(http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2013/02/proletario-chi-sei-veramente-di.html)
ho sostenuto che parlare di “imborghesimento” del proletariato (negli
anni ’60-’70) e di “proletarizzazione” del ceto impiegatizio (per
effetto della crisi) non è molto corretto, dal punto di vista marxiano,
perché fino a quando i mezzi di produzione restano in mano altrui il
lavoratore non ha modo di elevarsi dalla sua condizione di minorità
proletaria. Per quanto ben pagato, l’operaio non diventerà mai un
borghese, nemmeno “piccolo piccolo”.
Le
citate semplificazioni, tuttavia, servono a descrivere un fenomeno
reale: l’ingresso del ceto lavoratore nella società dei consumi e la sua
effimera “promozione sociale”, iniziata nel secondo dopoguerra e
bruscamente arrestatasi dopo la caduta del blocco sovietico e la c.d.
fine della storia (auspicata, più che riscontrata, da Francis Fukuyama,
ottimo esempio di intellettuale organico e manipolatore psyops). Ciò che ci hanno insegnato a considerare undestino,
ossia il frutto dell’incivilimento umano (perlomeno in Occidente), è
stato reso possibile, in verità, da specifiche contingenze
storico-politiche: l’esigenza, da un lato, di alimentare il boom
economico, e la paura serpeggiante nelle elite economiche, dall’altro,
che alle masse europee venisse voglia di “fare come in Russia”. Ho
affermato, in varie occasioni, che il padre dello Stato sociale
novecentesco è Lenin… un padre assente, lontano, ma senz’altro temuto
dai “tutori” del popolo.
Questo
progresso sociale si è tradotto in un sensibile miglioramento degli
stili di vita e nella concessione di un certo numero di diritti
sostanziali. E’ lecito affermare che la legislazione sul lavoro, lo
sviluppo dei sindacati ecc. hanno fornito al proletario una scorta, un
bastone cui appoggiarsi quando si recava al mercato per trattare la
vendita di sé medesimo: con le spalle coperte da organizzazioni
nazionali e da un legislatore attento, il lavoratore cresceva in statura
e fierezza, presentandosi alla controparte come moltitudine.
Il problema è che le conquiste della seconda metà del ‘900 non avevano determinato un effettivo mutamento di sistema, ma solo la sua umanizzazione, e pertanto rimanevano provvisorie: una legge può essere abrogata, una tutela tolta, una garanzia eliminata. Se impiegati ed operai avessero ottenuto il controllo immediato sulla produzione, fossero entrati in direzione, scalzarli dalle nuove posizioni sarebbe stato assai arduo: visto che invece l’antitesi padrone-dipendente (o, per dirla con Karl Marx, borghese-proletario) non fu superata, l’elite mantenne la possibilità di fare retromarcia al mutare delle circostanze. In sintesi, la classe lavoratrice non si sottrasse al guinzaglio, pur godendo, per una trentina d’anni, di un’insperata libertà di movimento. Libertà purtroppo illusoria, perché octroyée, non strappata con la lotta e una mobilitazione permanenti.
Il
simbolo di quella che fu, nonostante tutto, un’età dell’oro è lo
Statuto dei Lavoratori, varato nel ’70, che non per caso è oggetto di
una violenta campagna denigratoria e di attacchi concentrici. Il clamore
intorno all’articolo 18 non deriva dall’efficacia pratica della norma,
bensì dal fatto che essa attesta una teorica parità tra datore e
prestatore di lavoro – la sua cancellazione, testardamente perseguita da
pratici (Monti) e teorici (Alesina, Giavazzi) del liberismo, servirebbe
a certificare che la ricreazione è finita. Al padronato non basta più
sfruttare i “collaboratori”: pretende che sia riconosciuto il suo
diritto a farlo, e le maestranze si sottomettano pubblicamente. In
quest’ottica, la presenza di un sindacato libero è intollerabile:
scendere a patti, umiliarsi, ingiallire non basta – alle associazioni si chiede di scomparire o, al limite, di occuparsi d’altro (consulenze, gestioni di fondi et similia).
Non ho
impiegato per sfizio parole come “certificazione” e “pubblicamente”: il
mondo si è già evoluto nel senso indicato dalle elite economiche, e il
processo appare irreversibile. L’austerità sta a Maastricht come una
mitraglietta al piano di una banda di rapinatori: serve alla sua rapida
esecuzione.
Per evitare
intoppi si desidera dare una dimostrazione di forza, piegando il diritto
alla realtà dei fatti. Questi ci dicono, con la brutale laconicità
delle cifre diffuse dai giornali radio, che il lavoratore è di nuovo
nudo davanti al padrone, come ai tempi de Il Capitale, e perciò il suo
potere contrattuale risulta azzerato. Secondo la CGIA (associazione di
artigiani e piccole imprese, non ridotto bolscevico) di Mestre, nel 2012
sono state aperte 549 mila nuove partite IVA, il 38,5% delle quali su
iniziativa di giovani sotto i 35 anni. Rispetto al 2011 l’aumento è del
2,2%, ma la crescita tra gli infratrentacinquenni è dell’8%.
L’entusiasmo e la creatività giovanile come antidoti alla crisi? Purtroppo il fenomeno non si presta a letture ottimistiche. Il segretario della CGIA, Bortolussi, rileva che “questi nuovi autonomi lavorano prevalentemente per un solo committente”, sono cioè lavoratori dipendenti travestiti da autonomi. Come quello indossato dal re di una canzone popolare, il vestito è da povero: i nuovi iscritti sono destinati a guadagnare poco, al pari dei precari “ufficiali” (so di una giovane laureata cui è stato proposta una retribuzione di 750 euro per 40 ore settimanali – si noti che tra i requisiti per l’assunzione figurava la laurea!), senza tutele né prospettive pensionistiche e di accesso al credito bancario. Giornalieri, nelle mani di un caporalato ai sensi di legge.
A
questa generazione di infelici i Monti e gli Olli Rehn (che da ragazzo
ha giocato nella massima serie finlandese di calcio, ma soprattutto ha
studiato economia in Minnesota) affidano un compito mica da ridere: far
crescere l’Europa. Il come l’abbiamo già detto: faticando per un bianco e un nero,
schiavi di un mondo brutal che li asservisce col ricatto del posto.
Saranno forzatamente frugali, ma non potranno rinunciare a spendere per
l’assicurazione medica, quella pensionistica e, magari, l’acqua
privatizzata. Animali da soma che, fiaccati da una vita stressante,
andranno in quiescenza soltanto per morire.
Il futuro disegnato per l’Europa dal Capitale si riassume agevolmente in due formule: lavoro low cost e privatizzazione integrale dell’economia. A questa vision non sono ammesse alternative.
Conclusione logica, ma impegnativa: non si può modificare questo stato di cose né impedire l’acuirsi di ingiustizia sociale e miseria se non si elimina il dualismo tra padrone e servo (ufficialmente libero). Quello che si doveva fare cinquant’anni fa va fatto oggi, senza indugio. Il sistema capitalista non è riformabile, o meglio: riformarlo significa renderlo più efficiente, sfruttando al massimo il motore (la forza lavoro) e riducendo gli “sprechi” (welfare e aiuti ai più poveri). Diamo a Monti quel che è di Monti: tutte le sue mosse sono coerenti con una precisa volontà “riformatrice”. Senza l’indigenza il capitalismo non sta semplicemente in piedi: presupposto della ricchezza dei pochi è la povertà dei molti.
Una società
basata sul libero mercato non è in grado di assicurare, se non per brevi
periodi eccezionali, un benessere generalizzato – e questo non perché
sia “ancora imperfetta”, ma perché le esigenze del Capitale sono
antitetiche rispetto ai bisogni delle masse.
Siamo di fronte a un aut aut: trasformazione radicale o barbarie.
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