi. Il che, in ultima analisi, significa che ridurre il cuneo fiscale costituisce un potente incentivo a indurle a perpetuare una modalità di competizione basata sulla compressione dei costi, ovvero un potente disincentivo a innovare.
E’ da almeno un decennio che i Governi che si sono succeduti in Italia hanno ritenuto di poter creare le condizioni per la crescita economica riducendo il c.d. cuneo fiscale, ovvero la differenza fra salario lordo e salario netto. E, nell’ultimo Rapporto OCSE (Going for growth), questa misura è fortemente raccomandata per accrescere la competitività delle imprese italiane. Pare, insomma, che la riduzione del cuneo fiscale abbia virtù salvifiche.
Occorre innanzitutto chiarire che il cuneo fiscale, in Italia, non è esageratamente alto, o comunque non è a livelli talmente “fuori norma” da legittimare l’assoluta priorità della sua riduzione. Su fonte OCSE, si registra che la differenza fra retribuzioni lorde e nette è pari, nel nostro Paese, al 47.6%, inferiore a quella registrata in Belgio, Francia, Germania, Ungheria e Austria, ma superiore alla media dei Paesi industrializzati (pari al 35.6%). In merito alla sua riduzione – sulla quale sembra esserci un consenso pressoché unanime – occorre rilevare alcune criticità.
Per ciò che è dato sapere al momento, la riduzione del cuneo fiscale sarà di importo consistente e dovrà essere finanziato – secondo il responsabile per l’economia del PD, Filippo Taddei – con tagli di spese nell’ordine degli 8-10 miliardi. Qui sorgono tre problemi.
Primo (il più ovvio): perché dovrebbe riuscire nell’impresa il Governo Renzi, laddove – a parità di condizioni politiche e del quadro macroeconomico – il precedente Governo non è riuscito a trovare la necessaria copertura finanziaria?
Secondo: la riduzione del cuneo fiscale viene finanziata con la riduzione della spesa pubblica (detto in modo più raffinato, trattasi di razionalizzazione). Ma, in quanto la spesa pubblica accresce i mercati di sbocco delle imprese che producono per mercati interni - prevalentemente imprese meridionali, il provvedimento ha effetti redistributivi fra imprese e fra territori nelle quali operano. Ciò a ragione del fatto che le imprese esportatrici trovano, di norma, non conveniente per loro un aumento della spesa pubblica, dal momento che questa, accrescendo l’occupazione, si assocerebbe a un rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori e a incrementi salariali. Per contro, le imprese che producono per mercati locali hanno interesse a un aumento della domanda interna, dal momento che ciò consente loro di acquisire più ampi mercati di sbocco [1].
Terzo: non c’è da aspettarsi che la riduzione del cuneo fiscale possa controbilanciare gli effetti recessivi derivanti da ulteriori tagli della spesa pubblica. L’affetto espansivo sui consumi si avrebbe solo se si riducessero significativamente le imposte pagate dai lavoratori, non quelle pagate dalle imprese. Se, stando alle dichiarazioni di Taddei, l’importo mensile netto aggiuntivo nelle tasche di un lavoratore che percepisce 1.600 euro sarà di 50 euro, non solo non c’è da attendersi una significativa ripresa dei consumi, ma soprattutto – per l’ulteriore dimagrimento del residuo di welfare rimasto in Italia - vi è semmai ragionevolmente da aspettarsi che i salari reali degli occupati non aumentino.
In più, una ripresa significativa dei consumi si avrebbe semmai se la riduzione del cuneo fiscale fosse attuata in una condizione di elevata occupazione (a ragione dell’ampia platea di beneficiari): il che, con ogni evidenza, non è la condizione attuale. E neppure c’è da aspettarsi un aumento degli investimenti derivante da una riduzione dell’IRAP, sia perché gli investimenti dipendono essenzialmente dalle aspettative di profitto sia perché, come ampiamente sperimentato negli ultimi anni, nessun provvedimento di detassazione degli utili è in grado di stimolarli.
Inoltre, come è stato messo in evidenza, il cuneo fiscale non rappresenta un fattore rilevante per le decisioni di delocalizzazione delle imprese, così che non dovrebbe avere impatti significativi sull’attrazione di investimenti in Italia (né sulle delocalizzazioni di imprese italiane).
Una causa rilevante della recessione italiana risiede nella continua riduzione della produttività e nella sua “desertificazione produttiva”. A fronte dei molti fattori che hanno prodotto questi esiti (che datano ben prima dell’adozione della moneta unica), è da evidenziare il fatto che la rinuncia all’attuazione di politiche industriali ha posto le imprese italiane nella condizione di poter vendere solo mediante strategie di competitività di prezzo, ovvero in assenza di innovazioni. La competitività di prezzo, in un Paese importatore di materie prime e di macchinari, si traduce esclusivamente in compressioni salariali (e, più in generale, nel peggioramento delle condizioni di lavoro), il cui effetto è il calo della domanda interna e dell’occupazione.
Su fonte International Labour Office, si registra che, fra i Paesi dell’Unione Monetaria Europea, è nei Paesi periferici (Italia inclusa) che si verifica che i lavoratori occupati lavorano più ore. Fra questi, il primato spetta alla Grecia, ovvero al Paese che fa registrare i più bassi tassi di crescita nell’eurozona [2].
L’evidenza è apparentemente paradossale, dal momento che ci si aspetterebbe che la crescita economica – a parità di altre condizioni – sia maggiore laddove è elevata l’intensità del lavoro. E ci si aspetterebbe anche che l’occupazione sia maggiore dove è minore il cuneo fiscale.
Tuttavia, si può rilevare che misurando la produttività come unità di prodotto per ora lavorata, in Francia e Germania un’ora di lavoro genera un incremento di produzione circa pari al 20% in più rispetto a un’ora lavorata in Italia e il tasso di occupazione è maggiore, nonostante questi Paesi abbiano un cuneo fiscale e contributivo più elevato. Si può quindi dedurre che una riduzione del costo del lavoro non è condizione sufficiente né per accrescere l’occupazione né per migliorare la competitività delle imprese.
Ma soprattutto, in una situazione in cui sembra socialmente e politicamente inammissibile contrarre ulteriormente i salari, la riduzione del cuneo fiscale è l’unica strategia percorribile per consentire alle nostre imprese di poter sperare di far profitti comprimendo i costi. Il che, in ultima analisi, significa che ridurre il cuneo fiscale costituisce un potente incentivo a indurle a perpetuare una modalità di competizione basata sulla compressione dei costi, ovvero un potente disincentivo a innovare.
NOTE
[1] Si osservi che la deflazione salariale combinata con il calo dei consumi ha generato, negli ultimi anni, compressione delle importazioni, con un lieve incremento del saldo della bilancia commerciale (http://www.economy2050.it/miglioramento-bilancia-dei-pagamenti-apparente-successo-decrescita-italiana/), anche imputabile all’aumento delle esportazioni di beni di lusso, a sua volta derivante dall’aumento delle diseguaglianze distributive su scala globale. V. http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99economia-del-lusso-e-del-sommerso/
[2] V. J.C.Messenger, Working time trends and developments in Europe, “Cambridge Journal of Economics”, 2011, pp. 295-361.
[1] Si osservi che la deflazione salariale combinata con il calo dei consumi ha generato, negli ultimi anni, compressione delle importazioni, con un lieve incremento del saldo della bilancia commerciale (http://www.economy2050.it/miglioramento-bilancia-dei-pagamenti-apparente-successo-decrescita-italiana/), anche imputabile all’aumento delle esportazioni di beni di lusso, a sua volta derivante dall’aumento delle diseguaglianze distributive su scala globale. V. http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99economia-del-lusso-e-del-sommerso/
[2] V. J.C.Messenger, Working time trends and developments in Europe, “Cambridge Journal of Economics”, 2011, pp. 295-361.
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