Il Movimento Cinque Stelle prefigura una comunità che non è
riconducibile alle forme della politica tradizionale. È fondata sulla
partecipazione diretta, stretta in una rete che collega, ma anche intrappola
Il M5S ci ha messi di fronte a un’inedita geografia elettorale,
fatta di rete e di reti, più che di fortini rossi e neri. Esso esprime
perfettamente questa riconfigurazione dello spazio politico italiano, non solo
per il suo ricorso a Internet come quadro e dispositivo organizzativo, ma
perché propone un passaggio da un regime all’altro: dal territorio alla rete,
dall’alto al basso, dall’“uno per tutti” all’“uno vale uno”.
Di fronte a tutto questo, la reazione dominante è stata
inizialmente quella della sottovalutazione focalizzandosi spesso sull’elemento
meno indicativo, come dimostra l’esempio dell’accusa di populismo, l’argomento
più frequentemente usato nell’analisi del M5S. Si è parlato di populismo
democratico, di populismo di sinistra, ecologico, postmoderno, di web-populism.
E se dietro l’albero di quello che si definisce populismo si
nascondesse in realtà una foresta del tutto diversa? Per cercare di capirlo si
potrebbe forse partire non da un giudizio denigratorio del M5S e del suo
leader, ma piuttosto da una domanda che chiunque dovrebbe porsi per decidere a
chi dare il proprio voto. Un elettore, infatti, decide non solo in base a un
programma e agli strumenti messi in atto per realizzarlo, ma anche in base a
una più generale visione del mondo che un partito o un movimento propone e che
corrisponde o meno ai suoi valori.
Qual è il modello di società (e non solo economico, produttivo,
distributivo) dello stare insieme previsto dal M5S? Da tempo Beppe Grillo nei
suoi comizi utilizza sempre di più la parola e il concetto di Comunità rispetto
a quella di Movimento.
Non dichiarandosi un partito con dei valori e delle ideologie
manifesti attorno ai quali riconoscersi, il M5S propone così il rudimento dello
stare insieme, la comunità. Quella alla quale si accede prima di tutto in rete,
su Internet, nella quale è facile esistere, relativamente semplice circolare,
ma che è difficile da scalare.
Così, quel Tutti a casa urlato nelle 70 piazze dell’ultimo tour
elettorale non appare più come l’ennesimo rigurgito populista, come
aggiustamento consustanziale al funzionamento democratico. Ma piuttosto come un
enunciato performativo, come l’atto fondativo di una comunità, che – proprio
come quando si fonda o si conquista una città – ha bisogno di distruggere,
bruciare, radere al suolo, ricominciare da zero.
Questa comunità non si proclama né di destra né di sinistra, il
che equivale a voler scardinare e a sostituirsi alle due “comunità ideologiche”
di riferimento la cui logica, l’ideologia appunto, è considerata desueta,
infondata, non più aderente alla realtà. Non è un caso che un altro degli
slogan del M5S sia Non ci sono idee di destra o di sinistra, ma solo buone o
cattive idee. Questo argomento si basa sulla premessa che le cattive o buone
idee siano là, oggettive, quasi reificate e pronte ad essere identificate al di
là del proprio orientamento politico. Ma i membri di una comunità come se le
formano le idee che sono sempre e comunque frutto di un’ideologia, cioè di una
logica di composizione dell’idea?
Per ora l’unica indicazione circa l’idea di comunità parrebbe essere
quella contenuta nel video intitolato “Gaia” e rispetto al quale si ha la
stessa reazione che si aveva nei confronti della Padania liquidata come il
delirio di un singolo. La “Padania non esiste”, si diceva liquidando l’allora
emergente fenomeno leghista. E invece la Padania esiste, o comunque è esistita,
nella misura in cui un cospicuo gruppo di persone l’ha pensata, l’ha
pronunciata traducendola in un progetto politico e di società nel quale un
gruppo organizzato si è riconosciuto. Dal 1992 al 2013 la Padania si è seduta
tra i banchi del parlamento italiano contribuendo a orientare il Paese, in
maniera più o meno ininterrotta.
L’esperienza “leghista” – oltre a mostrare che, come la storia,
anche la geografia ha i suoi avvenimenti – non è bastata a insegnare a prendere
sul serio la portata trasformatrice dei movimenti emergenti. (La Lega e il M5S
comunque hanno in comune solamente il modo in cui sono stati inizialmente
sottovalutati e trascurati).
La comunità proposta dal M5S ricorre alla partecipazione come
pratica di governo (almeno come aspirazione, per la pratica – a livello
nazionale – c’è da aspettare gli eventi).
Questa partecipazione è fatta di strumenti e di attori. Dal punto
di vista degli strumenti, la rete, il blog di Grillo s’innesta su consolidate
pratiche ordinarie di conversazione online nelle quali Internet si presenta
come un riattivatore delle capacità espressive degli individui e come
un’alternativa al controllo sull’opinione e sul dibattito pubblico esercitato
dalle élite mediatiche.
Dal punto di vista degli attori, la partecipazione praticata dal e
nel M5S rimette al centro il cittadino e propone l’idea che anche quest’ultimo
è portatore di un’expertise utile al governo del paese, soprattutto se viene
dopo un ventennio durante il quale la questione della competenza è stata
ampiamente marginalizzata. La partecipazione dei cittadini al parlamento
eviterebbe ogni forma e livello di mediazione rendendo ogni cittadino capace di
gestire la res pubblica. Questo sistema di governo sembra basarsi su quella che
si potrebbe definire un’ingiunzione partecipativa. Nel senso che il cittadino
per appartenere alla comunità deve partecipare attivamente alla gestione di
quest’ultima senza poter scegliere liberamente, per motivi razionali o emotivi,
se e cosa delegare.
Eppure chi ha un minimo di conoscenza o di esperienza di pratiche
e processi partecipativi all’interno di organizzazioni (siano esse movimenti o
partiti) sa che l’atto partecipativo in sé non basta a rendere uguali. La
partecipazione in quanto processo, e non come semplice metodo, è co-costruzione
di ogni singolo elemento del reale sul quale si vorrebbe agire. Co-costruzione
dell’analisi del punto di partenza, dei problemi che lo caratterizzano,
dell’obiettivo cui si tende, delle politiche da realizzare, dei mezzi
utilizzati. E anche del modo in cui parlare al Mondo. Un esempio positivo in
questo senso viene dai grandi movimenti internazionali come quelli di Porto
Alegre, di Seattle, di Occupy wall street, degli Indignados. Questi movimenti
internazionali hanno due caratteristiche in comune. La prima: non si dichiarano
una comunità ma piuttosto parlano alla società, cioè a un insieme composito,
eterogeneo, solidale, compatto, intelligente e riflessivo, nel senso di Ulrich
Beck. La seconda: questi movimenti, profondamente partecipativi, orizzontali e
nati dal basso, non hanno leader particolari e unanimemente riconosciuti.
Aspettando la società
Rispetto al M5S, la vera questione sembra essere un’altra. Fin
quando si potrà fare l’economia del modello di società, mondiale e italiana,
proposta dal M5S col pretesto, comprensibile certo, di dare priorità ai punti
programmatici rappresentati dalle cinque stelle? Domanda tanto più urgente se
si considera inoltre che alla prossima tornata elettorale il Movimento (o
almeno il suo leader) aspira al 100% dei voti?
Il problema non è tanto cosa succederà quando la famosa democrazia
liquida del M5S incontrerà la materialità di un Parlamento e delle sue leggi,
ma piuttosto cosa succederà quando questa comunità pretenderà di sostituirsi
alla società. La comunità cui si fa riferimento sembra ricordare a tratti
quella descritta da Tönnies: omogenea, nella quale bisogna accettare le regole
così come sono, quella del vincolo (di sangue, di luogo, di mezzi), quella a
cui si “appartiene” e non di cui si fa parte, quella che si muove in blocco. La
comunità che, come tanti ci hanno insegnato, è l’opposto della società.
Il futuro di questa comunità e del Mondo, ci dicono, sarà la rete.
La polisemicità di questa parola appare però agli esitanti come
una profezia. La rete collega, mette in relazione, ma essa richiama anche la
più antica delle trappole dei pescatori: essa imbriglia, cattura, diventando il
contorto e fitto perimetro della partecipazione.
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