L’apparente semplicità e l’immediata fruibilità del programma elettorale con cui Syriza continua a fare proseliti in Grecia si basa su solide fondamenta teoriche;
se tale programma, sostanzialmente ancorato ad un mirato interventismo
statale, fosse applicato in Grecia ed esteso in Europa, segnerebbe la
fine dell’egemonia tedesca sui destini dei cittadini europei, la ripresa
economica delle fasce di popolazione più colpite dalla crisi e la
cancellazione di numerose oligarchie in tutti paesi aderenti all’Unione.
Proviamo a ragionarci sopra.
Se
la pace sociale tra le genti dei paesi aderenti all’Unione Europea è
legata a doppio filo alle condizioni di vita dei suoi cittadini, allora
il rischio che questo sfilacciatissimo filo si spezzi è molto alto. Al
netto di improbabili “luci alla fine del tunnel” infinito della crisi,
due precedenti pubblicazioni hanno permesso di illustrare gli errori di
previsione degli economisti della Troika e le motivazioni di questi errori. In estrema sintesi, gli economisti neoliberisti (mainstream)
teorizzano che la riduzione delle spese statali – che implica la
progressiva contrazione all’osso dello Stato sociale – e la contestuale
riduzione delle imposte siano la panacea per i problemi dei paesi in
crisi; gli effetti di queste due azioni combinate garantirebbero: 1) uno
stimolo agli investimenti privati, che occuperebbero lo spazio lasciato vuoto
dagli investimenti pubblici; 2) un maggior consumo da parte dei
cittadini, proprio perché la riduzione delle imposte, secondo gli
assiomi liberisti, significherebbe maggior reddito (anche futuro) che
stimolerebbe fiducia e spese dei consumatori. Persino Reagan, non certo
un fulmine di guerra, aveva capito che c’era qualcosa di magico (quindi
di assurdo) nell’ austerità espansiva professata dagli economisti
liberisti: nonostante ciò applicò le nuove ricette negli USA perché
funzionali alla costruzione di una società dominata da poche oligarchie
potentissime, delle quali lui era fedele portavoce. A dire il vero la
letteratura economica, dopo il passaggio di Keynes, aveva da tempo
dimostrato che, in economie in recessione, i tagli di spesa
pubblica e tagli dei tassi di interesse per stimolare gli investimenti
privati servono a poco anche se accompagnati da tagli di tasse per
incentivare i consumi: non solo l’economia non riparte ma la recessione si acuisce.
Lo schema logico di questo fenomeno è semplice: un taglio di spesa
pubblica (magari il licenziamento di dipendenti pubblici o una riduzione
delle spese nel settore sanitario) non ha solo l’effetto immediato di
tagliare i consumi di chi percepisce uno stipendio pubblico e di ridurre
il PIL per lo stesso ammontare; questi consumi, a loro volta, sono
entrate (quindi redditi) per altri lavoratori (magari il barbiere sotto
casa o il titolare del supermarket dove il dipendente licenziato
acquista beni di prima necessità); a loro volta il barbiere ed il
banconista del supermarket (settore privato) perderanno il lavoro
perché i beni e iser vizi che concorrono a vendere o produrre sono meno
richiesti; gli imprenditori sanno bene che non conviene investire in
economie che imboccano questo ciclo vizioso: i redditi si riducono
sempre più, quindi le possibilità di profitto sono minime perché
qualsiasi bene prodotto è meno acquistato, quindi è inutile investire
anche se il costo del denaro è minore. A sua volta lo Stato incasserà
meno, perché la base imponibile (i redditi da lavoro dipendente o
autonomo e i redditi d’impresa) sarà più basso. Questo effetto
moltiplicativo della riduzione di spesa pubblica è chiamato moltiplicatore keynesiano,
è un fenomeno notissimo e, ex post, il FMI ha ammesso che una
riduzione di spesa pubblica impatta sul reddito di un paese per 1,5
volte l’entità della riduzione invece che 0,5 volte, come inizialmente previsto:
in soldoni una riduzione di spesa pubblica di 10 miliardi riduce il PIL
di 15 miliardi invece che di 5 (!!!). E’ a causa di questo errore che
il nostro rapporto debito/PIL è passato dal 105% del 2007 al 135% di
oggi, e quello greco, nello stesso periodo, è passato dal 120% al 175%:
la riduzione del Pil (il valore che sta sotto il rapporto)
avviene più velocemente della riduzione di debito che si ottiene con il
taglio di spesa (il nostro debito, però, aumenta) mentre, secondo la
teoria liberista, il PIL dovrebbe addirittura salire. L’austerità
produce disoccupazione e i “governi tecnici”, incredibilmente, chiedono
altra austerità, imputando il fallimento delle “cure” alla scarsa
incisività delle riforme. E se il rapporto debito/PIL sale bisogna
vendere i gioielli di famiglia e privatizzare beni e servizi pubblici
essenziali per fare cassa.
Nonostante questo errore teorico conclamato, le nostre politiche
economiche continuano ad essere tarate sull’austerità espansiva come
richiesto dall’Europa (alla voce “Europa” leggi Germania): dobbiamo
ridurre la spesa pubblica annuale a meno del 3% del PIL fino ad arrivare
al pareggio di bilancio (principio ormai ufficializzato in
Costituzione) e dobbiamo ridurre il rapporto debito/PIL al 60%
rientrando del 5% all’anno – una follia: 50 miliardi all’anno per
un’Italia già provata da austerità e povertà; le polemiche interne tra i
partiti politici di maggioranza hanno il compito di dimostrare
l’esistenza di una parvenza di politica economica che, in realtà, non
esiste in Italia, perché decisa – questo si, grazie al Governo italiano-
dall’Europa. “Ce lo chiede L’Europa”, continuano a dirci i vari
governi tecnici e di larghe intese che si avvicendano su incarichi
governativi, e non è possibile far altro se non le riforme – la
precarizzazione del lavoro e, quindi, la riduzione dei salari – perché,
come ha detto il Presidente della Banca Centrale Europea Draghi prima
dell’insediamento del Governo Letta, ‹‹L’Italia prosegue con le riforme,
c’è il pilota automatico›› qualunque sia il governo nominato, cioè
bisogna rispettare gli intoccabili vincoli di bilancio della Troika,
punto e basta. «Questa è la democrazia e i mercati lo sanno» ha aggiunto Draghi, sottointendendo che, se non si facesse così, i mercati ci punirebbero.
Perché sottopongono i cittadini italiani ed auropei a questa punizione? Scrive l’economista Alessandro Rocaglia nel libro Economisti che sbagliano
: ‹‹In vari casi la forza degli interessi economici personali ha
favorito il prevalere di questa o quella tesi sul modo di funzionare
dell’economia nel suo complesso o in qualche suo aspetto particolare; in
vari casi concezioni teoriche errate hanno favorito il perseguimento di
linee di politica economica (ivi inclusa la scelta di non intervenire
di fronte all’evoluzione spontanea dei mercati) che si sono rivelate
alla prova dei fatti tutt’altro che ottimali, per usare un eufemismo›.
Per i “servigi resi” al privato questi economisti hanno sempre trovato
collocazione in prestigiose Università, hanno fatto veloci carriere e
sono stati premiati molto spesso con incarichi ben reunerati nelle
aziende private che hanno favorito. In breve: la teoria mainstream
riduce le persone in condizioni di povertà o sussistenza ed è funzionale
al trasferimento di produzioni e servizi statali – che dovrebbero
rimanere allo Stato per il loro contenuto sociale se non per semplice
convenienza economica – ai privati; si pensi al veloce trasferimento dei
servizi sanitari italiani ad aziende private, con la scusa della
necessità dei tagli e con conseguente destrutturazione della sanità
pubblica. La spesa sanitaria italiana è al 7% del Pil (111 Mld di Euro),
quella privata è già attorno ai 20 mld. Il “Ce lo chiede l’Europa”
porterà la spesa sanitaria pubblica al 6% del PIL entro il 2017
permettendo ai servizi sanitari privati di conquistarsi un’ulteriore
succulenta fetta di settore a costi crescenti per gli utenti (come
succede già per il settore energetico e per i servizi autostradali, per
esempio). Poco importa se gli italiani che non possono permettersi le
cure necessarie sono ormai 10 milioni: gli altri pagheranno
profumatamente i servizi a pochi ologopolisti.
Tstipras entra a gamba tesa sugli interessi economici delle oligarchie private
e lo fa ribaltando la logica mainstream: se la riduzione di spesa
pubblica produce povertà e morte, cosa succederebbe se l’Europa fosse un
reale Stato intenzionato a praticare una formidabile politica economica
di investimenti pubblici? I punti 2, 19 e 36 del programma di Syriza
recitano:
2. Esigere dalla Ue un cambiamento nel ruolo della Bce perché finanzi direttamente gli Stati e i programmi di investimento pubblico;
19. Nazionalizzare le imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, acqua …);
36. Nazionalizzare gli ospedali privati. Eliminare ogni partecipazione privata nel sistema pubblico sanitario.
Si tratta di azioni di politica economica che implicano la
sottrazione al privato di succulente fette di mercato dove c’è scarsa
concorrenza (e dove, quindi, fanno affari d’oro le poche aziende che si
aggiudicano la fornitura del servizio); sono azioni di politica
economica che hanno il loro fondamento teorico proprio nel reale funzionamento del meccanismo del moltiplicatore:
se una riduzione di spesa pubblica impatta per 1,5 volte sulla
riduzione del PIL, al contrario un aumento della spesa pubblica – che
implica un possente intervento pubblico in economia – incrementerà il
PIL per un valore pari a 1,5 volte l’aumento della spesa; nell’immediato
i criteri di convergenza del Patto di Stabilità e Crescita europeo non
verranno rispettati (verrà sforato il 3% del rapporto spesa/PIL), ma
l’aumento della ricchezza genererà lavoro, quindi più entrate fiscali perché la base imponibile aumenterà e, in un periodo breve, permetterà la riduzione delle aliquote fiscali per le fasce di reddito medio-basse, migliorandone le condizioni di vita.
In Italia c’è chi ha fatto una simulazione degli effetti
sull’economia di un aumento della spesa pubblica in disavanzo per 70
Miliardi: 50 miliardi destinati al reddito di cittadinanza e 20 miliardi destinati ad investimenti produttivi
(manutenzione idrogeologica e degli istituti scolastici, banda larga
etc.). E’ il Prof. Nino Galloni , membro effettivo del Collegio dei
Sindaci INPS, già Professore di Economia alla Cattolica di Milano, a
Roma, Modena e ricercatore a Berkely. Settanta miliardi sono il 4,5% del
PIL, quindi se un ipotetico Governo – che al momento non esiste –
decidesse di investire 70 miliardi lo farebbe scientemente non
rispettando i parametri di convergenza: sforerebbe il rapporto
deficit/PIL, il cui limite è il 3%, come noto. Ma questo aumento di
spesa genererebbe – secondo il moltiplicatore calcolato dallo stesso FMI
– un aumento di PIL pari a 1,5 volte i 70 miliardi per il primo anno,
quindi genererebbe un aumento di PIL del 6,75% (4,5% + 2,25%); questo
6,75% di maggiore PIL sarà tassato al 50% (che è la pressione fiscale in
Italia) e, alla fine dell’esercizio, rientrerano nelle casse dello
Stato il 6,75/2 = 3,375% del PIL. Alla fine lo Stato avrà speso il
4,50% del PIL ed incassato il 3,375% di PIL in imposte: la spesa netta a debito
(da finanziarsi con l’emissione di Bot o BTP) sarà uguale a 1,125% del
PIL (4,50% – 3,375%), pari a poco più di 23 miliardi di Euro, mentre
l’incremento di PIL sarà pari a circa 105 miliardi nel primo anno. E
cosa succede al rapporto debito PIL, incubo di tutte le tecnocrazie
europee? Il rapporto crolla nel giro di pochi anni.
Paramentro
|
2013
|
2014
|
2015
|
2016
|
Debito
|
2105
|
2128
|
2152
|
2176
|
Pil
|
1565
|
1670,63
|
1783,40
|
1903,77
|
Debito/PIL
|
134,5%
|
127,5%
|
120,6%
|
114,2%
|
Previsioni di riduzione rapporto debito/PIL per una aumento di spesa pubblica del 4,50% annuo di PIL (spesa netta dell’1,125%)
Al netto di una serie di considerazioni che, dal punto di vista
macroeconomico, sono scarsamente rilevanti (la corruzione e l’evasione
restano stabili in Italia, nonostante i continui trasferimenti di interi
pezzi di attività pubbliche al privato), si dimostra, dunque, che la Tsipranomics,
cioè le ricette economiche basate su un indiscusso controllo dello
Stato su fondamentali settori dell’economia, produce reddito, quindi
occupazione e quindi libera le genti dall’assillo di un reddito calante e di un futuro incerto.
Appaiono allora chiarissimi i motivi per i quali i tecnocrati europei
– che tanto “tecnici” poi non sono – accusano il greco di essere contro
l’Europa: Tsipras è contro questa Europa che, terrorizzando le
persone con lo spauracchio della disoccupazione, promuove gli interessi
di un’unica classe di eletti: quella degli oligarchi che accentrano
nelle proprie mani rendite di posizione e mezzi di produzione.
Su ciò, se non fosse complice di questa deriva, dovrebbe riflettere
una classe politica degna di tal nome: al netto di appelli al leader
greco fuori tempo massimo come quello di Stefano Fassina (anticipato da
un’analisi economica corretta della deriva europea pubblicata su Italianieuropei) urge una presa di posizione netta e definitiva sul valore che i politici italiani danno al termine dignità umana e tutela dei diritti. E’ già troppo tardi.
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