Se
la storia non è storia di lotta di classi, che cos’è ? Storia dello
spirito general-generalista, nel suo percorso di avvicinamento ad
Almotasim ? Oppure è geopolitica delle puntuazioni di potenza espresse
dai territori che poi diventano nazioni sotto la spinta delle famiglie
di sangue blu, che successivamente si fanno la guerra quando non trovano
la mediazione attraverso i matrimoni tra le varie discendenze interne ?
Se la storia non è storia di lotta tra classi, cos’è ? E’ la storia dei conflitti tra le borghesie locali, poi nazionali, nel loro imperituro rincorrersi per un posto al sole che ne salvaguardi lo spazio vitale ? Lo spirito finiva qui ?
Ed oggi, se non è storia di lotta di classi, è forse il movimento astratto del capitale svincolato da ogni soggettività storica, una sorta di serpente che si morde la coda e che, solo mordendosi la coda, scatena catastrofi ?
Ma anche se fosse l’ultima di queste cose, e cioè se la storia fosse oggi solo il movimento di una macchina metafisico-tecnologica, inumana, autosufficiente, che per perpetuarsi ha solo bisogno che il suo meccanismo di estrazione di profitto resti intatto perché ne costituisce il cuore, anche se fosse così, abbiamo avuto bisogno, guarda caso, di ri-coniare e rinverdire il termine “elites”, per ricollocare questo movimento dentro la storia stessa. Altrimenti, se questo movimento fosse fuori dalla storia, non vi sarebbe da parlare di alcunché. Né di soggettivare l’insoggettivabile.
Senza “le elites”, né noi, né Diego, né Costanzo, avremmo avuto modo di esprimere nulla.
La questione è quindi che una nuova classe è emersa, più ridotta e più compatta, transnazionale, globale, universale (ma è sbocciata come un fiore o un fungo, cristallino o purulento, dalla borghesia); una superclasse dell’1% (se va bene), che regna; e che, in condizione della sua ridottissima entità quantitativa, ma della sua enorme densità di potenza, analoga a quella dei buchi neri dentro i quali tutto inesorabilmente cade, ha scalzato tutte le classi precedenti, le quali le ruotano attorno, come satelliti in attesa di essere inesorabilmente annientati nel suo vortice.
Quindi c’è una soggettività “oggettiva”, storica, che accompagna il fenomeno astrale del globalismo neoliberista: Le Elites. Che questa soggettività possa mutare in tempi molto rapidi, che mostri dei bagliori incomprensibili, delle variazioni parziali nello spazio e nel tempo, che accolga movimenti satellitari bipartisan, che abbia bisogno di bipolarismo gravitazionale, ecc. ecc., ma che sia così difficilmente definibile, ne conferma solo la natura di potenza nuova ed altissima.
Compito fondamentale sarebbe quello di comprenderne la natura profonda, se c’è, oppure quella, superficialissima, di proiezione astrale, o di ologramma. Invece, nella difficoltà di forgiare nuovi strumenti euristici, si passa alle scorciatoie.
Il ritorno auspicato alle identità nazionali, localistiche, alla Kultur o allo Spirito o alle Identità, intesi come potenziali bastioni da ri-edificare contro il movimento delle elites (elites finanziarie, tecnologiche, ultra-ideologiche e neo-feudali allo tesso tempo) è ciò che Marx avrebbe definito come movimento re-azionario.
Per esempio, re-azionario è pensare di poter tornare all’economia “reale”, come se la realtà fosse postuma: è vero che l’opera può sopravvivere all’autore. Ma non l’autore a se stesso.
Re-azionario è pensare che la carta straccia che pervade l’orbe sotto forma di titoli e valori di svariata razza, non conti nulla, rispetto ad una realtà in sé che sarebbe costituita da un sano equilibrio tra beni e moneta circolante. Chi lo decide questo sano equilibrio ? E nel frattempo, quello insano, in cui siamo immersi, è reale o immaginario ? E’ produttivo (nel senso che muove qualcosa) oppure no ?
Re-azionario è pensare che la cultura ancestrale dei popoli, nella loro qualità intangibile ed originaria, sia l’ingrediente indispensabile per ri-fondare il nuovo, sulla base dell’antico, e quindi per scalzare le elites. (La tattica è fondamentale, ma non risolutiva; la tattica è utile se da qualche parte sta – magari nascosta, ma sta – la strategia e anche il nuovo mondo possibile. La tattica, infine, non è solo la narrazione).
La vasta mitologia messa in campo nelle reti per accreditare questa possibilità contempla una lunga lista di genetiche, di chimere, di OGM ideologici, degni del migliore manuale di zoologia fantastica.
Lo statu nascenti della rivoluzione contempla queste forme come corollario indispensabile, che costituisce i registri di comunicazione con le folle. In questo sono utili. Armi tattiche importanti, appunto.
Ma bisogna sapere e capire qual è il loro volume di fuoco e soprattutto chi le impugna nel tempo dato e perché e in quale direzione.
Il dato di fondo è il seguente: la borghesia (o quella cosa che così chiamavamo), non è più alla guida del processo, è stata scalzata dalle elites, appunto. In questa dislocazione ed emarginazione della borghesia, si consuma il più grande dramma della storia contemporanea: non dalla classe operaia, è stata scalzata la borghesia, ma dalle elites; si tratta di un fatto colossale, di cui la borghesia non riesce a darsi conto. Perché si attendeva l’attacco sull’altro lato, quello dell’antitesi, non quello della sintesi.
Nella sua riluttanza ad accettare il nuovo status di grande emarginata, essa re-agisce scalciando a destra e a manca, sperimentando tutte le strategie possibili, ma questo agitarsi spurio non le consente di acquisire la coscienza che sarebbe necessaria, indispensabile per collocarsi nel posto giusto: la borghesia rifiuta di assumersi come perdente, di essere stata sconfitta, di essere scomparsa.
La sua agitazione onirica, talvolta movimentista e talvolta parlamentarista, il suo volersi divincolare dalla morsa della nuova bestia, produce baccano e ottimi ingredienti per la comunicazione che alimenta talk-show, stampa, tv, rete, ecc. ecc., costituendo l’ingrediente più ricercato per consolidare la nuova scolastica delle elites, le quali osservano i balenamenti dei suoi scarti laterali e convulsi, dalla cima della piramide.
Il fatto che la borghesia (o quella cosa che così chiamavamo) non accetti la sconfitta e reclami il suo palco di prim’ordine lontano dal loggione, come se ancora esistesse, non le fa balenare in testa che in realtà si trova già sul palcoscenico, insieme agli altri poveri attori, per il maggior gaudio del principe.
Allora tende a differenziarsi, a riportare in auge le sue grandi qualità storiche, quelle forze immense che furono in grado tagliare montagne e aprire nuovi mari e innalzare ponti e grattacieli, e gli altri infiniti manufatti della sua straordinaria opera. (Che però, sempre da lavoratori e operai furono realizzati, almeno secondo Brecht).
Tra le tante cose, nel suo successivo de-cadere, adesso ritira fuori dalla tasca quella grande innovazione che ne costituì la sua fonte di potenza (ma che in verità, era nata prima di lei): la sovranità. Dentro la sovranità, la sua coscienza infelice, la sua inquietudine, seppe edificare il meglio.
Scomparsa la sovranità, intuisce la sconfitta (già avvenuta); le elites la costringono dentro il cappio della competitività tra i territori, una tenzone che prima ha annientato la classe operaia (e va bene) e adesso comincia a strozzarla definitivamente, riducendo tutta la sua varietà genetica (e nazionale), ad un melting-pot insignificante.
In questa tragica situazione, la borghesia ha solo due possibilità: riprendere in mano le redini servendosi della plebe come massa di manovra da scagliare contro le elites, oppure abbassare la cresta: riconoscere di essere la nuova grande proletaria. Condividere con umiltà le mense popolari con quelli che hanno già vissuto prima il procedimento, insomma fare un po’ di penitenza.
Gli umili sono sempre ben disposti a condividere il pane. E condividere il pane con gli umili costituisce sempre un grande elemento di chiarificazione interiore.
La ricomposizione del proletariato contro le elites, l’assalto al valore di carta straccia, cioè l’assalto al cuore del sistema di finanza, cioè la cattura della pietra filosofale monetaria, o l’abbattimento del vitello d’oro, sono possibili, se mai lo saranno, solo per questa seconda via.
Come diceva Battiato, la rivoluzione la fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso (e ora, per sua necessitata costrizione, di regresso). Per questa via, io la rivoluzione non la faccio. E non riuscirà a farla neanche ciò che resta della borghesia.
Se la storia non è storia di lotta tra classi, cos’è ? E’ la storia dei conflitti tra le borghesie locali, poi nazionali, nel loro imperituro rincorrersi per un posto al sole che ne salvaguardi lo spazio vitale ? Lo spirito finiva qui ?
Ed oggi, se non è storia di lotta di classi, è forse il movimento astratto del capitale svincolato da ogni soggettività storica, una sorta di serpente che si morde la coda e che, solo mordendosi la coda, scatena catastrofi ?
Ma anche se fosse l’ultima di queste cose, e cioè se la storia fosse oggi solo il movimento di una macchina metafisico-tecnologica, inumana, autosufficiente, che per perpetuarsi ha solo bisogno che il suo meccanismo di estrazione di profitto resti intatto perché ne costituisce il cuore, anche se fosse così, abbiamo avuto bisogno, guarda caso, di ri-coniare e rinverdire il termine “elites”, per ricollocare questo movimento dentro la storia stessa. Altrimenti, se questo movimento fosse fuori dalla storia, non vi sarebbe da parlare di alcunché. Né di soggettivare l’insoggettivabile.
Senza “le elites”, né noi, né Diego, né Costanzo, avremmo avuto modo di esprimere nulla.
La questione è quindi che una nuova classe è emersa, più ridotta e più compatta, transnazionale, globale, universale (ma è sbocciata come un fiore o un fungo, cristallino o purulento, dalla borghesia); una superclasse dell’1% (se va bene), che regna; e che, in condizione della sua ridottissima entità quantitativa, ma della sua enorme densità di potenza, analoga a quella dei buchi neri dentro i quali tutto inesorabilmente cade, ha scalzato tutte le classi precedenti, le quali le ruotano attorno, come satelliti in attesa di essere inesorabilmente annientati nel suo vortice.
Quindi c’è una soggettività “oggettiva”, storica, che accompagna il fenomeno astrale del globalismo neoliberista: Le Elites. Che questa soggettività possa mutare in tempi molto rapidi, che mostri dei bagliori incomprensibili, delle variazioni parziali nello spazio e nel tempo, che accolga movimenti satellitari bipartisan, che abbia bisogno di bipolarismo gravitazionale, ecc. ecc., ma che sia così difficilmente definibile, ne conferma solo la natura di potenza nuova ed altissima.
Compito fondamentale sarebbe quello di comprenderne la natura profonda, se c’è, oppure quella, superficialissima, di proiezione astrale, o di ologramma. Invece, nella difficoltà di forgiare nuovi strumenti euristici, si passa alle scorciatoie.
Il ritorno auspicato alle identità nazionali, localistiche, alla Kultur o allo Spirito o alle Identità, intesi come potenziali bastioni da ri-edificare contro il movimento delle elites (elites finanziarie, tecnologiche, ultra-ideologiche e neo-feudali allo tesso tempo) è ciò che Marx avrebbe definito come movimento re-azionario.
Per esempio, re-azionario è pensare di poter tornare all’economia “reale”, come se la realtà fosse postuma: è vero che l’opera può sopravvivere all’autore. Ma non l’autore a se stesso.
Re-azionario è pensare che la carta straccia che pervade l’orbe sotto forma di titoli e valori di svariata razza, non conti nulla, rispetto ad una realtà in sé che sarebbe costituita da un sano equilibrio tra beni e moneta circolante. Chi lo decide questo sano equilibrio ? E nel frattempo, quello insano, in cui siamo immersi, è reale o immaginario ? E’ produttivo (nel senso che muove qualcosa) oppure no ?
Re-azionario è pensare che la cultura ancestrale dei popoli, nella loro qualità intangibile ed originaria, sia l’ingrediente indispensabile per ri-fondare il nuovo, sulla base dell’antico, e quindi per scalzare le elites. (La tattica è fondamentale, ma non risolutiva; la tattica è utile se da qualche parte sta – magari nascosta, ma sta – la strategia e anche il nuovo mondo possibile. La tattica, infine, non è solo la narrazione).
La vasta mitologia messa in campo nelle reti per accreditare questa possibilità contempla una lunga lista di genetiche, di chimere, di OGM ideologici, degni del migliore manuale di zoologia fantastica.
Lo statu nascenti della rivoluzione contempla queste forme come corollario indispensabile, che costituisce i registri di comunicazione con le folle. In questo sono utili. Armi tattiche importanti, appunto.
Ma bisogna sapere e capire qual è il loro volume di fuoco e soprattutto chi le impugna nel tempo dato e perché e in quale direzione.
Il dato di fondo è il seguente: la borghesia (o quella cosa che così chiamavamo), non è più alla guida del processo, è stata scalzata dalle elites, appunto. In questa dislocazione ed emarginazione della borghesia, si consuma il più grande dramma della storia contemporanea: non dalla classe operaia, è stata scalzata la borghesia, ma dalle elites; si tratta di un fatto colossale, di cui la borghesia non riesce a darsi conto. Perché si attendeva l’attacco sull’altro lato, quello dell’antitesi, non quello della sintesi.
Nella sua riluttanza ad accettare il nuovo status di grande emarginata, essa re-agisce scalciando a destra e a manca, sperimentando tutte le strategie possibili, ma questo agitarsi spurio non le consente di acquisire la coscienza che sarebbe necessaria, indispensabile per collocarsi nel posto giusto: la borghesia rifiuta di assumersi come perdente, di essere stata sconfitta, di essere scomparsa.
La sua agitazione onirica, talvolta movimentista e talvolta parlamentarista, il suo volersi divincolare dalla morsa della nuova bestia, produce baccano e ottimi ingredienti per la comunicazione che alimenta talk-show, stampa, tv, rete, ecc. ecc., costituendo l’ingrediente più ricercato per consolidare la nuova scolastica delle elites, le quali osservano i balenamenti dei suoi scarti laterali e convulsi, dalla cima della piramide.
Il fatto che la borghesia (o quella cosa che così chiamavamo) non accetti la sconfitta e reclami il suo palco di prim’ordine lontano dal loggione, come se ancora esistesse, non le fa balenare in testa che in realtà si trova già sul palcoscenico, insieme agli altri poveri attori, per il maggior gaudio del principe.
Allora tende a differenziarsi, a riportare in auge le sue grandi qualità storiche, quelle forze immense che furono in grado tagliare montagne e aprire nuovi mari e innalzare ponti e grattacieli, e gli altri infiniti manufatti della sua straordinaria opera. (Che però, sempre da lavoratori e operai furono realizzati, almeno secondo Brecht).
Tra le tante cose, nel suo successivo de-cadere, adesso ritira fuori dalla tasca quella grande innovazione che ne costituì la sua fonte di potenza (ma che in verità, era nata prima di lei): la sovranità. Dentro la sovranità, la sua coscienza infelice, la sua inquietudine, seppe edificare il meglio.
Scomparsa la sovranità, intuisce la sconfitta (già avvenuta); le elites la costringono dentro il cappio della competitività tra i territori, una tenzone che prima ha annientato la classe operaia (e va bene) e adesso comincia a strozzarla definitivamente, riducendo tutta la sua varietà genetica (e nazionale), ad un melting-pot insignificante.
In questa tragica situazione, la borghesia ha solo due possibilità: riprendere in mano le redini servendosi della plebe come massa di manovra da scagliare contro le elites, oppure abbassare la cresta: riconoscere di essere la nuova grande proletaria. Condividere con umiltà le mense popolari con quelli che hanno già vissuto prima il procedimento, insomma fare un po’ di penitenza.
Gli umili sono sempre ben disposti a condividere il pane. E condividere il pane con gli umili costituisce sempre un grande elemento di chiarificazione interiore.
La ricomposizione del proletariato contro le elites, l’assalto al valore di carta straccia, cioè l’assalto al cuore del sistema di finanza, cioè la cattura della pietra filosofale monetaria, o l’abbattimento del vitello d’oro, sono possibili, se mai lo saranno, solo per questa seconda via.
Come diceva Battiato, la rivoluzione la fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso (e ora, per sua necessitata costrizione, di regresso). Per questa via, io la rivoluzione non la faccio. E non riuscirà a farla neanche ciò che resta della borghesia.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua